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Autore: miss potter    06/06/2014    4 recensioni
La cosa più grande che potrai mai imparare è amare e lasciarti amare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Era come un profumo, il suo. Non un profumo da donna, zuccherato o floreale, e nemmeno un profumo forte, fastidioso, artificiale. Non era un odore indistinto, facilmente confondibile con tanti altri che la città emana, ma una fragranza ben precisa che, tuttavia, non aveva a che fare solamente con l’olfatto.
Era anche un sapore, il suo. Quello del fumo, dell’alcol e del sale, che ti gratta la lingua per poi scivolarti giù in gola e scavarti nello stomaco; era un suono, quello liscio e scuro della sua voce marina che mi trovavo sempre a sentire ma non ad ascoltare davvero; era una carezza d’acciaio e uno sguardo di velluto insieme, che non sono mai stato capace a discernere.

Sherlock Holmes incarnava in sé tutti e cinque i sensi, e solitamente te li faceva esplodere addosso con un sorriso sornione stampato in quella faccia da ragazzino arrogante che sa di potersi permettere di soddisfare ogni capriccio, ogni sfizio, anche quello di vederti supplicare. Era una forza che ti raccoglieva da terra riportandoti al mondo per poi allontanandotene di nuovo e non restituendoti più, nemmeno a te stesso. Ed io mi stavo perdendo.

«Se non sono troppo indiscreto, posso chiedervi dove siamo diretti?» ansimai correndogli dietro.

Non rallentò il passo né tantomeno rispose. Semplicemente s’infilò in una via laterale che, più che una vera e propria strada, si presentava come una sottospecie di vicolo ammuffito pullulante di ratti, ubriachi e prostitute che già di mattina presto infestavano l’aria col puzzo dei loro umori e delle loro bestemmie.

Era la prima volta che mi confrontavo con quella porzione della città, di norma ben nascosta, che nei secoli si era adattata al buio e al silenzio anche in pieno giorno. E fu la prima volta che, dopo anni di cecità, mi resi conto di quanta miseria affligge questa nostra epoca che ci allarghiamo a chiamare “modernità”. Ce ne vantiamo definendola come il migliore dei mondi possibili in cui ci si accontenta di vivere per pigrizia o per paura, e non ci si rende conto che in realtà non è niente di più, niente di meglio che una stentata sopravvivenza.

Reso muto dal terrore, un piede davanti all’altro riuscii più o meno a stare al passo seguendo Sherlock in quel buco infernale stretto tra due palazzi così alti da oscurare il sole. Cercai, per quanto possibile, di ignorare i tentativi di approccio dei malviventi e la vista delle gonne sollevate delle donne: alcune mi parvero così giovani che non ebbi neanche il coraggio di guardarle dritto negli occhi.

«Coraggio, John» mi incitò il ragazzo, la personificazione della tranquillità. «Non hanno denti abbastanza forti per mordere.»

Risposi a quella battuta davvero poco felice con un sorriso tirato che tuttavia durò poco, sostituito da un’espressione agghiacciata: ero inciampato su qualcosa, abbandonato al centro del vicolo come un avanzo lasciato a marcire… Un polpaccio, fine come un ramo d’albero e del colore della pelle di uno spazzacamino. Mi voltai e quel che vidi mi fece semplicemente accapponare la pelle e seccare la lingua in bocca: insaccata a terra con il capo reclinato su una spalla, giaceva una madre, le vesti stracciate, il viso esangue roso dalla fame, il seno raggrinzito scoperto ed un fagottino stretto ad esso, talmente piccolo da farmi pensare che lì dentro non ci fosse nient’altro che qualche tozzo di pane tenuto al caldo.

Questa volta non potei fare a meno che fermarmi ed indugiare per qualche lunga, tremenda manciata di secondi su quello sguardo spento, perso, e su quelle povere membra accartocciate su cui sembrava che gravassero tutte le mancanze degli uomini.

La donna non sembrò neanche accorgersi della mia presenza al contrario di due brutti ceffi che mi si avvicinarono con tutte le peggiori intenzioni immaginabili, uno dei due sguainando un coltellino.

«Tu t’es perdu, petit?(1)» sibilò continuando ad avvicinarsi; il compare alle sue spalle ghignò divertito.

Il respiro mi si solidificò nei polmoni: il cuore in gola e le spalle schiacciate contro il muro umido, non riuscii a dire e fare altro se non pregare che la morte arrivasse veloce e quanto più indolore possibile.

