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Autore: wiston87    06/06/2014    1 recensioni
Il protagonista di questo pazzo racconto ha un unico grande sogno: andare in piazza San pietro il giorno della messa di natale e gridare DIO PO*CO col megafono. Riuscirà a realizzarlo?
Genere: Avventura, Commedia, Demenziale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PORCO DIO: mai doppiezza al mondo era stata più inarcata che al suono sinuoso di quelle due dolci parole. Se per migliaia, milioni, miliardi di credenti rappresentavano l’apice della scorrettezza cosmica, un effige maledetta pronunziata la quale si doveva venir d’obbligo scacciati dai luoghi di ristoro e dalle colonne d’Ercole che sin dall’alba del mondo sorreggevano quel che è lecito e quel che non lo è (l’intera spocchiosa scala valoriale per mezzo della quale i pezzenti si dicevano l’un l’altro di essere dei grandi geni!), per me rappresentavano invece la vetta pura e smaniosa della poesia universale: assieme, le vedevo salire alla ribalta del firmamento nelle serate in cui il cielo era particolarmente limpido, sereno, giubilante; s’inarcavano nelle intersezioni implicite dello spazio formando intersezioni immaginarie tra le costellazioni.
Le vedevo sibilare rapaci tra le labbrone smorte e siliconate di transessuali ed operai edili, muratori e macchiette, nullafacenti e tutto-fare con null’altro per la testa che portare a casa la pagnotta e nel frattanto che l’orario lavorativo non s’era ancora concluso, stemperare la tensione di una vita in disuso con quel leggiadro suono di violini e meste preghiere al Diavolo: DIO PORCO.
Per questo, decisi un giorno in uno schizzo improvviso (piombatomi addosso appena dopo una sbronza solitaria a base di benzina, vetriolo, e pillole coloratissime col sorriso stampato impresso), tutti avrebbero dovuto udire nella sua massima espressione l’imprecazione bestemmiatrice massima.
Perché no? In fondo non avveniva già lo stesso nel caso delle grandi opere letterarie; Divina Commedia e simili mega-stronzate elogiate ai quattro venti da mill’anni almeno da un fiotto sanguinolento di checche inacidite? E per i film d’autore con Fellini, fellatio, e Rocco Siffredi in primis, a trainare il gran convoglio dello sfintere masturbatorio del pianeta? Perché allora il mio sempr’amato PORCO DIO (o DIO PORCO: che dir si voglia) non poteva avere lo stesso successo?
Doveva averlo: ne andava della sopravvivenza della mia specie.
O quantomeno: di quelli come me.
O in minima parte: di me e basta; ma tanto poco era sufficiente per darmi la prima fatale spinta facendomi rotolare urlante per fiotti di discese verticali e vortici di dissenso sguaiato; conducendomi dirimpetto all’irremovibile decisione di andar incontro alla mia missione.
Già, andarci incontro; ma posto che tra “il dire ed il fare” vi fossero di mezzo interi sterminate vallate transoceaniche di vite perdute a zonzo, come fare a tirar fuori il gatto dalla presa a morse per orsi zuzzurelloni o fin troppo distratti e restituire alla bestemmia per antonomasia la gran notorietà planetaria che già da sempre meritava?
Quell’idea pazzerella mi venne all’improvviso: sorniona, strisciante, catarifrangente. Come le strisce sapientemente oliate da mastri artigiani il cui merito si sperse nel dimenticatoio, causa di un sistema di marketing non proprio congeniali, per far attaccar untuose le mosche salvifiche ma fin troppo ronzanti.
E forse, nell’introduzione di quell’idea geniale in me, c’era stato un intervento provvidenziale di quello stesso Dio (PORCO!) che avrebbe voluto il suo nome gridato a gran voce dal sottoscritto, seguito fatiscente come la scia luminosa di una cometa dal fatidico animale merdoso e rosato: ebbro di gioia soltanto nel rotolarsi nella fanghiglia di vomito e sterco che era l’umanità.
Ero dunque predestinato?
