Riding on winds
Walking on sand
Digging in case
to find the treasures of
the land
And if we find
gold
Well, we’ll
just throw it away
Lo
sferragliare delle ruote del treno e il suo costante oscillare dovrebbero
rendere tutto più monotono. Di fronte a me Mark perde la concentrazione, a
tratti i suoi occhi si chiudono e la testa ciondola debolmente, quasi sul punto
di cadere; ma non dura mai a lungo, si sveglia in fretta e torna a puntare il
suo sguardo, ancora spento, fuori dal vetro. È vero che il treno oscilla, che
il suo rumore è monotono, ma io non riesco ad annoiarmi, no di certo. È da
quando ci siamo allontanati dalla città che tutto è cambiato; da quando abbiamo
raggiunto l’orizzonte e lo abbiamo superato niente è più come l’ho sempre
visto. Il grigio si è fatto più debole e incerto, sovrastato dalla magnificenza
dell’azzurro del cielo, che lo ha lentamente consumato fino a farlo scomparire.
E il verde, quello è ovunque, nei prati , sulle fragili gemme che cominciano ad
affiorare sugli alberi, in chiazze caotiche dislocate in mezzo ai boschi che
non rimarranno solo chiazze a lungo. Quel verde è dappertutto, con la sua
brillantezza domina incontrastato ogni angolo che i miei occhi incuriositi
vanno a cercare.
Non
avrei mai pensato di assistere un giorno a tutto questo, di vedere che tutte le
cose che immaginavo insieme a Mark quando ero poco più di un bambino in realtà
sono vere. Crescendo in una città come quella in cui siamo cresciuti noi mi
sono abituato al grigio più totale, ovunque; mi sono abituato a non riuscire a
intravedere niente di più libero di un ratto che passa di fretta per strada,
niente di più selvatico di un arbusto
infragilito. Ma per mia fortuna il mondo non è così, è ricco di bellezza e io
ne sto sicuramente ammirando solo una minuscola parte; mi pento di non aver mai
trovato il coraggio sufficiente per partire tempo fa e incontrare tutto questo.
Le
rotaie si arrampicano sulle colline, le scalano portandoci lontano; più il
tempo passa più i chilometri aumentano, ci allontaniamo dalla città
immergendoci sempre più in qualcosa di unico, in cui uomo e mondo convivono
perfettamente, prendendosi reciprocamente cura l’uno dell’altro.
Le
ore scorrono, una dopo l’altra, diventano quattro ma quasi non me ne rendo
conto, perché per quanto silenzio regni nella carrozza in cui sono seduto,
fuori c’è tutta la vita che ho sempre cercato e questo mi basta a far passare
piacevolmente il tempo. La mia mente si libera, i miei pensieri si trasformano
in fantasie, in voglia di vedere un posto piuttosto che un altro, si evolvono
in ricordi che spero di ottenere un giorno, in memorie che custodisco nel più
profondo, in sentimenti di dolcezza verso quello che ho lasciato dietro di me.
Tutto mi si amalgama dentro, tutto va ad accrescere me, il mio sogno e la mia
anima, facendomi sentire più vivo che mai.
Quando
la voce del capotreno annuncia che la prossima è la stazione a cui dovremo
scendere, ci prepariamo. Mi sembra di essermi allontanato tantissimo dal luogo
in cui vivevo prima, guardando fuori dal finestrino niente è come un tempo,
assolutamente niente, ed è una cosa dannatamente eccitante. Finalmente avrò
nuovi luoghi da scoprire, nuove persone da conoscere; potrò alzarmi la mattina
rendendomi effettivamente conto che sceglierò io dove andare e cosa fare,
consapevole che, una volta voltato un angolo, non mi troverò davanti l’ennesimo
grattacielo grigio, ma qualcosa che non ho mai visto.
Il
treno rallenta sempre più, fino ad arrestare la sua corsa. Né io né Mark
sappiamo esattamente cosa stiamo per incontrare in questa minuscola stazione
immersa nel verde, per questo nessuno dei due dice niente. Quando le porte si
aprono ci guardiamo e basta, lui si carica in spalla il borsone e mi precede
scendendo dal mezzo. Lo seguo e, appena poso piede sulla banchina, subito vengo
accolto da una brezza e dal suo profumo. È come se il vento fosse venuto ad
accoglierci, come se volesse dirmi che, finalmente, dopo tanto ci riamo
rincontrati.