Presi un respiro profondo, chiusi gli occhi e li tenni ben stretti, pronto a sentire il freddo della lama passarmi la gola da parte a parte, il sangue caldo scorrere lungo la giugulare, i sensi venir meno e l’oscurità inghiottirmi per sempre… Almeno fin quando non avvertii un forte spostamento d’aria e una schiena che mi si appoggiò al petto facendomi da scudo contro le mie stesse paure.

E poi la voce parlò.

«Laissez tomber, messieurs» disse, piatta. «Les touristes ne savent pas refréner la curiosité.(2)»

Sherlock mi si era parato davanti ponendo il proprio corpo tra me e i manigoldi, distraendoli così dalle loro malvagie intenzioni.

L’uomo che mi aveva minacciato poco prima sputò a terra e, rantolando, fece un passo in avanti. Portò il coltello a pochi centimetri dal volto del mio compagno, lo sguardo grigio e sottile quanto quella lama.

«T’es pas même d’ici (3)» gracchiò il criminale appoggiandogliela di punta prima sul mento e facendogliela poi scorrere lungo tutta la mandibola.

«Géniale déduction (4)» rispose Sherlock in un azzardato tono di scherno.

L’uomo premette ancora più forte l’arma contro la carotide del ragazzo ed ebbi un sussulto. Percepivo il suo respiro imporsi di rallentare, il calore della sua schiena trasferirsi al mio petto insieme a  tutta la sua spavalda sicurezza.

«Que faites-vous ici? C’est notre territoire (5)» sputò l’altro uomo digrignando i denti.

«Affaires(6)» rispose senza pensarci un attimo il mio temerario complice.

«Affaires?»

«Mon argent» mormorò Sherlock abbassando la voce. «Votre maître a une dette avec moi. (7)»

L’uomo col coltello all’improvviso sembrò agitarsi.

«Qui êtes-vous, monsieur? (8)» chiese a denti stretti, una grossa vena che gli attraversava la fronte, madida e bassa, pompava furiosa.

«Sherlock Holmes.»

Tutt’a un tratto, il delinquente strabuzzò gli occhi sbiancando come un lenzuolo, vistosamente sconvolto. A quel nome sembrò perdere d’un colpo ogni aggressività e da lupo cacciatore ammansirsi nel più indifeso degli agnelli.

Con uno scatto del braccio si allontanò da noi permettendo a Sherlock di muoversi e a me di riprendere a respirare, anche se con qualche difficoltà. Non mi ero mai trovato in una situazione simile: l’idea più ovvia di darmela a gambe non sembrava però avermi sfiorato neanche l’anticamera del cervello perché non era vera e propria paura quella che provavo, ma pura e cruda adrenalina.

Diedi uno sguardo a Sherlock: le tempie pallide imperlate di sudore, i capelli scompigliati, gli occhi fieri e sicuri, la lunga schiena dritta e i pugni chiusi, il respiro controllato… Un predatore tra i predatori la cui vista mi faceva ogni volta tremare le ginocchia e distogliere gli occhi da quanto era insopportabilmente eccitante osservarlo nel suo territorio di caccia.

I due uomini si eclissarono come due scarafaggi alla luce del sole lasciandoci continuare per la nostra strada.

Non dissi niente a Sherlock riguardo quell’incontro spiacevole, e non dissi niente neanche quando mi invitò ad aspettarlo fuori da una porticina di legno marcio che oltrepassò con la nonchalance di sempre, riassettandosi il cappotto e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Ricomparve dopo un lasso di tempo che mi parve non passare mai, un sorriso soddisfatto dipinto in faccia e una grande busta gonfia sottobraccio.
Rispose con uno sguardo divertito all’occhiataccia che gli lanciai.

«Che avete?» chiese con un tono di voce innocente quanto quello di un monello colto con le mani nel barattolo di biscotti. «Sembra che abbiate visto un fantasma.»

“No, sono solo scampato da un accoltellamento in piena regola in un lurido vicolo nel quartiere più malfamato di Parigi… Ma per il resto tutto a posto, grazie” avrei tanto voluto rispondergli.

«Cos’è quello?» chiesi invece indicando con rapido gesto del mento la busta che si affrettò a nascondere in una tasca interna del cappotto.

«Non qui, dottore. Andiamo.»

Non feci a tempo a replicare che già era partito quasi di corsa, lesto come una lepre, lasciandomi nuovamente di sasso.

