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Autore: aniasolary    06/06/2014    10 recensioni
Natalie Truman, diciannove anni, buone intenzioni e scarsa capacità a far andare le cose come vorrebbe, non ha paura della vita. Tra sogni difficili, l’amore per un ragazzo irraggiungibile, impropri pasticci e situazioni imbarazzanti, il desiderio di diventare grande e sentirsi grande si fa sentire, rendendo il suo nido famigliare sempre più opprimente.
Il mondo è ai suoi piedi.
Al tempo stesso, quel mondo può caderle addosso.
L’unico modo per affrontarlo è cominciare a camminare con le proprie gambe, sperando di non inciampare nelle sue stesse scarpe.
«Un po’ per volta, il dolore se ne andrà. Non dimenticherai niente, ma starai bene. È un po’ come ricominciare a scrivere una melodia, ma senza cancellare le note precedenti. Con l’esempio del vecchio, puoi metter su davvero qualcosa di nuovo e migliore.»
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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2.

Sono innamorata della mia città.
Liverpool è un’esplosione di luci, misticismo, barboni e gente che si veste da barbona per abitudine. C’è vita e musica ovunque tu guardi, che sia qualcosa di eccessivo o discreto. Se non fossi sempre stata un’infelice cronica a partire dall’infanzia, non penserei a lasciarla con così tanta freddezza. Contemplerei gli spazi, farei foto da postare sui social e immaginerei me stessa fra dieci anni a passeggio fra queste strade illuminate.
È passato almeno un anno da quando non passo di qui: tutta colpa della scuola e dei vari casini della mia vita, punizioni e giorni in cui mi sono disgustata talmente tanto di me stessa da non concedermi nemmeno un insignificante piacere come questo.
«Nat, è questo il posto? »
«È un altro posto, Pam.»
«Be’, allora andiamocene, che fai là ferma come un salame affumicato? Ci manca solo Wanda con il vassoio.»
Pamela mi fissa sconcertata ed io le sorrido, a volte è veramente troppo scema. «È così che si chiama. Another place. Sei sicura di essere nata a Liverpool? »
«Oh… è vero! Mi è sfuggito, non passo di qui da anni, insomma lo sai, a chi è che interessa…»
«Hai preso un brutto voto in storia e cultura contemporanea, lo so.» Fisso la statua che mi è di fronte, in ghisa, marroncino chiaro. Ce ne sono cento, posizionate qua e là nel mare su dei piedistalli di metallo distanti fra di loro. Quando c’è la bassa marea, le statue si possono raggiungere e vedere da vicino, come oggi. La suola delle converse si sarà imbrattata di sabbia, ormai, ma non fa niente.
«Da bambina venivo sempre qui con Arthur. Ci correvamo intorno, ed Arthur controllava quanto gli mancasse per diventare alto quanto quelli che chiamavamo colossi.  Una volta per essere alto quanto la statua mi fece salire sulle sue spalle… dovevo avere quattro anni. A sedici lui era già riuscito a superarli, mentre io non ce l’ho fatta... E lui sorrideva in un modo…»
Ha sempre sorriso guardando queste statue, fino a quando…
«Natalie, ma l’orario delle visite all’ospedale non è dalle cinque alle sette?»
«Sì.»
«Sono le sei e mezza.»
«Porca puzzola!»
***
Arriviamo in ospedale tutte sudate. Evito di guardarmi allo specchio ma sono certamente un disastro, quindi mi affido all’ignoranza per non averne una percezione totale.
«Ti aspetto qui!» mi dice Pam.
«Okay! »
Entro in ascensore, raggiungo l’ottavo piano, corro per il corridoio e mi fermo davanti a quella che deve essere la sua stanza. In lontananza, una voce mi arriva alle orecchie.
«È terminato l’orario delle visite!»
Oh, merda.
Mi catapulto dentro.