Eccola quell’idea: sarei dovuto andare in piazza San Pietro munito di megafono il giorno della messa natalizia e in diretta televisiva mondiale, e nel bel mezzo del silenzio più assoluto avrei gridato tanto forte quel campionario che mi stava a cuore che persino le chiappe flaccide e sfondate della Madonna vergine o immensamente puttana che dir si voglia lassù in cielo si sarebbero messe a tremare selvatiche come un budino appena sfornato, trafitte a spada tratta dall’immane potenza corroborante di quelle onde sonore al fulmicotone!

Presi l’aereo e raggiunsi San Pietro in uno schiocco di dita.
Dato che non ci ero mai stato, non sapevo che vi fosse tanta selezione all’ingresso da parte di curiosi e stomachevoli energumeni incravattati. Scrutavano e palpeggiavano i passanti per controllar che non nascondessero pistole o lanciarazzi sotto le mentite spoglie di un presunto maxi cazzo eretto, con cui fare qualche astuto scherzetto al pontefice emuli dei servizi segreti bulgari; costolette di maiale (di porco!) eccessivamente ipercaloriche, o interpretazioni poco ortodosse della bibbia.
Non ebbi il tempo di pensare a come aggirare l’ostacolo: la smania spastica calatami dall’alto per adempire rettamente al compito assegnatomi dal demonio in persona m’aveva già fatto infilar una mano dritta in culo. Nulla di particolarmente strano, dato che avevo l’abitudine a infilarmi ogni sorta di escrescenza che somigliasse lontanamente a un fallo (anguille, aragoste, modellini di razzi teleguidati risalenti al periodo più propagandistico della guerra fredda: una volta m’ero pure messo una zucchina e mio padre se l’era pappata smerdata), se non fosse stato che in pugno stringevo pure il santissimo megafono benedetto che, un po’ rendendomi godurioso come una qualunque cagna e un po’ tagliuzzandomi l’intestino dall’interno come fosse stato il ventilatore di Freddy Krueger munito di lamelle, se ne stava comunque ben nascosto ed era questo che contava.
Con l’agilità degna del miglior ballerino di Tip Tap appena dopo che gli è esplosa una trapunta fosforescente in culo, spiccai un balzo felino oltre le guardie ed oltre gli ormeggi, omaggi, ostaggi di dogmi in disuso e festività natalizie che da lì a là circumnavigavano il territorio oltre il confine di piazza San Pietro: lo stramaledetto confine che ero appena riuscito a traversare senza che nessuno sospettasse nulla.
Anche se cominciavo ad avvertire un lieve senso di nausea mista vomito misto odor di morte (qualsiasi sia il sapor della morte: dato che chi l’ha provato veramente non può venirtelo a raccontare sono molto scettico a riguardo), il fatto stesso d’aver superato il primo ed ultimo decisivo passo verso la realizzazione del mio grande sogno bastava ed avanzava ad appagarmi, a non farmi pensare a nulla che non fosse l’obbiettivo.
Ammettiamolo: ero la quintessenza del tossico eroinomane che, vedendosi piombare addosso l’ultima ma non ultima incarnazione della bomba H quattro ruote motrici e doppio albero a camme in testa, pensa solo che deve iniettarsi in fretta e furia la stramaledetta scarica orgasmica per poterne trarre il godimento massimo prima del grande botto: evviva.
Guardai l’ora: mancavano sei ore scarse all’inizio della funzione.
La piazza cominciava a riempirsi, schiacciandomi nella massa pressata di quella merda fumante composta da faciloneria superstizione mediovalismo in senso stretto, e già dopo trenta secondi che condividevo la stessa aria con costoro iniziavano a sciogliermi i coglioni come tocchi di ghiaccio al microonde a quarantamila gradi fahrenheit: stavo sfollando come una campionessa di castità la cui fighetta stretta fosse stata usata come deposito nazionale per quintalate di peperoncini nucleari mega-piccanti.
Provai l’irresistibile desiderio di aver con me non un megafono bensì un carico di tritolo cubitale per farli saltar in aria a mo di kamikaze islamico; un immenso petardo napoletano con annesso capodanno anticipato e “tanti auguri di buone feste dall’altro mondo: schifosi vermi parassitari!”.