Gli corsi dietro maledicendolo sottovoce. Quando uscimmo dal vicolo, tirai un sospiro di sollievo sia perché eravamo di nuovo in una strada trafficata, sia perché si era finalmente degnato di aspettarmi.

«Ma dove andiamo?» boccheggiai quando lo raggiunsi allargando le braccia.

«A fare colazione!»

«Colazione? Abbiamo già fatto colazione.»

«Voi avete fatto colazione. Io non mangio da ieri pomeriggio.»

Lo guardai storto, lui ricambiò.

«Potevate mangiare le brioches di Toulouse. Era davvero deliziose» esclamai, esasperato.

«Perché non il veleno per topi, allora! Più veloce anche se più doloroso come sistema per andarsene, ecco perché medio col tabacco. E poi non sareste così lento stamattina se non vi foste ingozzato di croissants, prima.»

E, detto questo, si accese una sigaretta indossando una delle smorfie più presuntuose che gli vidi mai addosso e che, come ogni abito, gli sarebbero sempre calzate a pennello.

Parlare con un bambino di cinque anni o con muro mi avrebbe dato molta più soddisfazione, pensai.

«Non me ne offrite una?» chiesi dunque, stando al suo gioco.

Mi fissò da sopra la fiamma dell’accendino, la fronte corrugata. Tirò una prima boccata e me la soffiò lentamente sul viso.

«Voi non fumate» mormorò sorridendo di sbieco divertito ai miei colpi di tosse.

Mi sentivo gli occhi bruciare, sia per il fumo sia, ancor peggio, per l’imbarazzo di dover far fronte alla pretesa di fingermi un uomo vissuto.
«C’è sempre una prima volta» lo punzecchiai schiarendomi la voce.

Cercai di tenere le palpebre ben aperte e di difendermi da quello sguardo indagatore che mi faceva sentire come un animale impagliato sotto teca ogni secondo passato in sua compagnia, inerme oggetto della sua osservazione.

Non era però disagio quel che sentivo dentro, piuttosto bramosia di sfida, di sostenere sempre e comunque l’occhiata del mio esaminatore sfoderando lo sguardo più rapace che mi riusciva. Se qualcuno ci avesse collegato a un circuito elettrico, in quel momento, saremmo probabilmente riusciti ad accendere una lampadina.

«Venite» disse ad un tratto, visibilmente intrigato. «Vi offro un caffè.»

Ed io, a quanto pare, avevo acceso la sua.

Cercai di trarre più beneficio possibile dal tepore profumato di cannella e fiori che caratterizzava l’interno del caffè dove ci fermammo, un posticino davvero adorabile in stile provenzale con dei grandi mazzi di lavanda appesi alle pareti lasciati ad essiccare.

Non c’è un locale nella frizzante e disincantata Parigi di questa nostra bell’epoca, dalla taverna più spartana al ristorante più raffinato, che non regali questa sensazione. Assieme al caffè, ti scivola piacevolmente nello stomaco riscaldandoti l’anima nel profondo ed infondendoti l’energia giusta per cominciare al meglio la giornata.

Ci sedemmo a un tavolino deliziosamente apparecchiato, la tovaglia lillà e un grande menu torreggiante al centro che, per forza dell’abitudine, cominciai pigramente a sfogliare. Fu solo quando diedi un’occhiata ai prezzi che mi ricordai della mia condizione, in tasca il denaro appena sufficiente per una tazza di tè.

Stavo già riponendo il menu al suo posto, afflitto, quando Sherlock mi persuase dal farlo con la sola forza dello sguardo e di un sorriso appagato.

«Non avevate già fatto colazione?» mi chiese, la voce screziata da una particolare nota di dolcezza che scavalcò solo per un attimo l’ironia.

Feci spallucce ed incrociai le dita sul tavolo.

«Infatti» dichiarai. «E poi non m’ispira nulla di ciò che la casa offre.»

Sherlock rise di gusto a quella mia affermazione che suonò terribilmente ipocrita anche alle mie orecchie, detta da me poi, che avrei assaggiato di tutto.

«Siete un recidivo, allora!» esclamò. «Quando capirete che con me le bugie non funzionano? Prendete quello che volete. Offro io.»

Avrei dovuto sentirmi a disagio di fronte a tutta quella gentilezza. Insomma, un uomo maturo che si fa offrire una seconda colazione da un altro, apparentemente non altrettanto maturo, che conosce da neanche un giorno… Forse ero semplicemente nato per sentirmi a mio agio nel confronto con Sherlock Holmes, e probabilmente anche ad essere l’unica persona che gli avrebbe mai saputo tener testa nonostante la mia imbarazzante ingenuità e il suo pessimo carattere.

