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Autore: blackhina    08/06/2014    4 recensioni
Il liceo è finito, ed è ora di andare al college. La vita autonoma sta per cominciare, con nuove scoperte e nuove amicizie; tutto avrà inizio in una nuova casa, con l'inseparabile compagna delle superiori e due nuovi coinquilini. Ma la calma e la tranquillità previste dalla protagonista saranno solo un sogno lontano, dato che il carattere di uno dei due ragazzi le renderà tutto più difficile, o almeno così lei crederà...
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Ehilà! Eccovi il decimo e l’ultimo capitolo! Dopo tanto tempo, per la gioia della Bianca :’), vi ho portato l’ultima tappa della mia prima storia! Ora dato che voglio che voi vi annoiate i ringraziamenti li lascio alla fine. Buona lettura ragazzi! Spero che vi piaccia.
 
Pov Khaled.
La sala operatoria era eccitante. Vedere con i propri occhi uno stomaco e poter osservare una rimozione di una cellula tumorale da esso era decisamente forte. Quelle quattro ore furono le uniche in cui fui del tutto risucchiato dalla ‘lezione’: quella notte tornava in mente, il suo profumo, le sue labbra, la sua pelle.
Quella sera l’avrei portata fuori a cena, in un bel ristorante. Se lo meritava, si meritava tutto il mio sangue e le mie fatiche.
Schivai due infermiere entrambe intente ad avere ragione su quale dei primari fosse più attraente.
- Khaled! Ti stavo cercando. In corsia hanno appena portato un codice blu! Muoviti che se arriviamo primi ce lo prendiamo noi!- un mio compagno di corso mi aveva colto di sorpresa, rischiando di farmi quasi andare a sbattere contro gli scaffali dell’attrezzatura medica.
Codice blu: incidente grave. Fortuna spacciata, per noi.
Correvamo sparati tra le infermiere e le barelle, zigzagando tra vecchietti con la flebo e parenti preoccupati. Il respiro veloce e il petto in turbine.
Arrivammo all’atrio, dove a breve sarebbe giunta la barella con il codice blu.
Sentii un tonfo, i vetri vibrare e una fiumana di paramedici entrare correndo e urlando.
Il lettino. Eccolo, il corpo quasi senza vita. Faceva impressione. Quell’essere umano che si avvicinava a me, circondato da chi tentava di salvargli la vita.
La porta continuava a sbatacchiare, spinta dal vento. Faceva rumore, e a momenti temevo che i vetri si potessero rompere.
Stonck. Stonck. Stonck. Silenzio.
La porta si era fermata. Troppo presto, per essersi bloccata da sola.
Alzai lo sguardo verso l’entrata. C’era una figura sottile, alta. Familiare.
Erin.
Sorrisi, la salutai. Una nuvola in quel momento oscurò la luce che rendeva impossibile vedere chiaro il suo viso.
Oddio. La prima cosa che vidi fu una rigolina argentea sul suo zigomo, che correva veloce, silenziosa.
La sua bocca si mosse, formava parole. Una parola.
- Connie…- un suo sussurro. Mi arrivò il suo sibilo troppo lontano.
La barella gocciolava sangue. Gocciolava sangue.
Mi passò accanto. Il movimento fulmineo della mia testa.
Era lì, distesa, immobile, bloccata da stringhe e pezzi di plastica. Un filo liquido rosso usciva dalla sua bocca.
Nel suo braccio era stata infilata un ago, con un tubicino che le forniva ciò che stava perdendo.
- Ha fratture multiple alle costole e al cranio, un’emorragia celebrale e all’altezza del fegato- da una qualche parte mi arrivarono commenti simili.
Aveva un’emorragia celebrale.
Gocciolava sangue.
Un sibilo scivolò fuori dalla mia bocca.
Non avrebbe dovuto essere lì.
Il mio compagno di corsia mi poggiò una mano sulla spalla.
- Non ci tocca. Hanno detto che è fin troppo urgente per dei sempliciotti. Tsk-  sbuffò, attento a far rumore.
Era urgente. Lo avevano detto i medici.
Fra i mille passi che risuonavano nel corridoio, ne riconobbi uno in particolare. Erano lenti, leggeri.
Mi girai di nuovo, vedendo Erin a pochi passi da me.
- Tu non c’eri… non eri lì per tirarla via…- la voce era rotta, lo scorrere delle lacrime sul suo viso- TU NON ERI Lì!- qualcuno si girò, turbato dalle grida di Erin.
L’avevo tirata via più volte. Ma non quel giorno.
Connie stava morendo.
Non usciva un singolo filo di fiato dalla mia bocca. La stavo lasciando andare via da me.
Sentii urlare il nome alle mie spalle, mi cercavano.
 