Arthur è al centro della stanza, con il braccio sinistro lungo il fianco e gli occhi chiusi: un filo di barba gli copre il mento e il gonfiore si è lenito moltissimo. È bello in un modo così doloroso che stare qui a guardarlo è un po’ come ricevere un pugno nello stomaco, forte e preciso, che mi fa mancare il respiro. È la prima volta che mi appare vulnerabile da quando lo conosco – troppo tempo per accettare che non sia ancora cominciata una relazione amorosamente e sessualmente attiva tra di noi.
Mi siedo accanto a lui, sulla sedia in metallo.
«Ciao, Arthur,» dico a bassa voce.
La stanza è pulita e ordinata, per questo spicca moltissimo il quadro storto della madonna che sta sul muro nella stessa parte in cui tocca la testiera del letto. Non che Arthur sia così tanto collegato alla religione… solo mia madre è cattolica. Deve averlo messo qualche parente di un paziente precedente, ma messo così mi fa venire l’ansia. E se gli cadesse addosso?
Mai sia!
Mi alzo e allungo il braccio, ma non riesco nemmeno a sfiorare la cornice. Sono alta un metro e sessantatré, non mi sono mai sentita tanto nana, ma ora sì. In realtà ogni volta che Arthur mi è accanto, ma lui è troppo bello per farmi pensare a quanto vorrei essere diversa. Saltello. Il quadro si inclina ancora di più.
«Madonna!» borbotto.
Direi che ci sta.
Pare che questo sia l’unico modo: un giusto prezzo per salvare il bellissimo viso di Arthur.
Salgo sul suo letto e mi metto, lentamente, in piedi: un piede da una parte e l’altro da quella opposta, con in mezzo Arthur addormentato. Sistemo il quadro, ora è perfetto, lascio ricadere le mani sui fianchi e lo guardo: il quadro torna inclinato, pende a sinistra come se fosse una bilancia.
«Ma che cazzo… »
La porta si apre.
Trattengo un urlo.
Cado su Arthur come Spiderman.
Gli occhi verdissimi e assonnati di Arthur mi scrutano, le sue mani mi tengono strette i polsi e non so come sia successo, non so come io non abbia potuto sentirlo prima.
«Natalie?»
«Eh-eh.»
Volto la testa: la porta è aperta.
«Sì, cara, sto controllando le stanze! Va’ a pulire il bagno della stanza 421, metti una molletta sul naso per non sentire la puzza! » L’infermiera guarda dietro di sé.
… non mi ha ancora vista!
Scivolo giù dal letto alla velocità della luce e mi ci nascondo sotto.
«Signor Benkinson,» dice l’infermiera, improvvisamente affabile. Vedo le sue scarpe di gomma avanzare sul pavimento di legno plastificato. «Come sta? »
«Oh, bene, infermiera Pharrel. Mi sono svegliato adesso.»
«Questi farmaci procurano sonnolenza, immaginavo che avreste dormito anche per più tempo. Ho avvisato tutti i suoi parenti, sono tornati indietro per non disturbarla. »
«Li ha avvisati tutti? »
«Certamente. Se avete bisogno di qualcosa sono là fuori, basta suonare il campanello. »
«Vi ringrazio.»
«Di nulla, caro.» Le scarpe gommose si allontanano e la porta si chiude. Mi lascio andare ad un respiro di sollievo e, piano piano, faccio venir fuori la testa dal lato sinistro del letto.
Trovo Arthur a fissarmi.
«Che cosa stavi facendo?» mi chiede, sorridendo.
«Cercavo… di raddrizzare il quadro.»
Arthur ride, in quel modo improvviso e dolce che mi fa sentire leggero il cuore.
«Sei riuscita a raddrizzare qualcos’altro, direi.»
Oh, santa Maria.
Deglutisco.
«Oddio, allora è vera quella teoria dei ragazzi che quando si svegliano…»
Arthur mi sfiora il viso con le dita e mi accarezza i capelli, sento il viso di fuoco.
