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Autore: DreamWriter    06/06/2014    4 recensioni
Nel novembre del 643 il re longobardo Rotari emana un editto destinato a cambiare per sempre le leggi del suo popolo.
L'editto prevedeva, tra le altre cose, che un marito che avesse ucciso la propria moglie si sarebbe limitato ad un semplice risarcimento in denaro.
Una moglie che avesse ucciso suo marito, invece, era condannata a morte.
Teodolinda, fiera, altera, indomabile, è una di queste donne.
Moglie senza amare, assassina per amore.
Perché a volte le ingiustizie più crudeli sono proprio quelle commesse in nome della giustizia.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate | Contesto: Medioevo
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I Longobardi giunsero in Italia nel 568.
Guidati da Alboino, il loro re, conquistarono Pavia, nel 572.
Il regno di Alboino terminò quello stesso anno e il suo successore, Clefi, regnò solo due anni, al termine dei quali ci fu un periodo di “interregno”: nessun re per dieci anni. Fu quello il periodo in cui diversi duchi longobardi conquistarono molti territori nella penisola italiana, estendendosi a macchia di leopardo.
Dopo dieci anni venne nominato un nuovo re, Autari, figlio di Clefi.
Autari sposò Teodolinda, regina importante per la storia longobarda.
Alla sua morte Teodolinda andò in sposa al nuovo sovrano, Agilulfo.
Uno dei re più ricordati è Rotari che nella notte tra il 22 e il 23 novembre del 643 emanò un editto in lingua latina, anche se alquanto sgrammaticata e con diversi termini longobardi.
L’editto raccoglie le antiche leggi del popolo longobardo, pur con aspetti derivanti direttamente dal diritto romano.
Ad esempio alla faida (ovvero la possibilità di ottenere vendetta ricorrendo all’uso della forza dopo aver subito un torto), venne sostituito il guidrigildo, ossia un risarcimento in denaro che varia a seconda del valore e della dignità di chi commette o subisce il reato.
Particolarmente significativa la differenza di pena per il delitto di un coniuge: se un marito avesse ucciso la propria moglie, la pena era un risarcimento in denaro o i lavori forzati.

 
Una moglie che avesse ucciso suo marito, invece, subiva la condanna a morte o la lapidazione.

 

SELPMUNDIA

 