[…]
 
Erano passati nove giorni. Connie era in coma, ancora. Le flebo venivano cambiate ogni tre ore, da me, e non c’era attimo che Erin non inumidisse il viso di sua sorella con un panno umido.
Il quarto giorno di Marzo erano una sdraiata accanto all’altra. Erin le teneva la mano, e le raccontava ogni singolo ricordo che le veniva in mente, con la voce spezzata dal pianto.
- Ti ricordi di quella corsa in bici, di quando avevamo quattordici anni? Dio, che tronata battesti. Eri…- deglutì- …eri un turbine di risate, appena ti rialzasti. Io mi presi un colpo. Tu e le tue dannatissime stupidaggini!-
Ti prego Erin basta.
- Poi… poi c’è anche l’episodio delle porte dell’autobus…- strozzò un singhiozzo- te lo ricordi, eh? Il mio piede era inesorabilmente zoppo, e prendemmo l’autobus. La porta si ti si chiuse contro, mentre scendevi- rise, con una sfumatura di pianto.
- Erin! Ti prego, smettila. Non è morta!- le mani che fino a quel momento sorreggevano la mia testa lasciarono un segno rosso. Mi alzai dalla sedia imbottita nell’angolo della stanza.
- Oddio!- trascinò la ‘o’ finale, in un lento e lungo soffocare del suo pianto.
Si alzò, perdendo momentaneamente l’equilibrio. Si diresse verso la porta, aprendola, uscendo, girandosi verso Connie, e richiudendola dietro di sé.
Vidi, attraverso il vetro, Wayne abbracciarla. Piangeva. Piangevano.
Mi avvicinai al lettino di Connie; le presi la mano. Era così fredda.
“ è sempre fredda”. Sorrisi.
- Allora… com’è la flebo? Da fastidio vero? Mi manchi. Dio se mi manchi. Sono nove giorni che non mi parli. Si può sapere perché non ti svegli? Non ce la faccio più a stare solo. Voglio ricominciare a portarti a letto la notte, quando ti addormenti sul davanzale. Merda- le guardai il viso.
Dormiva. Oh si, dormiva beata.
La porta si riaprì. Entrò un tizio alto, dall’aria seria, ma con un faccione buono. Rimasi impalato a fissarlo. Era il Dot. Brough, Dot. Mought, un qualcosa del genere.
- Ha…- deglutii a forza- … ha delle notizie buone? Perché altrimenti non voglio sapere nulla- e non stavo scherzando. Affatto.
- Bene, allora rizzi le orecchie: la tua amichetta ha il 60% possibilità di risvegliarsi. Quindi non crogiolarti e cambiale la flebo, dato che lo sai fare- mi guardò con un fare scherzoso. Sorrisi appena.
Poteva risvegliarsi di nuovo. L’avrei riavuta per me.
Il dottore uscì, e a ruota entrarono Wayne e Erin.
- Cosa ha detto?-
Esitai.
- Khaled… apri quella cazzo di bocca e dimmi le sue fottute parole- era arrabbiata.
Sorrisi, alzando lo sguardo verso di loro.
- Connie ha più del 50% di probabilità di rimettersi in piedi- la mia voce era bassa, come se fosse tutto un grande dubbio. Il Grande Dubbio.
Erin rimase immobile, con la mano di Wayne poggiata sulla spalla.
- Ha detto cosa?- tremava.
- Ha detto che Connie…-
- LO SO COSA DIAVOLO HA DETTO!- aveva il viso rosso.
- E ALLORA COSA CAZZO ME LO CHIEDI?-
- IO… io…- si bloccò per un attimo, poi mi urlò come un bue, in faccia.
- Okay, okay… ora calmati Erin. Altrimenti vengono a sedarti. E non sto scherzando, lo hanno già fatto in passato e non credo si possano trattenere per una seconda volta- Wayne la abbracciò da dietro, stringendole le braccia intorno al ventre.
Ci fu una serie di frequenze cardiache veloci. Catturò la nostra attenzione, facendo calare sui nostri volti un velo di silenzio.
Andava veloce, troppo veloce.
Cominciò ad agitarsi, il suo corpo si contorceva e i suoi arti scattavano come serrature appena oliate.
Connie aveva le convulsioni.
- Chiama il medico, chiama il medico! Chiamalo!!- Erin era agitata, le gambe le cedevano.
Corsi al pulsante rosso vivo al fianco del letto. Ci scaraventai tutta la forza che le mie braccia riuscivano a darmi in quel momento. Un campanello dal suono stridulo diffuse velocemente il suo acuto pizzicante per tutta la stanza, poi nel corridoio.
Arrivò velocemente il medico di Connie. Aveva lo sguardo freddo.
I suoi movimenti erano veloci e sicuri, al contrario di quello che poteva dare a crede il suo aspetto. 
Afferrò qualche boccetta di liquido trasparente dal carrellino metallico che l’infermiera gli aveva portato, tirò fuori una siringa e iniettò il contenuto nella flebo.
I movimenti non si fermavano, continuava a stirarsi e ritirarsi nel letto.
Il dottore acchiappò un’altra boccetta, stavolta con un liquido giallognolo: lo svuotò completamente nella flebo, mentre l’infermiera tirava indietro la testa, appiattendo la sua lingua.
Gli scatti si placarono lentamente: le gambe si distesero, le braccia si abbandonarono dapprima lungo il corpo, poi fuori dal lettino, ciondolando. L’infermiera vestita col camice a fiori le rimise accanto ai fianchi.
- La sua condizione ora è stabile. Questo attacco è dovuto alla stabilizzazione dei suoi organi. Solitamente nei pazienti che hanno subito un grave trauma, avvengono reazioni simili alle convulsioni: in questo caso si sono presentate esse stesse. Dovete stare tranquilli, okay?- la voce del dottore di Connie aveva assunto un tono dolce e tranquillo. Il suo sguardo era tornato calmo.
Ci guardò qualche secondo.
- Se accade un’altra volta rimanete tranquilli. Chiamatemi e rimanete tranquilli. Non temete- ci sorrise.
Annuimmo.
Mi girai verso Connie.
Dio, era così bella. Aveva le occhiaie, anche se erano ciò di meno evidente di tutto l’insieme: aveva tagli e abrasioni su tutto il viso. Le sue braccia e le sue gambe, coperte dal lenzuolo bianco, erano anch’esse ricoperte di croste.
Mi avvicinai. Le sfiorai le mani: erano fresche, come lo erano il giorno in cui riuscii a renderla un po’ più mia.
Le accarezzai la fronte, scostandole i capelli dal viso.
Erin si avvicinò lentamente e si risedette sulla sedia imbottita.
- Tu… prima o poi mi manderai al manicomio. Anche da… così, mi fai impazzire- sorrise- sai, mi hanno detto che tu mi puoi sentire. Io voglio credere che sia così, perché ho bisogno di sentire le tue chiacchiere. Oddio… mi manchi tanto- sospirò.
Wayne si accomodò sul tavolino nell’angolo.
Volevo che si svegliasse, volevo che sapesse che cosa era per me.
C’era la probabilità di non vedere più i suoi occhi, ed io non potevo fare nulla.
 