Fu la visione del cielo di nuvole bianche e rondini, oltre cui filtrava l’immagine ancillare di quel Dio (PORCO!) che da lì a breve avrei fatto salire alla ribalta dei rotocalchi di mezza costellazione a fornirmi un estremo monito per calmarmi: se fossi andato fuori dai gangheri sarei stato trascinato via a forza, ed il mio sogno sarebbe andato in frantumi.
Come per un subliminale istinto di auto-conservazione, ben sapendo che non avrei saputo reggere la pressione da sveglio, mi addormentai in piedi da un secondo all’altro.
BUM!
Sfortunatamente, quella tattica furbesca operata dal mio corpo automatizzato aveva anche un paio di difetti: primo tra tutti che era impossibile svegliarmi al momento giusto ed infatti quando aprii gli occhi era già il momento della santissima eucaristia.
Lì per lì fui subito tentato di estrarre il coniglio dal cilindro (per i meno allenati con le metafore: il megafono dal buco del culo!) e gridare l’ardua sentenza con tutta la voce che avevo in corpo, ma subito mi resi conto che quei canti bastardi l’avrebbero coperta quasi del tutto.
Ma in ogni caso, non potevo resistere a lungo!
Mi feci largo tra la folla, scavalcandola e schiacciando i presenti come un Monster Truck gigante con altri Monster Truck al posto delle ruote e mi diressi sull’altare, dove c’erano quei cazzo di fottuti cantanti angelici strimpellatori che facevano un baccano dell’ostia con le loro vocione peggiori di un concerto a base di martelli pneumatici; al primo misi una mano in gola e, assatanato, strappai le corde vocali.
Avevo l’intenzione di far lo stesso pure con gli altri ma questi, non appena si erano resi conto che qualcosa non andava, e che un ingranaggio mal ridotto del loro bel sistema perfetto stava svalvolando ben al di fuori dalle schema prescritto dal creatore, si erano subito taciuti, scappando in direzione opposta.
In quella frazione di secondo l’intera piazza taceva, attonita, e gli schiamazzi di terrore che da lì a poco sarebbero inevitabilmente sorti non erano ancora cominciati: era la mia grande occasione!
Quale grande idea supplementare non mi frantumò le meningi proprio allora!
Forse lievemente ottenebrato da un ansia da prestazione canora, oppure (chi lo sa?) colpito da un inarrivabile lampo di genio, dissi a me stesso me medesimo meglio conosciuto come colui che rispondeva al mio nome quando la gente lo chiamava: “dato che devo gridare non sarebbe forse cosa buona e giusta ingurgitare le corde vocali di quello pseudo-cantante lirico che ancora stringevo in mano, in modo da potenziare infinitamente per un buon fine la mia già possente voce?”.
Come fossero state il piatto ricco (mi ci ficco!) e prelibato del cenone di capodanno che non facevo da decenni, vale a dire da prima ancora della mia nascita prematura, me le ficcai per bene in bocca avendo però cura:
1) di sovrapporle alle altre e non farle arrivare invece nello stomaco come un qualunque alimento
2) di adagiarmi simmetricamente con l’altra mano nello sfintere posteriore per estrarre il sacrosanto megafono.
Forse mi sentivo il centro asintotico del mondo e delle sue leggi fisiche inerenti la conservazione dell’energia: nulla si crea nulla di distrugge ma eccetera; vale a dire che le corde vocali che entravano dovevano essere compensate dal megafono in uscita; ed il palco mondiale con quei milioni di occhi addosso non era un intrufolarmi quanto se mai un prendermi il posto che mi spettava fin dal principio: non fino al punto di considerarmi un Dio però, o mi sarei dato del porco da solo!
“Ma come!”, sento sguazzare critica una voce tra il pubblico, “non potevi aspettare e compiere i due movimenti uno dopo l’altro? Non solo li avremmo visti meglio, ma avesti pure potuto compierli con maggiore agilità, evitando quel tanto poco considerato rischio secondo cui (lo sanno anche i bambini!) la fretta è cattiva consigliera!”.