Il suono della pietra che fendeva l’aria squarciò il silenzio, carico di singhiozzi soffocati e risate beffarde.
Vita e morte, lacrime e sorrisi, coraggio e paura.
Tutto concentrato in quello spiazzo piccolo e perverso, teatro di una condanna terribilmente ingiusta, eppure perpetrata in nome della giustizia.
Una giustizia che aveva raschiato la vendetta in favore di una pena meno severa, di un pagamento in denaro degno per risarcire la vita di un uomo.
Non ci sarebbero più state faide, non ora che il re le aveva espressamente vietate.
Rotari aveva fatto in modo che non scorresse più sangue nelle famiglie, aveva sostituito a quella parola, “faida”, breve eppure infida, una parola più lunga e contorta: “guidrigildo”.
Quell’editto era stato accolto a denti stretti da coloro i quali avevano parecchi conti in sospeso, morti da onorare, vite da vendicare, sangue da lavare con il sangue.
C’era chi sussurrava, con parole contrite e proibite, che il re era diventato pazzo, che non sarebbe più stato degno di guidare quel popolo fiero e altero.
Vendicare una morte con il denaro era roba da Romani, prerogativa di un popolo ormai sconfitto, debole, distrutto.
Loro invece, i Longobardi, erano i guerrieri vittoriosi, mai sazi, indomabili.
Rotari aveva disonorato le loro tradizioni, aveva cancellato con quelle leggi, addirittura messe per iscritto in Latino, anni di gloriosa storia longobarda.
Aveva spazzato in un colpo solo la conquista vittoriosa di Pavia, le gesta di re Alboino, di Clefi, dei duchi gloriosi che senza un re avevano conquistato territori.
Tutto per rendere il loro popolo simile a quello Romano.
Eppure no, non era previsto che una donna che uccidesse il proprio marito potesse versare un guidrigildo come tutti gli altri.
Rotari aveva modificato tutto ma non questo.
Un marito che avesse ucciso la propria sposa avrebbe dovuto pagare una somma in denaro, oppure, se ne era sprovvisto, avrebbe dovuto dedicarsi ai lavori forzati.
Una donna che avesse ucciso il proprio marito, invece, doveva morire.
Lapidata da una folla inebriata dall’odore disumano del sangue.
Violata in tutto il corpo da pietre fameliche di vendetta.
La morte era una speranza che arrivava sempre troppo tardi, dopo ore di agonia e lacrime.
Teodolinda, nome da regina dentro un corpo da donna miserabile, conficcò le unghie nella carne e strinse i denti fin quasi a spaccarli.
Gli occhi rossi e gonfi, di chi piange cercando di non versare lacrime, le labbra strette in una smorfia di dolore e disgusto.
Non avrebbe dato a quel branco selvaggio ed eccitato dalla sua sorte la soddisfazione di urlare e mostrarsi sofferente.
Sarebbe morta indomita e ribelle, non come suo marito.
Ricordava lo sguardo pregno di terrore dell’uomo, i suoi occhi sbarrati, le sue mani arrendevoli che si libravano in aria, supplicandola di non colpirlo più.
Ricordava il sangue che sgorgava copioso dallo stomaco, che zampillava come fosse un fiume.
L’aveva ucciso con la stessa spada che lui usava in battaglia.
Lui, guerriero valoroso e amato in tutta la fara*.
Lui, arimanno**, uomo libero, che aveva il privilegio di far parte insieme a pochi altri della gairethinx*** e di eleggere il re.
Lui che prendeva tutto senza chiedere nulla.
Era affamato di lussuria e morte.
Combattere in un campo di battaglia o su un letto gli procurava il medesimo, insulso piacere.
Urlava mentre uccideva  con colpi sapienti e feroci altri uomini.
Urlava mentre avvolgeva con mani callose e sudaticce altre donne.
Teodolinda sapeva che non le era permesso ribellarsi.
Sapeva che lei contava al pari di un oggetto, meno di un cavallo.
Sapeva e subiva.
Accettava i tradimenti e non fiatava.
D’altronde non aveva mai amato quell’uomo e non provava verso di lui alcuna gelosia.
Gli aveva dato otto figli e mai, mai, aveva provato alcun piacere mentre lui la stringeva con grugniti animaleschi.
Gli aveva dato otto figli che amava più di se stessa e aveva pianto, si era strappata i capelli, aveva urlato, quando tre di loro, gli unici maschi, erano morti impugnando le armi, per combattere guerre che lei reputava assurde.
Gli aveva dato otto figli e si era disperata quando le tre figlie maggiori, ancora acerbe e con gli occhi velati di ingenuità, erano andate in sposa a tre uomini vecchi, immensi, violenti.
Gli aveva dato otto figli e a casa ne erano rimaste solo due, le più piccole, ancora bambine, ancora innocenti.