Insieme
a me e al mio amico sono scese dal treno solo poche altre persone, queste si
allontanano senza fretta, dirigendosi verso la loro vita. Solo una figura
rimane immobile, si guarda intorno fino a notarci e poi si avvicina. È un
ragazzo giovane, avrà al massimo ventiquattro anni, i curati baffi rossicci si
incurvano ulteriormente quando ci sorride, mentre gli spettinati capelli
sfumati di rame ondeggiano nel vento.
«Voi
dovete essere Steve e Mark.» dice, con un tono che ricorda tanto Vincent,
guardando prima Mark poi me.
«Steve
è lui.» precisa il mio amico.
Il
ragazzo sorride nuovamente:
«Ah, ma certo.»
Prende
fiato:
«Ben
arrivati. Io sono Jason.»
Stringe
la mano ad entrambi e rimane fermo a guardarci, i suoi luminosi occhi nocciola
paiono intenti a sorriderci.
«Immagino
che Vinny ti abbia già detto tutto quello che c’è da sapere su di noi.»
Mark
rompe il silenzio con questa frase, che appare più come un’affermazione che
altro.
Jason
annuisce:
«Naturalmente.
Avremo modo di parlare della vostra storia, vorrei che un giorno poteste
raccontarmela.»
Posa
lo sguardo su di me e io acconsento con un debole cenno del capo.
Riprende
subito parola:
«Bene,
vogliamo andare?»
Ci
da le spalle e si incammina, ma un paio di passi dopo si ferma, voltandosi
nuovamente:
«Spero
non vi dispiaccia camminare un po’.» dice.
Io
e Mark ci guardiamo, quasi scoppiamo a ridere all’espressione fortemente
dispiaciuta del giovane. È un ragazzo sicuramente vivace e chiaramente
premuroso.
«No.»
rispondiamo infine, all’unisono.
Jason
sorride e riprende a camminare, noi gli rimaniamo dietro, ma con l’intenzione
di farlo solo per poco. Mark si china verso di me e sussurra:
«È
un Vincent in miniatura.»
Un
sorriso si fa largo spontaneo sul mio volto; effettivamente è vero, per tanti
versi il primo incontro con questo ragazzo ricorda molto quello avuto con Vinny
e questo non può che essere positivo per me. Conoscere Vincent mi è stato
d’aiuto e sono certo che anche con Jason le cose non andranno diversamente.
Il
tragitto si dimostra alquanto lungo, ma non è importante; lungo la strada Jason
parla di qualunque cosa gli passi per la mente, ci racconta di Vinny, del
perché lo raggiunge di tanto in tanto fin qui e ci indica dove posare lo
sguardo per ammirare i primi e più coraggiosi fiori primaverili. Ancora stento
a capacitarmi di tutta la bellezza presente intorno a noi, più passi compio più
mi sento vivo. Non mi era mai successo, mai
mi sarebbe potuto accadere in quella città, dove tutto e tutti non hanno fatto
altro che schiacciare il pezzo di mondo su cui hanno avuto la fortuna di
trovarsi.
Cosa
può averli spinti ad uccidere così tanta vita? Cosa? Proprio non riesco a
capirlo.
La
strada che stiamo percorrendo svolta improvvisamente e, fra le fronde, compare
un paese, una piccola città dove si sentono le voce delle persone e il suono
della loro esistenza. È un luogo rustico che ricorda tanto le illustrazioni dei
libri di avventure. Continuiamo a camminare fino ad una casa di due piani,
chiaramente suddivisa in piccoli appartamenti.
Jason
si volta verso di noi:
«Eccoci
arrivati, seguitemi.»
Ci
fa strada lungo le scale, fino ad un ingresso. Gira con calma la chiave nella
serratura e ci fa spazio, lasciandoci entrare per primi nel piccolo, ma
accogliente, appartamento. Mi osservo rapidamente intorno e una cosa attrae
immediatamente la mia attenzione: la finestra. Mi avvicino e guardo fuori,
incredulo. Al di là del vetro è come se ci fosse tutto il mondo, ci sono prati,
colli e foreste, che presto saranno un amalgama incredibile dei più bei verdi
che possa immaginare e il cielo incornicia tutto con il suo azzurro, talmente
splendente da risultare accecante.
«Spero
sia di vostro gradimento.» sento dire a Jason, dietro di me.
Sto
per rispondergli ma vengo preceduto da Mark, che utilizza le stesse parole che
avrei usato io, come se mi avesse letto nel pensiero:
«È
perfetto.»
Mi
volto in tempo per vedere entrambi sorridermi. Il più giovane allora prende a
mostrarci il resto della casa, senza utilizzare più parole di quelle necessarie
per descriverci le stanze, o almeno non le utilizza finché non raggiungiamo una
delle camere da letto. Si ferma sulla soglia, parendo un filo imbarazzato:
«Purtroppo
non ho avuto tempo di spostare uno dei due letti nell’altra stanza.»
