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Autore: Lechatvert    06/06/2014    2 recensioni
«Fareste bene a rammentarvi che la guerra la si deve vincere su fronti diversi», disse, rimettendo la spada nel fodero. «E che se voi siete disposto a calpestare i vostri principi, io sono disposto a calpestare i miei.»
Se ne andò così, senza aggiungere altro, arrancando tra i ciuffi d’erba alta del cimitero.
Riario lo guardò allontanarsi senza proferire parola, impietrito dinanzi a quelle parole taglienti come lame e a quell’andatura che tanto gli ricordava i passi leggeri di Celia.

Il Papa, il Capitano, il Conte e i Tombaroli.
Genere: Angst, Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Lupo Mercuri, Nuovo personaggio, Papa Sisto IV, Papa Sisto IV
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Per ricominciare
Eccomi di nuovo!

Stavolta è tutto un capitolo dal punto di vista di Porpora, visto che se ne sentiva la mancanza magari no.

Per gli affezionati, è finalmente giunto il momento: dal prossimo capitolo, Levi sarà una presenza fissa e petulante! *festeggia* Direttamente da quel buco di vigne che sono le terre di cui è Conte.

Infine, visto che queste note d'autore sono sempre corte e mi piace essere prolissa e logorroica ... volevo presentarvi i personaggi così come li ho immaginati nella mia testa.

Porpora è Emily Browning, mentre Orso, nella mia mente, è un baldissimo Hayden Christensen. Levi, infine, è un giovanissimo Liam Aiken.

Chiudo queste note scusandomi con coloro che aspettano una mia recensione alle loro storie: è un periodo pieno di impegni, fidanzati ed esami, ma sto cercando di mettermi in pari con ogni lettura! *^* Perciò aspettatemi: sto arrivando!


Abbracci,
Lechatvert








Saremi morte già dolce paruta

Ileo: parte seconda – Firenze l'è piccina
di morti è piena la via
https://www.youtube.com/watch?v=miM22yylXTY










Acqua fangosa,
sii la mia tomba.
Sii mia maestra,
sarò tuo schiavo.
Mark Lanegan – Bleeding Muddy Water







Firenze, 28 settembre 1477. Un mese prima del ventiquattresimo compleanno di Giuliano de’ Medici.