Di chi è la voce stridula appena intervenuta a commentare le me ardite gesta? Trattasi naturalmente (ma non tanto naturalmente, perché se non avessi precisato avreste capito male di brutto!) non di un ipotetico lettore astratto che, chi lo sa, un giorno avrà la sfiga nera d’imbattersi in questo malaugurato scritto partorito da un cervello in fricassea, ma di uno spettatore veramente lì presente in piazza, l’unico abbastanza intelligente e acuto o folle (le tal cose non si escludono necessariamente, anzi!) da aver saputo immedesimarsi in me con un minimo vaggito di empatia; forse arrivando addirittura non solo a fare il tifo per il sottoscritto, ma a desiderare ardentemente con tutte le sue più profonde aspirazioni sibilanti che quella rotella fuori posto che m’aveva fin lì condotto, sul ciglio della più grande trollata della storia del mondo, ripiegasse lievemente in senso circolare e su di una traiettoria a dir poco bizzarra, facendomi svalvolare del tutto e conducendomi dirimpetto a far saltare i botti.
Si trattava di Sir Serpellon Terzo, conte di Cornovaglia e Dalmazia, centotrentatreesimo sulla destra della cinquecentoventunesima fila a partire dal fondo.
Non ebbi il modo né il tempo di rispondergli con lo sguardo (non l’avrei mai fatto con la voce: dovevo risparmiarla per la gran bestemmia cubitale!), infatti fu tanto solerte da intravedere quel che già mezzo secondo prima anch’io avevo visto: che c’erano ben ventotto guardie svizzere armate fino ai denti che stavano salendo atletiche palco e altare, con l’agilità integerrima delle forze speciali Swatt; e che dopo 2.6/2.8 secondi netti (a seconda della variabile vento e del margine di sicurezza che avrebbero percorso per non rischiare di scivolare sul palco) sarebbero piombate in massa su di me, bloccandomi dal mio sacrosanto intento!
Quella visione terribile, ed il pensiero che tutto il mio proposito sarebbe potuto finire in nulla da lì ad un battito di ciglio, mi fece scattar rapido come un colpo alla botte: immediatamente estrassi il megafono dal suo pozzo nero con uno strattone degno del miglior campionario di tiro alla fune.
Quale corroborante visione lisergica multicolore non mi stese come il direttissimo di un super campione dei pesi massimi, non appena posai gli occhi sull’estremità estratta del megafono insanguinato!
Come un idra dalle mille teste appena sbucato fuori dalle profondità infermali più cupe, la parte terminale del mio intestino (per non dire TUTTA, tranne quella che inevitabilmente doveva esser rimasta dentro, attaccata alle altre schifezze, per permettermi di continuare a vivere), se ne stava attaccata famelica sul ciglio del megafono!
Mi sentii mancare le forze: fu quell’attimo di esitazione a non permettermi di pronunciar subito le due tanto agogniate parole magiche.
Proprio mentre mi ritenevo ormai perduto e le guardie armate stavano arrivando a prendermi, mi resi conto che quel fottuto intestino impazzito era in realtà un arma a doppio taglio: come i tentacoli di una piovra mutante raggiunse i bastardi guasta feste e strappò loro le armi di mano con una serie di colpi di karate.
Si divise in dieci, poi in venti, poi in cinquanta, e cominciò a sparare sulla folla all’impazzata con quei mitragliatori giapponesi fumanti appena sottratti alle guardie svizzere: mille morti in dieci secondi.
Neanche nei migliori sogni ad occhi aperti dell’infanzia sputtanata sulle mappe speciali di Doom crakkato avevo potuto aspirare a tanto.
A me venne in mente quella fatiscente fantasia che mi pervadeva fin da piccino nei momenti di maggiore noia, durante la visione domenicale della messa con i parenti: il papa si sporge dal balcone per il suo solito discorso domenicale e dice: “oggi dovremo celebrare un grande funerale… IL VOSTRO!!!”, e così dicendo estrae due mitragliatori uzi e comincia a sparare come assatanato sulla folla angosciata.
Le diramazioni del mio intestino impazzito, che ormai erano centinaia, cominciarono a sparar flutti di merda all’impazzata. Era marrone e color senape, acida come fosse stata composta da agenti cancerogeni al 90%; la gente si scioglieva e gridava come le fossero stati fatti friggere i testicoli su di una graticola; alcuni morivano sul colpo mentre altri si trasformavano in zombie che iniziavano ad azzannare le spalle dei vicini, trasformandoli a loro volta.