«Non
c’è problema, ci penseremo noi domani.» rispondo.
Lui
annuisce e si incammina verso l’ingresso:
«Vi
lascio disfare i vostri bagagli, ok? Fate pure con calma, noi ci vediamo dopo.»
Mark
acconsente e si dirige nella camera con il borsone in spalla. Io temporeggio
più del dovuto prima di fermare Jason, proprio sulla soglia:
«Posso chiederti una cosa?»
Il
ragazzo si volta:
«Certamente.»
Lo
lascio in attesa per qualche secondo, cercando le parole giuste per evitare di
far apparire la mia richiesta assurda o ridicola:
«Vedi,
mi piacerebbe molto poter andare a vedere l’alba domani. Sai… sai se c’è un
posto da cui si riesce a vedere bene?»
Lui
sorride, un sorriso dolce e cordiale:
«Eccome.
È un po’ distante da qui, però. Devi arrivare fino alla valle, è rivolta
proprio a est e da lì vedrai sicuramente una bellissima alba. Posso prestarti
la mia bicicletta per arrivare fin là.»
«Grazie.»
Sorride
nuovamente e mi rendo conto di non sapere esattamente come sentirmi. Mi sta
aiutando anche lui, c’è un’altra persona per cui mi sto probabilmente rendendo
un peso, qualcun altro per cui non farò tanto quanto vorrei, proprio come
quando ero in città, proprio come per Vinny, Jocelyn, Gabriel e Mark.
Jason
deve notare la mia espressione assente, il mio silenzio deve sicuramente averlo
reso dubbioso, perché quasi subito mi chiede:
«C’è
qualcosa che ti turba?»
Alzo
gli occhi su di lui:
«No, è solo che… stavo pensando a Vincent e a tutti gli altri. Mi fa uno strano
effetto sapere che loro sono ancora là mentre io no.»
È
la verità, mi fa sentire in colpa l’averli abbandonati così. Io ora ho un nuovo
orizzonte da poter guardare tutti i giorni, loro, invece, hanno sempre lo
stesso.
Il
ragazzo respira a fondo prima di prendere parola, lo fa con un tono pacato che
ricorda Vinny stesso:
«Posso
capire. Ma hai dovuto affrontare una
scelta difficile e non avevi alternativa.»
Scuoto
la testa:
«Invece
l’avevo. Credo solo di aver scelto la via più semplice. Avrei dovuto rimanere
insieme a loro, continuare ad aiutarli. Invece sono scappato.»
«Steve,
io so cos’è successo e conosco le persone di cui stai parlando molto bene. Se
tu fossi rimasto avresti sofferto e basta e avresti fatto soffrire anche loro.
C’è ancora tanto che puoi fare, anche se decidessi di non rimanere qui per
sempre. Se conosci Vinny allora sai a cosa mi riferisco.»
Soppeso
le sue parole rimanendo in silenzio, lui lo rispetta per svariati secondi prima
di ricominciare a parlare, come per darmi il tempo di assimilare perfettamente
quanto mi ha appena detto:
«Tu
non sei scappato. Non lo hai fatto, credimi.»
Gli
sorrido, decidendo di credere alle sue parole, così simili in tutto e per tutto
a quelle che potrebbero uscire dalla bocca di Vincent. Forse entrambi hanno
ragione, forse posso riuscire a fare qualcosa un giorno. So solo che non voglio
deludere nessuno e farò in modo di mantenere la mia promessa: proteggerò e
vivrò fino alla fine il mio sogno.
***
La
sveglia trilla per parecchio tempo prima che riesca a spegnerla; sento Mark
muoversi nel letto accanto al mio ma non fare altro, io mi alzo pensando che
sto per affrontare il primo giorno di una vita completamente nuova. Quando
scendo dal letto rimango immobile un momento osservando il bozzolo di coperte
dentro il quale è rinchiuso il mio migliore amico, indeciso se proporgli o meno
di unirsi a me per la mattinata. Alla fine, decido di farlo.
«Mark…
Ehi.»
Si
muove appena, mugugnando qualcosa di indecifrabile.
«Mark
andiamo, svegliati.» ci riprovo.
Solleva
la testa, i capelli castani spettinati, gli occhi socchiusi:
«Che
c’è?» domanda, la sua voce è bassa e impastata.
«Vado
a vedere l’alba, vuoi venire?»
Si
passa una mano sugli occhi, voltandosi verso l’orologio:
«Ma
che ore sono?» domanda.