«Non vi sfugge nulla» gli sorrisi, e mi riappropriai del menu.

Mentre scorrevo con gli occhi le invitanti pietanze e per tutto il tempo che mi necessitò per decidermi, percepii il magnetico peso di quegli occhi analitici gravarmi addosso come la spada di Damocle, e dovetti mordermi l’interno delle guance per non lasciarmi scappare un sorriso.

«Siete inquietante» gli dissi a un certo punto, gli occhi incollati sulla lista dei dessert e gli zigomi doloranti.

«E voi spaventosamente lento» rispose lui sbuffando.

Sollevai il capo e non riuscii a trattenermi oltre: alla vista di quel broncio impaziente tipico dei bambini annoiati costretti dai genitori a stare seduti composti a tavola, le braccia conserte strette al petto e le labbra storte, esplosi in una sonora risata che riecheggiò per tutto il locale.

«Sì, ne sono già stato messo al corrente» dissi scuotendo il capo.

«Cosa ci troverete mai di così complicato nello scegliere un dolce, dico io. Uno vale l’altro!»

Colto di sorpresa, lo schiaffeggiai con un’occhiataccia.

«State scherzando, spero!» esclamai, oltraggiato. «Un dolce è un’esperienza mistica, uno dei pochi piaceri che la vita offre! È… come una donna.»

Dovetti averlo colpito davvero forte perché, a quelle mie parole, sembrò pietrificarsi sul posto, il fiato sospeso e negli occhi un’ombra di puro e semplice panico.

«Una donna» mi fece eco, la voce tanto bassa da sembrare lontana miglia e miglia.

«Esatto, una donna. Sembra facile trovare quella giusta nell’infinita gamma di gusti disponibili, ma non lo è. Affatto. Alcune sono troppo elaborate, altre troppo costose, altre ancora troppo pesanti, con troppo zucchero. Ma poi… Poi finisci per trovarla, quella giusta, che è semplicemente perfetta perché non riesci a guardare altre torte se non lei e a desiderarla, una fetta dopo l’altra, fino a star male. Semplicemente perché per te non sarà mai troppo, anzi, non sarà mai abbastanza. Semplicemente perché, se hai lei, adorerai ogni singola indigestione. Per tutta la vita.»

Quell’abbozzata ombra di panico nel suo sguardo era ora mutata in una nuvola scura di autentica angoscia e, a giudicare dal tempo che trascorse trattenendo il respiro e dal colore della sua faccia, ebbi seriamente il timore che potesse svenire da un momento all’altro.

Boccheggiò per un po’ come un pesce strappato al suo ambiente naturale prima di riuscire ad articolare una frase dal senso compiuto.

«Mi chiedo quale diavolo di tossina neuroattiva debba aver messo Toulouse tra gli ingredienti di quelle sue brioches» mormorò infine, nervoso.

Non seppi se mettermi a ridere o a piangere: mi pareva di aver fatto un bel discorso, spiegando con una metafora alimentare cosa fosse per me l’amore e, sinceramente, non mi sarei mai aspettato una reazione del genere. Nonostante la passione che metteva nel suonare il violino e nell’insultare la gente, quel ragazzo dimostrava la profondità emotiva di un sasso.

«Sapete cosa vi dico?» dissi quindi, abbandonando definitivamente il menu. «Prendo solo un caffè. Bello amaro, come voi.»

«Suggerisco di lasciar perdere le similitudini, per oggi, e di cambiare decisamente argomento.»

Con un elegante gesto della mano, chiamò il cameriere che si esibì in un profondo inchino prima di prendere le ordinazioni e ricomparendo qualche istante dopo con due caffè, amarissimi, e su un piattino due dolcetti ripieni di forma circolare, uno marrone scuro e l’altro bianco.

Mi portai alle labbra il mio caffè e trattenni a stento una smorfia disgustata: ero abituato a berlo con almeno due cucchiaini di zucchero e la mia smania di provocare Sherlock Holmes mi aveva sconfitto, di nuovo.

Sbattendo le lunghe ciglia più del necessario, l’ignobile mi fissava sinceramente divertito da sopra la sua tazzina.

«Assaggiate un macaron,» sussurrò indicandomi con un gesto del mento i dolcetti sul piattino. «Andrà meglio.»