L’acqua del torrente era gelida, scaldata appena dai rari raggi solari che rischiaravano i campi in quegli ultimi istanti prima dell’alba.
Ammollo in una delle conche che il corso creava con le zolle di terra più aride, Porpora sonnecchiava, trasportata dalla solitudine e dal ritmico rumore della corrente che gorgogliava contro le rocce. Sarebbe di certo rimasta lì altri dieci anni, senza pedanti presenza a interrompere la sua pace e con solo la sensazione del gelo ad intorpidirle le dita dei piedi.
Non c’era nulla che potesse valere quanto un paio d’ore di bagno dopo una nottata intera di caccia alla lepre nelle campagne. Caccia che, per altro, non aveva fruttato che un misero coniglio neanche troppo in carne.
Porpora si era quindi concessa un po’ di riposo prima di tornare in città e riprendere le ricerche del morto. Si sentiva frustrata, da tutta quella storia: erano passati quasi due mesi da quando erano giunti a Firenze e non ne avevano cavato un ragno dal buco, nonostante avessero setacciato letteralmente ogni cimitero della città, fossa comune e sanatorio compresi.
Sbuffò, sforzandosi di allontanare quei magri pensieri da un momento così pacifico come quello del bagno. Avrebbe di certo avuto modo di riprenderli in mano una volta tornata a casa.
Si impose di tornare a godersi l’acqua fredda del torrente al contatto con la pelle, ma il rumore di un ramo spezzato la costrinse ad aprire gli occhi e ad acquattarsi contro l’erba della riva.
Qualche piccolo passo dal luogo in cui aveva acceso un modesto fuoco di sterpaglie la convinse definitivamente ad abbandonare l’acqua.
Conosceva quel genere di rumore.
Se era fortunata, l’ultima trappola che aveva costruito prima di assopirsi aveva catturato un colombo.
Silenziosa, si avvicinò al ramo d’albero sui cui aveva minuziosamente impilato tutti i suoi vestiti e passò a vestirsi velocemente, nonostante i pantaloni di cuoio le stridessero sulle cosce umide e la camicia intrisa di sudore le prudesse sulla pelle. La lasciò aperta sul seno minuto, abbandonando la giacca per afferrare il coltello.
Immaginava di non trovare che le braci del modesto fuoco che aveva acceso per scaldarsi, perciò rimase non poco stupita quando, al posto di cenere e fumo, trovò un’allegra fiamma danzante attorno ai profili dell’uomo che la stava curando.
Porpora sospirò, facendo scivolare il coltello nella cintura.
«Non sapevo sapeste tenere un focolare», esordì.
Afferrò i baveri della camicia a la chiuse con lentezza, avvicinandosi per prendere posto dinanzi al fuoco.
Aveva ancora i capelli bagnati.
«Siete un uomo ricco di sorprese, Conte Riario.»
Il Conte sorrise appena, celando il suo viso emaciato dietro lo scoppiettare del fuoco.
«Dopo due settimane senza che voi e vostro fratello ci deste notizie, temevo di dovervi venire a riprendere al camposanto.»
Porpora sospirò pesantemente.
«Non è colpa nostra, se i morti di Firenze non vi aggradano», rispose, scrollando le spalle. «Abbiamo passato al setaccio ogni cimitero, ma la sorveglianza s’è fatta più fitta. Non è facile, superare i cancelli.»
Cadde il silenzio.
Riario annuì, tirando fuori una smorfia tagliente come una lama.
Se fosse divertito o semplicemente sarcastico, era impossibile dirlo.
Prese a sbucciarsi una mela, tagliandola con delicatezza e offrendone il primo spicchio a Porpora con un cenno delle mani.
Lei accettò, incerta, e prese a masticare il frutto.
«Siete un po’ come le mele, voi Vallesanta», considerò poco dopo il Conte, con lo stesso tono con cui un padre racconta le fiabe ai figli. «Quando vi si trova, siete duri e aspri come un frutto acerbo, ma siete veloci a maturare e a imparare a farvi dolci. La cosa più divertente, però, resta sempre il momento in cui morite: siete così teneri e molli che vi si spezza in un istante. È come chiudere il pugno su una mela troppo matura: l’unico sgradevole inconveniente è la mano che resta sporca della vostra insulsa poltiglia.»