«Parlo del ciuffo dei tuoi capelli.»
Scivolo fuori completamente e cerco di ordinare i capelli.
Voglio morire.
«Che ti è successo?»
«È un po’ tardi.» mugugno. «È finito l’orario delle visite. »
Mi prende la mano. «Non preoccuparti, sto molto meglio. »
«Davvero? » Lo guardo, per la prima volta dopo questa pena totale. «Ti sei gonfiato tutto? »
Mi do uno schiaffo sulla fronte. Ma che cazzo di domanda è?
«In che senso? »
«Nel senso… il tuo viso si è gonfiato completamente oppure c’erano delle parti… che si potevano gonfiare ancora, ehm… »
«Non credo… non sono un medico, trottolina. Mi sono laureato in economia. »
Sospiro e rido al tempo stesso.
«Lo so. Insomma, sei il manager più giovane fra i più famosi di Liverpool.»
Tiro la sedia sotto il sedere per mettermi seduta ed Arthur mi lascia la mano. Quando torno a guardarlo ha un sorriso stanco, eppure incredibilmente luminoso. «Non mi aspettavo che dicessi questo.»
Ohibò. «Che cosa ho detto di sbagliato? »
«Niente, solo… ti sta bene che ti chiamo trottolina? »
«Ovviamente no! » ribadisco.
«E allora perché non me l’hai detto? »
«Te lo dico sempre, Art. »
«Lo so, Nat. »
«Quindi smettila. »
«No.»
Scuoto la testa. «Sei un bambino. »
«Tu di più, trottolina.» Si mette a ridere. È incredibile come possa stare bene anche con il camicione dell’ospedale. «A che ora devi tornare a casa? »
«Non sarei mai dovuta uscire, in realtà. Ho pagato Wanda… Sono in punizione… »
«Oh mio Dio, allora devi andare! Non vorrei mai averti sulla coscienza. »
«Eh, a chi lo dici! »
«Cosa? »
«Cosa? »
Ops.
Mi incammino verso la porta.
«Non correre troppo. »
«Io volo! »
La porta si apre all’improvviso e mi fa cadere sul contenitore metallo della flebo con un rumore assordante.
«Signorina!» mi chiama l’infermiera. «Che cosa fa qui? L’orario delle visite è terminato da un pezzo!»
Ma che problema hanno le porte con il mio culo?
***
«Natalie, sono molto strani i tuoi capelli,» dice la mamma, servendosi di purè.
«Colpa del phon, » dico masticando.
«Natalie,» mi chiama mio padre, mentre mia madre gli passa il sale da mettere sulle patate. Infilzo con la forchetta una polpetta di carne e faccio per addentarla. «Dobbiamo parlare.»
Resto con la bocca aperta, così.
Metto giù la polpetta.
«No volevo farlo! E poi l’ho pagata, non avreste dovuto saperlo!» grido.
«Cosa?» chiede la mamma.
«Cosa?» chiede papà.
«Cosa?» chiedo io.
Ops.
Certo che se non mi metto nei guai non sono mai soddisfatta.
Papà scuote la testa e si passa la mano fra i capelli grigi. Ha sessant’anni, e questi sono i momenti in cui sembra più vecchio: quando chi vorrebbe non riesce a capirlo. Be’, in realtà anche lui non capisce me, quindi siamo pari.
«Mi ha deluso molto il tuo comportamento.»
Non penso che mangerò più quella polpetta.
«Vuoi ancora andare via, Natalie?» chiede la mamma.
La fisso.
La sfumatura dolce della sua voce mi ha lasciato un sapore aspro che mi immobilizza, come se avessi assaggiato un frutto esotico con la raccomandazione di averlo già mangiato, solo quando ero troppo piccola per ricordarmene ancora.
Ma non sono più una bambina.