Colsi al volo il suggerimento e agguantai il dolcetto bianco mettendomelo subito in bocca: la prima cosa a cui pensai fu che, in tutta la mia vita, non avevo mai assaggiato nulla di più gustoso e al tempo stesso delicato, una goduria per il palato in un così piccolo oggetto.

Sherlock sorrise compiaciuto, prese il dolcetto rimasto e lo divise a metà coi denti; lo masticò lentamente senza interrompere per un secondo il contatto visivo con me.
Seguii i movimenti lenti dell’elegante curva della mandibola, quelli morbidi delle labbra piene e di quell’unica, infame briciola di cioccolato fondente rimasta attaccato alla parte centrale del labbro superiore, quella più carnosa, sotto il ripido arco di Cupido.

Quando ingoiò la prima metà e si portò alla bocca la seconda, prima di masticarla ne percorse in punta di lingua la parte interna, più cremosa; la pasta di cioccolato gli sporcò i polpastrelli che, una volta fatta sparire anche la seconda metà del dolcetto, ripulì succhiandoseli diligentemente.

Il mio macaron, ridotto a una poltiglia umida e squisita, in quel momento stanziava immobile tra la mia lingua e il palato e la sua deglutizione mi risultò più difficile del solito.

«Bellissimo…» sussurrai, per quanto la mia mandibola a penzoloni mi concesse.

Aggrottò le sopracciglia estraendo il pollice dalle labbra con uno schiocco umido.

«Pardon? (9)»

E allora ci mancò poco che mi soffocassi, ucciso da un innocuo dolcetto francese.

«Intendevo… buonissimo» mi corressi sentendo le guance andare a fuoco ed ogni singolo neurone accartocciarsi su se stesso facendomi girare la testa.
Finimmo i nostri caffè in religioso silenzio e, pagato il conto, lasciammo il locale. Quella sensazione di calore, penetratami nelle ossa insieme all’aroma del cioccolato e di quel caffè amaro e dolcissimo allo stesso tempo, mi inseguì fino in strada, stordendomi.

«Allora piacciono anche a voi i dolci» azzardai dopo non so quanto tempo passato senza scambiare una parola, e affondai le mani bollenti nelle tasche.

Sherlock sospirò sistemandosi il bavero del cappotto fin sopra gli zigomi: guardava dritto e freddo davanti a sé, una persona completamente diversa da quella deliziosamente arrogante e spigliata del caffè, quella dai polpastrelli sporchi di cioccolata e gli occhi brillanti, eccitata ed eccitante.

«Pensavo che fossimo d’accordo nel cambiare argomento di conversazione» disse acido affrettando nuovamente il passo.

«Era solo una mia curiosità.»

«Vi ucciderà un giorno, quella vostra curiosità.»

Dovette essersi innervosito parecchio perché cominciò a frugare in ogni tasca imprecando sottovoce, almeno finché non ne estrasse un accendino e un pacchetto di sigarette. Se ne accese una con le dita che gli tremavano e solo quando riuscì ad inalarne il contenuto sembrò acquietarsi, almeno apparentemente.

«Che mi dite di quelle, piuttosto?» replicai.

Rallentò bruscamente fino a fermarsi, praticamente in mezzo alla strada, e mi infilzò con quei suoi occhi di ghiaccio da parte a parte, le labbra contratte e la sigaretta stretta tra pollice e indice, alla russa. Per un istante temetti che me la volesse spegnere addosso.

«Vi piace l’idea di farmi da madre, John?» mi chiese, la voce simile a un ringhio di una bestia ferita stuzzicata fin troppo a lungo.

Il cuore cominciò a battermi all’impazzata.

«Io non…»

«Perché se così fosse debbo avvertirvi: c’è già troppa gente che si è arrogata il diritto di farlo, tutti tranne coloro che per natura avrebbero dovuto. Quindi, mettetevi in fila.»

Detto questo, riprese a marciare, un soldato protetto dal suo migliore scudo di impassibilità, pesantemente scalfito ma ancora robusto.

«Chiedo perdono se vi ho offeso in qualche modo!» dissi correndogli dietro. «Non era mia intenzione.»

Quel broncio animalesco e il brusio dei suoi denti digrignati scomparvero come si erano presentati, improvvisamente, venendo sostituiti da una risata che al momento giudicai quantomeno grottesca. Il mio professore di neurologia l’avrebbe definito uno schizofrenico e forse, a quel punto, avrei anche potuto dargli ragione.

