I
Longobardi
giunsero in Italia nel 568.
Guidati da
Alboino, il loro re, conquistarono Pavia, nel 572.
Il regno di
Alboino terminò quello stesso anno e il suo successore, Clefi, regnò
solo due
anni, al termine dei quali ci fu un periodo di “interregno”: nessun re
per
dieci anni. Fu quello il periodo in cui diversi duchi longobardi
conquistarono
molti territori nella penisola italiana, estendendosi a macchia di
leopardo.
Dopo dieci anni
venne nominato un nuovo re, Autari, figlio di Clefi.
Autari sposò
Teodolinda, regina importante per la storia longobarda.
Alla sua morte
Teodolinda andò in sposa al nuovo sovrano, Agilulfo.
Uno dei re più
ricordati è Rotari che nella notte tra il 22 e il 23 novembre del 643
emanò un
editto in lingua latina, anche se alquanto sgrammaticata e con diversi
termini
longobardi.
L’editto
raccoglie le antiche leggi del popolo longobardo, pur con aspetti
derivanti
direttamente dal diritto romano.
Ad esempio alla
faida (ovvero la possibilità di ottenere vendetta ricorrendo all’uso
della
forza dopo aver subito un torto), venne sostituito il guidrigildo,
ossia un
risarcimento in denaro che varia a seconda del valore e della dignità
di chi
commette o subisce il reato.
Particolarmente significativa
la differenza di pena per il delitto di un coniuge: se un marito avesse
ucciso
la propria moglie, la pena era un risarcimento in denaro o i lavori
forzati.
Una moglie che
avesse ucciso suo marito, invece, subiva la condanna a morte o la
lapidazione.
SELPMUNDIA
Il
suono della pietra che fendeva l’aria squarciò il silenzio, carico di
singhiozzi soffocati e risate beffarde.
Vita
e morte, lacrime e sorrisi, coraggio e paura.
Tutto
concentrato in quello spiazzo piccolo e perverso, teatro di una
condanna
terribilmente ingiusta, eppure perpetrata in nome della giustizia.
Una
giustizia che aveva raschiato la vendetta in favore di una pena meno
severa, di
un pagamento in denaro degno per risarcire la vita di un uomo.
Non
ci sarebbero più state faide, non ora che il re le aveva espressamente
vietate.
Rotari
aveva fatto in modo che non scorresse più sangue nelle famiglie, aveva
sostituito a quella parola, “faida”, breve eppure infida, una parola
più lunga
e contorta: “guidrigildo”.
Quell’editto
era stato accolto a denti stretti da coloro i quali avevano parecchi
conti in
sospeso, morti da onorare, vite da vendicare, sangue da lavare con il
sangue.
C’era
chi sussurrava, con parole contrite e proibite, che il re era diventato
pazzo,
che non sarebbe più stato degno di guidare quel popolo fiero e altero.
Vendicare
una morte con il denaro era roba da Romani, prerogativa di un popolo
ormai
sconfitto, debole, distrutto.
Loro
invece, i Longobardi, erano i guerrieri vittoriosi, mai sazi,
indomabili.
Rotari
aveva disonorato le loro tradizioni, aveva cancellato con quelle leggi,
addirittura messe per iscritto in Latino, anni di gloriosa storia
longobarda.
Aveva
spazzato in un colpo solo la conquista vittoriosa di Pavia, le gesta di
re
Alboino, di Clefi, dei duchi gloriosi che senza un re avevano
conquistato
territori.
Tutto
per rendere il loro popolo simile a quello Romano.
Eppure
no, non era previsto che una donna che uccidesse il proprio marito
potesse
versare un guidrigildo come tutti gli altri.
Rotari
aveva modificato tutto ma non questo.
Un
marito che avesse ucciso la propria sposa avrebbe dovuto pagare una
somma in
denaro, oppure, se ne era sprovvisto, avrebbe dovuto dedicarsi ai
lavori
forzati.