Porpora lasciò cadere  ciò che restava del frutto, sussultando.
«Stiamo cercando in ogni dove», si giustificò. «Non è facile trovare le ossa di un morto di sifilide corrose al punto di non sciogliersi nella tomba e quelle poche che recuperiamo non sono mai di vostro gradimento. Senza indicazioni precise su cosa stiamo andando cercando, non ci è possibile procedere più velocemente.»
Ed era vero.
Intrufolarsi nei cimiteri non era affatto facile e in più una volta dentro disponevano di un tempo assai limitato prima che le guardie li scorgessero. Un cadavere a notte, se andava bene, e la maggior parte delle volte non era neanche quello giusto.
In più, le ossa corrose che avevano trovato fino a quel momento non erano mai andate bene.
«Non vedo perché affannarsi», riprese, stavolta con tono più calmo. «Di morti è piena la via, Conte, e se c’è una cosa che ci prende tutti è la morte. Non vale la pena affannarsi tanto per qualcosa che prima o poi arriverà. Se il morto non è già al cimitero, nel giro di qualche mese ce lo spediranno i figli.»
Di colpo, il Conte si alzò, lasciandola da sola accanto al fuoco.
«Parlate troppo, Porpora di Vallesanta», le disse, atono, in piedi in mezzo alla rada campagna. La fissava con sguardo vitreo, restando però a distanza. «Il Santo Padre mi ha incaricato di portare voi e vostro fratello a Firenze per farvi svolgere le vostre mansioni, ma non ha fatto parola circa il vostro ritorno. Fossi in voi, reputerei saggio non spingersi oltre e assicurarvi un rientro a Roma in sicurezza. La strada è piena di briganti, incolpare uno di loro per la vostra morte non sarà di certo un problema.»
Porpora ridacchiò nervosamente, alzandosi in piedi a sua volta.
«Vi è un luogo in cui finora non ci siamo spinti», confessò.
Riario la esortò a parlare con un cenno del capo.
«Il cimitero ebraico, appena fuori città. Secondo Orso sarebbe disonesto vendervi le ossa di un eretico, io dico che, ebreo o cristiano, sono comunque ossa messe sotto a della carne marcia. È ciò di cui siamo fatti tutti; persino me, persino voi.»
«Eseguite il vostro dovere senza chiedervi cosa il Signore ci ha fatti», rispose pacato Riario. «Ci sarà un tempo in cui voi e il vostro indecente fratello potrete interrogarvi su ciò che distingue voi impure anime dai giudei del ghetto, ma ora è bene che vi concentriate sulle vostre mansioni.»
«E voi sulle vostre», ribatté Porpora, velenosa. «Le città devono essere governate. Noi anime impure possiamo staccare le ossa dalla carne senza la vostra supervisione.»
Riario rise sommessamente, e fu una risata divertita e sincera, ma non per questo meno inquietante o minacciosa delle precedenti.
Porpora indietreggiò, più che intenzionata a tornare sui suoi passi senza dare le spalle all’uomo.
«Lascerò le fate quando avremo trovato il prossimo corpo. Buona giornata.»
Mosse qualche altro incerto passo nell’erba, ma la voce del Conte la bloccò.
«Un giorno potreste finire per pagare la vostra impertinenza, Porpora», le disse, ancora immobile dinanzi al fuoco che ormai pareva sul punto di spegnersi.
Lei annuì.
«Lo faremo tutti», rispose. «Ma occorre vivere finché c’è tempo. Né a me né a voi sarà concesso di vedere la nostra tomba.»
E detto questo se ne andò definitivamente, diretta all’albero dove aveva lasciato la giacca e il coniglio morto.
Teneva le labbra serrate in uno strano ghigno, gli occhi fissi sul torrente dinanzi a sé, le dita strette alla cintura. Le gambe, invece, le tremavano, prese dalla paura cieca che l’aveva assalita quando Riario aveva riso.