Gli aveva dato otto figli e lui aveva violentato una di loro.
La più piccola, la più indifesa.
Era normale, in quelle fare senza legge e senza umanità.
Ma Teodolinda quello non poteva accettarlo.
Anche se lei stessa aveva subito una sorte simile.
O forse proprio perché lei stessa sapeva cosa si provava.
Aveva aspettato che suo marito si addormentasse in quel letto orrido, testimone del più feroce dei crimini, aveva fatto uscire fuori dalla stanza sua figlia, che ancora tremava, che ancora piangeva senza capire perché avesse sentito tutto quel dolore.
Aveva impugnato la spada di cui suo marito andava così fiero e l’aveva infilzata contro il suo ventre.
Una, due, tre, cinque, dieci volte.
Sempre con più violenza, sempre con più rancore.
E lui si era svegliato, steso a letto, ancora nudo come un verme.
Aveva rantolato, ormai troppo debole per difendersi.
Ed era morto con gli occhi ancora aperti come una vittima, dopo che lui stesso era stato carnefice.
La gente della fara non aveva tardato molto a scoprire il crimine.
E Teodolinda era stata condotta fuori dalla casa, sbeffeggiata, sputata.
E ora lapidata.
Avevano avuto pietà di lui, che aveva commesso il più ignobile dei delitti, ma non per lei che aveva solo tentato di difendere la sua bambina.
Le pietre le accarezzarono il volto facendo sgorgare fiotti di sangue.
Le ginocchia si arresero, crollando a terra sotto il peso di quei colpi.
Ma mai un urlo, mai una lacrima, sconvolsero la fierezza della donna.
In quella bolgia di vendette e ingiustizia, Teodolinda vide i capelli scarmigliati della figlioletta farsi strada.
La bambina spinse, strattonò, si fece largo.
E comparve di fronte alla madre, con lo sguardo ormai adulto di chi è dovuto crescere troppo in fretta.
Stretta nel pugno aveva la spada dell’omicidio, lucida, immacolata, senza nemmeno una goccia di sangue.
Dipinto sul volto c’era il sorriso di chi è riconoscente.
Gli occhi brillavano di una luce nuova, di un coraggio mai avuto.
La bambina accarezzò la spada sorridendo ampiamente alla madre.
Le due si scambiarono un cenno: Teodolinda aveva compreso.
La figlia si allontanò mentre la madre era riversa a terra, con gli occhi ridotti a una fessura.
Si allontanò, andò via, camminò, sgambettò, sorrise, sparì.
Evanescente come un’ombra senza più Sole.
La cercarono a lungo nel villaggio.
Non la trovarono mai.
La cercarono mentre il corpo della madre diventava concime per vermi, sepolto in una fossa sotto terra.
Quando avevano smesso di tirarle pietre contro e le si erano avvicinati per seppellire il suo cadavere, l’avevano ritrovata con gli occhi chiusi ma la bocca aperta.
Un sorriso largo, gioioso, sollevato, le incorniciava il volto.
Teodolinda sapeva, Teodolinda aveva compreso.
La sua bambina non avrebbe mai più subito crimini del genere.
La sua bambina era diventata donna grazie all’insegnamento di sua madre.
La sua bambina era andata a dirle addio, prima di fuggire da una vita di mortificazioni e stenti, prima di fuggire da quella fara dove l’avrebbe attesa un destino di moglie sottomessa, donna sacrificata, schiava.
Avrebbe condotto una vita da fuggiasca, ma sarebbe stata libera.
Nessuno più le avrebbe fatto del male, Teodolinda l’aveva capito quando la figlia aveva accarezzato quella spada sorridendo.
E allora sì, aveva sorriso anche lei e aveva chiuso gli occhi.
Per sempre. 
 

 

SELPMUNDIA: Parola longobarda che vuol dire “Autonoma, in autotutela, in potestà propria”. Proprio quello che diventerà la bambina una volta fuggita dal villaggio.

*FARA: Insediamento, villaggio, in cui erano stanziati gruppi di longobardi.

**GAIRETHINX: Assemblea generale del Regno dei Longobardi. Costituita da coloro che impugnavano le armi.

***ARIMANNO: Guerriero longobardo.



N.d.A. Ho scritto questa storia dopo essere passata all'esame di Storia Medievale.
Avevo fatto una specie di fioretto: se l'avessi superato avrei scritto una fanfiction storica su una delle domande che mi avrebbero posto.E appunto, una delle domande è stata sull'Editto di Rotari, sulla cui storia ho accennato qualcosa in alto.
Ho cercato di essere abbastanza fedele agli usi, alla lingua, e al contesto dell'epoca, ma ovviamente ho dovuto romanzare qualcosa.
Spero vi piaccia!

   
 
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