«Le
cinque.»
Pare
pensarci, ma forse non così tanto:
«Sorgerà
anche domani il sole, vero?»
Alzo
le spalle, ma lui non può vederlo:
«Direi
di sì.»
«Allora
vengo domani.»
Detto
ciò torna ad avvolgersi nelle coperte, strappandomi un sorriso; vorrà dire che
andrò da solo.
Prima
di uscire di casa passo dal bagno, mi rado accuratamente il viso, riscoprendolo
totalmente dopo l’ultimo periodo in cui la mia barba, fin troppo folta, lo
aveva nascosto. Mentre mi asciugo la faccia, quasi involontariamente, incontro
i miei occhi nello specchio; noto le sfumature verdi di cui parlava Jocelyn,
che non sono molto intense per via della luce elettrica ma che esistono
veramente. Effettivamente non le avevo mai notate e mi chiedo se ci siano
sempre state, in mezzo al grigio acquoso dei miei occhi, o se siano comparse
solo in un secondo momento, quando ho avuto modo di tornare a credere in
qualcosa.
Esco
dall’appartamento cercando di fare meno rumore possibile, in modo da non disturbare
Mark. Giù, all’inizio del vialetto, trovo una bicicletta rossa parcheggiata e
un biglietto indirizzato a me da parte di Jason, su cui scrive il modo per
arrivare al posto di cui mi parlava ieri, augurandosi che vada tutto per il
meglio. Dopo un lungo sospiro monto il sella e mi avvio; lungo la strada l’aria
mi sferza il viso e la bici corre veloce e silenziosa per le vie, come se
conoscesse esattamente ogni buca e ogni passaggio, come se fosse lei a guidarmi
verso dove devo andare. Una volta raggiunto il punto indicatomi dal ragazzo,
una possente quercia ormai centenaria che si erge maestosa, continuo a piedi,
parcheggiando la bicicletta ai piedi del grande albero e pregandolo di
sorvegliare il mezzo prestatomi. Proseguo salendo sempre più su lungo il colle,
calpestando l’erba tenera che si piega sotto il mio peso, per poi rialzarsi
quando il mio passo si è allontanato. Continuò così, mentre il cielo lentamente
si schiarisce, il blu si dirada e i primi bagliori rosati preannunciano
l’imminente arrivo del sole. Raggiungo il punto più alto della collina di terra
e verde su cui cammino e rimango immobile ad osservare la bellezza che ho
davanti. Mi sembra di avere il mondo sotto di me, di vederlo in tutto il suo
splendore; si estende in ogni direzione, fino all’orizzonte, un orizzonte che
sembra chiamarmi, invitandomi a scavalcarlo per poi iniziare ad inseguirne uno
nuovo. Alle mie spalle rimane l’esatto punto in cui si trova la città, quella
da cui sento di essere scappato, quella che mi sono lasciato dietro, proprio
come adesso. È ad ovest, nell’esatto luogo in cui il sole va a morire; è quando
si avvicina a quella città che esso, ogni giorno, viene ucciso. Ma non ora, ora
lui sta per sorgere e non voglio perdermi questi momenti. Mi siedo sul prato,
accarezzando l’erba fresca di rugiada, decidendo di fare anche un’altra cosa
che mi ero prefissato. “Dentro di te ci
sono tutti gli iris che vuoi” aveva detto Gabriel quel giorno; ora so che
ha ragione e voglio farne sbocciare uno nuovo, voglio ringraziare il mondo per
la nuova possibilità che mi ha dato. Dalla tasca dei jeans estraggo la penna e
il pezzetto di carta che mi sono portato dietro, un lembo non tanto più grande
di quello da cui tutto ha avuto inizio là al Banco dei Sogni. Vi scrivo sopra il mio nome, Steve, caricando le cinque lettere di tutta la profondità, la
speranza e il desiderio che ho dentro di me. Infine adagio il foglio sul prato
e rimango ad osservarlo mentre scompare piano, sostituito da uno stelo su cui sboccia,
nuovamente, il mio iris bianco.
E
anche ora sento un forte senso di quiete rinascermi dentro, un calore
impalpabile che mi riempie totalmente, facendomi sentire in pace con me stesso.
È una sensazione che ho avuto modo di provare solo pochissime volte nell’arco
della mia esistenza, quando ero piccolo e ancora ignoravo tutto il dolore che
avrei patito in futuro e quando ho capito il legame che ci unisce a tutto ciò
che ci circonda, quel legame forte, un misto di magia e follia che nessuno ha
ancora saputo spiegare, ma che esiste veramente e me lo ha appena dimostrato
per la seconda volta.