«Mamma ci sgriderebbe.»
Camminando ben dritta davanti a suo fratello, Porpora alzò le spalle.
«Mamma ci farebbe un sacco di cose, ma è morta», puntualizzò, laconica.
Tirò su col naso e accelerò la marcia lungo le mura del cimitero ebraico, stringendo le dita attorno al nodo del sacco di iuta che portava sulle spalle.
Avrebbe tanto voluto dire che le mancava, sua madre, ma non ne era tanto sicura. Da che era tornata a Roma, non aveva sentito una sola persona parlar bene di Celia Lysimachus. A volte, dai racconti del ghetto, pareva addirittura una donna completamente diversa da quella che li aveva cresciuti, o forse era del tutto uguale, Porpora non sapeva dirlo con esattezza. Di Celia, dopo quattro anni di latitanza, non ricordava che gli schiaffi leggeri e le tremende sgridate.
Sbuffando, si fermò dinanzi ai cancelli chiusi del cimitero.
Niente guardie, bensì delle alte punte di ferro da scavalcare senza ferirsi: tutt’altro da ciò che lei aveva sperato di trovare.
«A Roma non si prendono tanto disturbo per i giudei da costruire loro un cancello», commentò Orso, imbronciandosi appena dietro la luce della lanterna.
Porpora roteò gli occhi.
«Tu sei un giudeo», gli ricordò.
Orso alzò le spalle.
«Anche tu.»
Passandosi una mano sulla fronte, Porpora sospirò. Scavalcare quello stramaledetto cancello pareva impresa ben  più ardua che scavalcare il muro di un normale camposanto. Occorreva ingegnarsi.
Svelta, prese a camminare lungo il perimetro del cimitero. Sperò che Orso non la seguisse, ma il ragazzo pareva in vena di conversazioni fastidiose, tanto che la pedinò fino a che non si trovarono ai piedi di una vecchia casa a ridosso del muro scostato.
«Io conosco una persona che non è giudea», stava appunto blaterando, quando Porpora gli fece cenno di avvicinarsi. «Gregorio. Gregorio è cristiano.»
«Piantala di parlare di morti e fammi da scala.»
Corrucciato, Orso si chinò per prenderla per i fianchi e alzarla fino alla prima fila di tegole del vecchio casolare.
«Non sai per certo di parlare di morti finché non li hai davanti», rispose, sbottando. «Che hai intenzione di fare?»
Dal punto in cui Porpora si trovava, in piedi sul tetto più basso, non c’era comunque modo di superare la fila di punte di ferro che seguivano il profilo dell’alto muro del cimitero.
«Vado da sola», rispose lei, prendendo a scalare la torretta del casolare. Si voltò verso Orso quando ormai era a metà della sua impresa. «Tanto non volevamo fare che un sopralluogo, no? Torneremo domani con un piede di porco per il cancello.»
Da terra, la voce di Orso le giunse flebile come quella di un bambino in preda alla paura del buio.
«Sta’ attenta, Sorella!»
Porpora ridacchiò, chiedendosi se Orso avesse la minima idea di quanti muri avesse scalato, negli anni, per sfuggire alla guardia cittadina. Qualche vecchio mattone di campagna, per lei, non era certo un problema.
Si aggrappò con entrambe le mani a due ferri sporgenti e si tirò su con la sola forza delle braccia, appendendosi poi a una nicchia nel muro per proseguire la sua scalata. Una volta sufficientemente in alto, appoggiò il petto contro la facciata e scivolò verso destra, superando in altezza la fila di punte di ferro che ostruivano il passaggio. Si voltò, guardando dritta dinanzi a sé.
Oltre il muro, proprio davanti a lei, si ergeva un vecchio mausoleo di famiglia in marmo, il cui apice terminava con una colonna un poco più alta delle altre.
Porpora trattenne il respiro.
Non era uno dei salti più lunghi che avesse mai dovuto compiere, ma doveva ammettere che non le era mai capitato di rischiare di venire infilzata da una recinzione in ferro battuto.
Riuscì a trovare la forza di buttarsi contro la colonna soltanto quando sentì la voce di Orso implorarla di lasciar stare.
Si buttò letteralmente contro il marmo, battendo entrambi gli avambracci sulla colonna e finendo a terra con un tonfo secco.
Da dietro il muro, la vocina di Orso arrivò tempestiva.
«Tutta intera?»
Porpora si drizzò in piedi, battendo le mani sulle ginocchia per liberare i calzoni dalla polvere.
«Sì, sì», rispose, vaga. «Ma sono bloccata qua dentro. Fa’ il giro del casolare e cerca una corda o una scala. Io intanto mi occupo del morto.»
Un istante di silenzio.
«Sicura di non aver paura?»
Porpora roteò gli occhi, frugando nelle tasche alla ricerca dei cerini.
«Devo venirti a prendere a calci?»
«Per carità, no.»
Stizzita, si sistemò il colletto slabbrato della camicia e procedette verso le tombe dei poveri, pestando qua e là nell’erba umida della notte.
Di certo, l’indizio lasciatole dal Santo Padre non avrebbe potuto aiutare meno. Le ossa di un deforme la cui unica caratteristica pareva l’essere orribile. Un ago in un pagliaio, a contare tutti i morti che c’erano sotto la terra di Firenze.
Prima di partire per il cimitero ebraico, però, Zoroastro li aveva indirizzati verso i sarcofagi di pietra che normalmente venivano addossati lungo le mura a sud: morti facoltosi ma dimenticati le cui tombe erano generalmente già state aperte dai tombaroli in cerca di ori.