Mi domandai fugacemente da dove quegli intestini prendessero tutte quelle feci bislacche, dal momento che io ero il loro unico serbatoio, e con quel ritmo avrei già dovuto essere disidratato come minimo un centinaio di volte. Che dentro le mie interiora se ne fosse stato sempre ben nascosto il passaggio spaziale per un altro mondo, magari un immenso cesso cosmico?
Quando ormai stavo cantando vittoria e mi accingevo a serrar le labbra per gridar le due parole magiche, un cecchino sul tetto di San Pietro, che aveva ben intuito il mio fine, pensò bene di spararmi una pallottola calcificante in bocca, in modo da rendermi muto per le successive ventiquattr’ore.
Era come se avessi colla vinilica iper-concentrata tra i denti. Perché non mi aveva ammazzato direttamente? Evidentemente pensava (pure sulla base delle sue pregresse esperienze militari) che sarebbe stato per me tanto peggio assistere impotente alla sconfitta piuttosto che morire di netto. Mica male come idea: peccato solo che nel suo ardito calcolo interinale non avesse tenuto conto dell’immensa tenacia dei miei alleati!
I successivi dieci secondi finali, al termine dei quali chiusi gli occhi indeciso se esser morto o semplicemente sfinito, furono ricalcati alla stregua di un film d’azione rimpinzato di cliché poco credibili, se non fosse stato che erano realtà dura e pura.
Il papa Obito Carlino Tobi Ottavo stava scappando come un maledetto soldato cacasotto, ma per farlo doveva necessariamente passare sul palco, cioè accanto a me.
Sir Serpellon Terzo conte di Cornovaglia e Lorena, mi venne in aiuto intuendo in un unico colpo di genio la soluzione dell’intero enigma: si fece avanti ed indicò ai tentacoli/intestino di togliermi di dosso il megafono e di metterlo invece in bocca al papa in fuga.
“Ma come”, mi dissi, “Sir Serpellon è impazzito? A che mai può servire una cosa del genere, se non a far spandere il suo fiatone o al limite le sue preghiere altrimenti solo sussurrate nei quattro angoli della capitale italica? Che mi sia sbagliato nel giudicarlo, e laddove lo credevo l’unico alleato era invece la massima espressione del leccaculismo clericale?”.
I miei dubbi furono messi a tacere quando vidi che il papa scivolava sui resti maciullati del mio sangue anale misto agli organi interni divelti delle guardie armate dopo la sparatoria… e cosa non gli scappò di bocca nell’appropinquarsi su quella scivolata alla moviola mista figura di merda planetaria, se non un “PORCO DIOOOOOOO!!!” al cubo, come solo nelle peggiori bettole e caverne da ubriachi fradici avevo sentito?
Avevo realizzato il sogno ancor meglio di quanto mi ero prospettato. Mentre chiudevo gli occhi nel bel mezzo di quell’apocalisse morbida, avevo piena convinzione di star crepando felice.
Anche se uno spirito egoista, indifferente al risultato finale concretamente preso, si sarebbe rattristato a non aver detto lui stesso la bestemmia cosmica, io ero mille volte più in palla per aver indotto a dirla nientemeno che il papa in persona!
Solo una nota stonata mi fece storcere le budella mentre socchiudevo gli occhi euforico: il cielo mi stava crollando addosso.

Epilogo.
Resoconto del dottor Stephen Shumensz (archeologo).
“La nostra amata cattedrale di San Pietro è crollata ieri, proprio durante la messa di natale! Il segno dell’imminente fine dei tempi? Quasi tutti sono d’accordo nel sostenere questa tesi tanto banale, che peraltro è suffragata da centinaia di previsioni nel corso della storia. Ma io ho un idea ben diversa, anche se mi guardo bene dal farne menzione a chicchessia, per non rischiare di essere etichettato come un pazzo. Secondo un antica leggenda tratta da un codice cifrato contenuto nel penultimo paragrafo dell’apocalisse di San Giovanni, la cattedrale di San Pietro è destinata a crollare quando il suo capo supremo vi bestemmia addosso. Mi pare che non fosse mai successo fin ora, o sbaglio?”.
  
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