«Sì. »
La vedo appassire sotto i miei occhi, un fiore rosa dai miei stessi occhi. Dovrei sentirmi in colpa, vorrei, ma non ci riesco: ci siamo sempre fatti male a vicenda, e ognuno ha le sue colpe.
«Bene,» sospira papà. «Allora va’, Natalie. Spicca il volo. » Si alza e fissa i suoi occhi nei miei. «Pensi di esserne capace?»
Mi alzo anch’io. Saltello. Piroetto. Mi sento leggerissima, yu-ù! Apro la finestra e guardo fuori, rido.
«Sì, papà!» Guardo i piccioni volare. Spero di essere un po’ più carina di loro. Un piccione lascia il suo gruppo di amici e vola verso terra, velocissimo. Vola verso la finestra, mio Dio santissimo! Riesco ad allontanarmi solo di qualche centimetro quando puh – povera creatura – il piccione va a sbattere contro la vetrata.
Avrà riconosciuto un suo simile! E sarà andato incontro alla morte per dare a me la sua linfa vitale…
«Forse è meglio se cammini,» dice papà.
 
Due ore dopo, alle nove in punto, mi ritrovo spintonata fuori di casa, le mani di mamma sul mio fantastico di dietro. Mamma ha la mano piena di anelli, forse ho delle chiappe che sono anche delle calamite ed io non l’ho mai saputo.
Ecco spiegate le mani morte dei tamarri in discoteca!
«Mamma! So camminare per conto mio, non ho bisogno che… »
«Allora, Natalie, rispondi alle mie domande,» mi dice, incrociando le spalle al petto. Così sembra davvero una professoressa, di quelle che a guardarle sembrano delle streghe. Non ho studiato, non chiamare me, giuro che oggi pomeriggio studio. «Hai messo le mutandine nella valigia? »
«Shhh! Mamma!»
«Rispondimi.»
«Certo che le ho prese.»
«Bene. Hai preso la tua carta di credito?»
«Certo!»
«Bene. Sappi che tra una settimana non potrai più utilizzarla perché la farò bloccare. » Spalanco la bocca. « Sì, Natalie Hanna Truman. Dovrai trovare una casa e un lavoro. Se non ce la fai in sette giorni, puoi tornare a casa e non ne riparleremo più. »
Spalanco ancora di più la bocca.
Mi ha fregata.
«Chiudi la bocca, entrano le mosche. » Fa per chiudere la porta, dietro di lei papà agita la mano in segno di saluto.
Lo stomaco mi si chiude in un vortice di disgusto che non riesco ad accettare.  «Mamma… »
«Sai camminare da sola, è così?» Annuisco. «Be’, attenta a non inciampare e a non schiacciare gli escrementi dei cani. La puzza è rivoltante.»
«Oh, grazie per il consiglio. »
«Di niente. E…  lunga vita alla regina! »
«E che c’entra?»
«Siamo inglesi.»
«Hai origini italiane e sei cattolica! Ormai invoco i santi come te a furia di sentirti!»
Prendo la valigia in mano e la trascino giù per le scale senza guardarmi più indietro.
Da oggi si fa a modo mio.
*
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Un grazie più che speciale a Reiv Nastenka Gray jakefan Ari_C screaming_underneath Hanna Lewis Patrice Walsh <3 per aver accolto questa storia con un entusiasmo che mi ha riempito di gioia. Non immaginate quanto sono stata felice di leggere dei pareri così positivi. Ho in servo per voi delle sorprese e spero tanto che continuerete a leggere la storia di Natalie. In questo gruppo potrete trovare tutte le novità riguardanti la storia :)
Giusto per darvi un’idea di un altro posto, anche se spero di avervi fatto capire com'è, eccolo qui:

Grazie mille a tutti voi, lettori <3
Quest’anno ho la maturità, ma spero di riuscire ad aggiornare tra due settimane; incrociate le dita per me :D
Un bacio
Ania : )
   
 
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