Porpora non ci mise poi molto a trovarli.
Senza chiamare suo fratello, impiantò qualche cerino nel terreno morbido, creando una piccola scia di luce attorno alle bare.
Le scoperchiò una a una, adoperando tutta la forza che aveva in corpo per muovere il marmo, e constatando come, una dopo l’altra, quelle tombe si rivelavano essere case di morti uno più normale dell’altro.
Stava per abbandonare ogni speranza quando, raccogliendo l’ultimo cerino, non si accorse di un vecchio sarcofago in un angolo. Era stato costruito in pietra nera, perciò passava del tutto inosservato dinanzi ai suoi compagni immacolati.
Rapida, Porpora gli si avvicinò, usando le sue ultime energie per dare una forte spinta al coperchio per farlo scivolare verso il muro.
Una volta dinanzi alla salma, un largo sorriso si dipinse sul suo viso sporco di terra.
«Orso!», gridò, senza però ricevere risposta. «Orso, l’ho trovato!»
Tornò a guardare il morto, pronta a fare marcia indietro per tornare quando avrebbero avuto modo di scassinare la serratura del cancello, ma qualcosa la bloccò.
Un brivido freddo la percorse, quando la fioca luce del cerino acceso si specchiò sulla superficie lucida e metallica del pendaglio che quelle ossa deformi portavano ancora al collo.
Porpora la riconobbe immediatamente.
Testa rotonda e decorata da strani e ricorrenti motivi, gambo triangolare, l’intagliatura più strana che avesse mai visto su una chiave.
Il nome di sua madre le scivolò dalle labbra così velocemente che non ebbe nemmeno il tempo di pensarlo.
«Celia», disse, e in un istante la sua mano volò sul mucchio d’ossa che aveva dinanzi per strappare il cordoncino e appropriarsi di quell’oggetto.
Rimase a guardarlo a lungo, girandoselo e rigirandoselo tra le mani quasi avesse appena trovato il più prezioso dei tesori.
Poi, dei passi alle sue spalle la misero in allarme.
Fece appena in tempo a far scivolare la chiave nella tasca della giacca che una mano pensate cadde sulla sua spalla, afferrandola per trascinarla a terra.
«Ti ho presa, tombarola!»
Un uomo alto almeno il doppio di lei la scrollò, prendendo a camminare verso il cancello con la sua spalla in una mano e la lanterna nell’altra.
«Il tuo compare è già in gabbia. Vi spedirò dritti dalla guardia cittadina!»
Una volta uscita dal cimitero e portata al cospetto di un Orso tenuto fermo da un uomo della medesima stazza, Porpora non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi.
Ma come avevano potuto essere così stupidi da non considerare la presenza dei custodi, visto l’assenza di guardie?
Si diede dell’imbecille, dopodiché si rivolse all’uomo che inesorabile la stava spintonando verso il muro del casolare.
«Per favore», piagnucolò, cadendo in ginocchio. «Abbiamo soltanto fame!»
«Già», intervenne con un grosso sospiro l’aguzzino di Orso. «Guardateli, padre: sono magri come chiodi.»
L’uomo però non demorse.
«Dovessimo tener d’occhio solo i grassi, figlio, dormiremmo tutti sonni più lieti!»
Porpora sbuffò.
«Non cercavo che delle monete», insistette. «Che se ne farebbe un morto?»
Di nuovo, il figlio del custode arrivò in suo soccorso.
«Qui i tombaroli hanno già ripulito ogni cosa», disse, pacifico. «Padre, non avrebbero comunque potuto rubare nulla. Non sono che ragazzi!»
«E sia, Paolo», concesse infine l’uomo, lasciando finalmente la presa su Porpora. «Ma ricorda che se domani notte saranno ancora qui a elemosinare sarai tu stesso a portarli a Firenze!»
Porpora non udì mai la risposta di Paolo.
Non appena fu libera, scattò in avanti e afferrò Orso per la collottola, trascinandoselo dietro mentre correva verso i campi più rapida di una freccia.
Non le importava di aver lasciato indietro la borsa con la sega e le pinze. Non le importava neanche di aver lasciato più della metà dei suoi cerini al cimitero.
La chiave che aveva in tasca pesava più di qualunque bagaglio e, a ogni rimbalzo che compiva sulla sua coscia, la carne pareva ardere sempre di più.
Arrivarono a Firenze che le porte erano ancora chiuse, controllate dagli uomini del Capitano Dragonetti che però non pareva essere nei dintorni.
«Pare che dovremo aspettare l’alba», considerò Orso, piegato in due dal fiato corto della corsa.
Porpora non poté far altro che scivolare a terra, stremata.
Il cuore batteva forte e la gamba pulsava contro quell’oggetto che aveva appena rubato a un morto.
Sconvolta, si portò il polso alla fronte, asciugandola del sudore raggrumato sulla frangia.
«La mamma ci avrebbe sgridati», sussurrò, più a se stessa che a suo fratello.
Dopo gli schiaffi, era l’unica cosa che ricordava di Celia. “Mai rubare ai morti”, diceva sempre, quando con Mastro Giovanni si recavano al cimitero per gli ossequi ai defunti. Saltando tra l’erba alta, Orso chiedeva sempre perché. Allora Celia si incupiva e si accovacciava su di lui, sgranando gli occhi chiari e scompigliando i capelli del suo figlio più giovane. “È semplice, yeled sheli”, rispondeva, seria. “Perché i morti ritornano sempre a prendersi ciò che è stato loro sottratto.”





   
 
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