«Che ho detto adesso?» chiesi tenendomi a qualche metro di distanza, la fronte aggrottata e i pensieri aggrovigliati.

Prima di rispondermi, prese un’altra profonda boccata dalla sigaretta, le labbra strette intorno al filtro e arricciate in un sorriso genuino.

«Siete adorabile.»

Avessi conosciuto Sherlock Holmes come lo conosco ad oggi, in quel contesto un’affermazione del genere mi avrebbe procurato uno shock non da poco, facendomi preoccupare seriamente per la sua salute mentale o quantomeno per lo stato del mio udito.



Rimasi con la bocca spalancata fino a che ci ritrovammo di nuovo sotto al portone di casa: tanto fu strana quella conversazione che non mi ero nemmeno reso conto di essere tornati a Place Pigalle.

«Prima vi complimentate per l’esibizione di ieri sera…» spiegò con la sigaretta in bocca cominciando a litigare con un mazzo di chiavi. «… poi definite addirittura “fantastico” un metodo per il quale altri hanno trovato aggettivi decisamente meno nobili, ed infine vi scusate per esservi preoccupato per la mia salute. Adorabile.»
Dopo un’ultima tirata, gettò la sigaretta a terra e mi invitò a precederlo. Della padrona di casa non c’era traccia e, involontariamente, tirai un sospiro di sollievo, felice di non dover incrociare quegli occhietti da gufo già di prima mattina.

Mi sentii libero di parlare liberamente.

«Non mi sembra di aver fatto nulla di così speciale o degno di nota» dissi incamminandomi su per le scale.

«In realtà, eccezion fatta per il violino, per le altre due cose siete il primo» replicò ampliando il sorriso. «Dunque non vedo il motivo per cui non definirvi adorabile. Consideratevi fortunato perché non l’ho mai detto a nessuno e non ho intenzione di ricordarvelo, in futuro.»

Risi di gusto davanti a quel cinismo che gli donava sempre meno ogni minuto in cui la nostra conoscenza reciproca si approfondiva.

«Mi impegnerò affinché possiate sciogliere il vostro voto, allora» gli dissi bonariamente dondolandomi davanti la porta del suo appartamento.

«Non sono facilmente corruttibile» ribatté strizzandomi l’occhio.

Aprì la porta ed entrò in casa lasciandola spalancata. Io rimasi sulla soglia, le braccia lungo i fianchi, il respiro sospeso.

Era stata una mattinata… interessante, pensai. Ed ancor più interessante sarebbe stato prolungarla, poter condividere ancora qualche ora in compagnia di quell’affascinante persona.

«Entrate, John, e chiudetevi la porta alle spalle, se non vi dispiace. Fa corrente.»





 

 

Note di traduzione
(1) Ti sei perso, piccino?
(2) Lasciate perdere. I turisti non sanno frenare la curiosità.
(3) Nemmeno tu sei di qui.
(4) Geniale deduzione.
(5) Che fate qui? È il nostro territorio.
(6) Affari.
(7) I miei soldi. Il vostro capo ha un debito con me.
(8) Chi siete, signore?
(9) Chiedo scusa?

 

 

Author's Corner

Non ho scuse.

L'unica cosa che ho rispettato sono i tre mesi (?) di completa assenza da EFP e me ne rammarico. Sono successe un sacco di cose, sapete... nella vita reale. Ma ho cercato di andare avanti col quarto capitolo della mia seconda long in sospeso e... Boh. Spero che non sia troppo male.
Devo fare una confessione. Tra le millanta cose successemi in questi mesi, ce n'è una, in particolare, che mi sento di condividere: la Viclock mi ha investita come un camion a 200 km/h e io ho adorato esserne investita *^* Ciò non vuol dire che mi sia convertita alla Viclock lasciando completamente da parte la Johnlock (che continuerà ad essere la mia tomba, ahimé) ma che, semplicemente, le mie prospettive si sono allargate.
Dunque, ora che ho concluso la sessione d'esami, posso dedicarmi maggiormente alle centinaia di cose che ho in sospeso, come le mie long, e pure a qualche fanfiction Viclock tanto per contagiare il mondo di bellezza *^*
Vi ringrazio in anticipo per la pazienza e se vorrete farmi sapere cosa ne pensate a riguardo (del capitolo, della Viclock, di quanto ignobile sia come autrice che fa aspettare secoli neanche fosse Gatiss o Moffat in persona...).
Un bacione,

miss potter (che è ancora qua... eh, già.)

 

  
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