Una
donna che avesse ucciso il proprio marito, invece, doveva morire.
Lapidata
da una folla inebriata dall’odore disumano del sangue.
Violata
in tutto il corpo da pietre fameliche di vendetta.
La
morte era una speranza che arrivava sempre troppo tardi, dopo ore di
agonia e
lacrime.
Teodolinda,
nome da regina dentro un corpo da donna miserabile, conficcò le unghie
nella
carne e strinse i denti fin quasi a spaccarli.
Gli
occhi rossi e gonfi, di chi piange cercando di non versare lacrime, le
labbra
strette in una smorfia di dolore e disgusto.
Non
avrebbe dato a quel branco selvaggio ed eccitato dalla sua sorte la
soddisfazione di urlare e mostrarsi sofferente.
Sarebbe
morta indomita e ribelle, non come suo marito.
Ricordava
lo sguardo pregno di terrore dell’uomo, i suoi occhi sbarrati, le sue
mani
arrendevoli che si libravano in aria, supplicandola di non colpirlo più.
Ricordava
il sangue che sgorgava copioso dallo stomaco, che zampillava come fosse
un
fiume.
L’aveva
ucciso con la stessa spada che lui usava in battaglia.
Lui,
guerriero valoroso e amato in tutta la fara*.
Lui,
arimanno**, uomo libero, che aveva il privilegio di far parte insieme a
pochi
altri della gairethinx*** e di eleggere il re.
Lui
che prendeva tutto senza chiedere nulla.
Era
affamato di lussuria e morte.
Combattere
in un campo di battaglia o su un letto gli procurava il medesimo,
insulso
piacere.
Urlava
mentre uccideva con colpi sapienti e
feroci altri uomini.
Urlava
mentre avvolgeva con mani callose e sudaticce altre donne.
Teodolinda
sapeva che non le era permesso ribellarsi.
Sapeva
che lei contava al pari di un oggetto, meno di un cavallo.
Sapeva
e subiva.
Accettava
i tradimenti e non fiatava.
D’altronde
non aveva mai amato quell’uomo e non provava verso di lui alcuna
gelosia.
Gli
aveva dato otto figli e mai, mai, aveva provato alcun piacere mentre
lui la
stringeva con grugniti animaleschi.
Gli
aveva dato otto figli che amava più di se stessa e aveva pianto, si era
strappata i capelli, aveva urlato, quando tre di loro, gli unici
maschi, erano
morti impugnando le armi, per combattere guerre che lei reputava
assurde.
Gli
aveva dato otto figli e si era disperata quando le tre figlie maggiori,
ancora
acerbe e con gli occhi velati di ingenuità, erano andate in sposa a tre
uomini
vecchi, immensi, violenti.
Gli
aveva dato otto figli e a casa ne erano rimaste solo due, le più
piccole,
ancora bambine, ancora innocenti.
Gli
aveva dato otto figli e lui aveva violentato una di loro.
La
più piccola, la più indifesa.
Era
normale, in quelle fare senza legge e senza umanità.
Ma
Teodolinda quello non poteva accettarlo.
Anche
se lei stessa aveva subito una sorte simile.
O
forse proprio perché lei stessa sapeva cosa si provava.
Aveva
aspettato che suo marito si addormentasse in quel letto orrido,
testimone del
più feroce dei crimini, aveva fatto uscire fuori dalla stanza sua
figlia, che
ancora tremava, che ancora piangeva senza capire perché avesse sentito
tutto
quel dolore.
Aveva
impugnato la spada di cui suo marito andava così fiero e l’aveva
infilzata
contro il suo ventre.
Una,
due, tre, cinque, dieci volte.
Sempre
con più violenza, sempre con più rancore.
E
lui si era svegliato, steso a letto, ancora nudo come un verme.
Aveva
rantolato, ormai troppo debole per difendersi.