Ad
est la prima fetta di sole si sta affacciando timida e più rossa che mai,
intorno ad essa il cielo rosato sfuma fino al viola per poi divenire celeste.
Infilo le mani nelle tasche del cappotto, ma con l’indice destro tocco
qualcosa; sorpreso estraggo questo dalla giacca. È un piccolo cartoncino
scritto a mano da una persona a me nota. Le sottili e frettolose lettere
eleganti compongono una frase che i miei occhi scorrono una volta sola, sufficiente
ad assaporarne tutta la dolcezza.
Il mio sogno è amare qualcuno.
Jocelyn
Sorrido,
ripensando alla donna; il suo, sì, che è un bel sogno, forse è per questo
motivo che i suoi occhi sono tanto sorprendenti. Vorrei farle sapere che la
penso, che penso a lei anche ora che sono finalmente libero. La risposta mi
appare in un lampo, mentre il sole continua a sorgere diventando sempre più
lucente. Quando il mio iris è sbocciato io ho sentito la speranza tornare
dentro di me, sento che se il fiore di Jocelyn sbocciasse lei allora potrebbe
sentire l’amore dentro di sé.
Poso
il cartoncino con la sua confessione accanto al mio iris e rimango ad
osservarne la trasformazione. Un sottile e fragile stelo cresce sempre di più,
arrampicandosi e attorcigliandosi sul gambo del mio fiore fino a sbocciare in
un azzurro myosotis , quello che la gente comunemente chiama “non ti scordar di
me”. Per quanto piccolo e fragile, il suo fiore è anche coraggioso e
bellissimo, esattamente come Jocelyn. Mi dispiace non averla qui ora, accanto a
me, mi dispiace averla lasciata ad ovest insieme agli altri, ma ho dovuto
prendere una scelta, per quanto dolorosa, e Jason ha ragione: se fossi rimasto
avremmo sofferto tutti molto di più. Le cose si sistemeranno, un giorno, non
vedo perché non credere che tutto questo sia possibile; ma fino a quel momento
io continuerò imperterrito a proteggere il mio sogno, il sogno che ora sto
vivendo. Perché se punto gli occhi davanti a me, su quel cielo, mi rendo conto
che tutto quello che desideravo da una vita intera sono finalmente riuscito a
trovarlo.
Ebbene,
è finita.
Sono
riuscita a concludere un’altra storia a più capitoli e spero di averlo fatto in
un modo decente.
Non
sono il tipo di persona che chiede agli altri di leggere e recensire assolutamente qualcosa e non lo vorrei
diventare in questa circostanza, tuttavia ammetto che mi piacerebbe sapere il
vostro parere, positivo o negativo che sia, anche brevemente.
Mi
sono impegnata molto per scrivere questa storia, l’ho voluta caricare di un
sacco di sentimenti (frustrazione, rabbia, tristezza, desiderio, speranza,
amore) che ognuno prova sulla propria pelle nell’arco della propria vita. Ho
voluto far diventare Steve una persona riconducibile a tante altre, o almeno ci
ho voluto provare.
Spero
vivamente di essere riuscita a trasmettere qualcosa con questo racconto, spero
di essere riuscita a comunicare ciò che provavo mentre scrivevo, mentre
confrontavo il mondo vero con il mio e con quello di Steve e tutti gli altri.
Un
paio di righe vanno utilizzate per parlare dei titoli e di tutte le frasi che
introducevano i capitoli. Sono tutte canzoni dei Kodaline
(eccetto Gabriel, cover eseguita da
loro). Le ho utilizzate perché questa storia la devo proprio alle loro canzoni.
Ogni brano si sposava a meraviglia con quello che volevo scrivere nel capitolo,
anche se è meglio dire il contrario, ossia che ogni capitolo trovava la
perfetta colonna sonora in una loro canzone.
Ultimo
appunto, per quanto riguarda la scelta dei fiori sbocciati da Steve e Jocelyn.
Nel caso del primo, l’iris bianco, l’ho scelto perché la sua simbologia è
quella della speranza, ciò che Steve cerca di proteggere dal primo all’ultimo
capitolo. La scelta del myosotis per Jocelyn invece è dovuta al fatto che quel
fiore simboleggia l’amore vero e credo non serva aggiungere altro.
Concludo
ringraziando tutti voi che avete letto ancora una volta.
E
ringrazio Federica, Rigmarole, a cui ho dedicato
questa storia, per il suo sostegno, il suo supporto e per aver letto ogni
singolo capitolo convincendomi, infine, a pubblicare questa long.
Alla
prossima ;)
MadAka