Ed
era morto con gli occhi ancora aperti come una vittima, dopo che lui
stesso era
stato carnefice.
La
gente della fara non aveva tardato molto a scoprire il crimine.
E
Teodolinda era stata condotta fuori dalla casa, sbeffeggiata, sputata.
E
ora lapidata.
Avevano
avuto pietà di lui, che aveva commesso il più ignobile dei delitti, ma
non per
lei che aveva solo tentato di difendere la sua bambina.
Le
pietre le accarezzarono il volto facendo sgorgare fiotti di sangue.
Le
ginocchia si arresero, crollando a terra sotto il peso di quei colpi.
Ma
mai un urlo, mai una lacrima, sconvolsero la fierezza della donna.
In
quella bolgia di vendette e ingiustizia, Teodolinda vide i capelli
scarmigliati
della figlioletta farsi strada.
La
bambina spinse, strattonò, si fece largo.
E
comparve di fronte alla madre, con lo sguardo ormai adulto di chi è
dovuto
crescere troppo in fretta.
Stretta
nel pugno aveva la spada dell’omicidio, lucida, immacolata, senza
nemmeno una
goccia di sangue.
Dipinto
sul volto c’era il sorriso di chi è riconoscente.
Gli
occhi brillavano di una luce nuova, di un coraggio mai avuto.
La
bambina accarezzò la spada sorridendo ampiamente alla madre.
Le
due si scambiarono un cenno: Teodolinda aveva compreso.
La
figlia si allontanò mentre la madre era riversa a terra, con gli occhi
ridotti
a una fessura.
Si
allontanò, andò via, camminò, sgambettò, sorrise, sparì.
Evanescente
come un’ombra senza più Sole.
La
cercarono a lungo nel villaggio.
Non
la trovarono mai.
La
cercarono mentre il corpo della madre diventava concime per vermi,
sepolto in
una fossa sotto terra.
Quando
avevano smesso di tirarle pietre contro e le si erano avvicinati per
seppellire
il suo cadavere, l’avevano ritrovata con gli occhi chiusi ma la bocca
aperta.
Un
sorriso largo, gioioso, sollevato, le incorniciava il volto.
Teodolinda
sapeva, Teodolinda aveva compreso.
La
sua bambina non avrebbe mai più subito crimini del genere.
La
sua bambina era diventata donna grazie all’insegnamento di sua madre.
La
sua bambina era andata a dirle addio, prima di fuggire da una vita di
mortificazioni e stenti, prima di fuggire da quella fara dove l’avrebbe
attesa
un destino di moglie sottomessa, donna sacrificata, schiava.
Avrebbe
condotto una vita da fuggiasca, ma sarebbe stata libera.
Nessuno
più le avrebbe fatto del male, Teodolinda l’aveva capito quando la
figlia aveva
accarezzato quella spada sorridendo.
E
allora sì, aveva sorriso anche lei e aveva chiuso gli occhi.
Per
sempre.
SELPMUNDIA:
Parola longobarda che vuol dire “Autonoma, in autotutela, in potestà
propria”. Proprio
quello che diventerà la bambina una volta fuggita dal villaggio.
*FARA:
Insediamento, villaggio, in cui erano stanziati gruppi di longobardi.
**GAIRETHINX:
Assemblea generale del Regno dei Longobardi. Costituita da coloro che
impugnavano le armi.
***ARIMANNO: Guerriero longobardo.
N.d.A. Ho
scritto questa storia dopo essere passata all'esame di Storia Medievale.
Avevo fatto una specie di fioretto: se
l'avessi superato avrei scritto una fanfiction storica su una delle
domande che mi avrebbero posto.E appunto, una delle domande è stata
sull'Editto di Rotari, sulla cui storia ho accennato qualcosa in alto.
Ho cercato di essere abbastanza fedele
agli usi, alla lingua, e al contesto dell'epoca, ma ovviamente ho
dovuto romanzare qualcosa.
Spero vi piaccia!