[…]
 
Altri tre giorni. Erano passati altri tre giorni. Dodici giorni sprofondata in un sonno impossibile da spezzare artificialmente.
L’unico dialogo che si poteva definire tale era stata la decisione su quale tramezzino prendere dal paninare dell’ospedale. E neanche era andata a finire bene. Il tonno era finito e mi era toccato il salame.
Erin ormai era diventata parte integrante della poltrona blu imbottita, e le sue mani erano impegnate a creare piccoli cerci sul palmo delle mani di Connie.
-Ti ha mai raccontato del regalo che mi fece in prima liceo?- la voce le uscì leggera, quasi inesistente.
- Non mi parlava molto spesso dei regali…-
- Quello fu un regalo speciale… lei mi diede un libro. Me lo portò la mattina del penultimo giorno di scuola. Il prezzo in fondo era coperto da un pezzettino di carta. C’era scritto ‘Tu non puoi guardare’ e un disegnino di Gandalf del Signore degli Anelli. Risi molto per quel cosino. Poi un giorno cascò. Si staccò e mi cadde sul tavolo. Guardai il prezzo, ma era oscurato dal pennarello. Acchiappai il pezzettino dove c’era il disegnino e lo girai: sul retro c’era scritto ‘tanto non si vede lo stesso!’. C’era anche una faccina sorridente- sorrideva, guardando le mani che ora teneva in grembo.
- Dio… era, è sempre stata così… così diversa?- mi si strozzò la voce- insomma, lei ha sempre fatto cose così starne e uniche?-
- Già. Mi sorprendeva. Ogni singola volta imparavo un qualcosa di strano- si sfiorò le labbra con il pollice- le veniva naturale lottare con tutta la determinazione che riusciva a trovarsi in corpo. Ha imparato ad essere forte col tempo. Ad ogni sfida sguainava la spada e falciava chiunque le impedisse di andare avanti. Certe volte, però, è rimasta ferita. Perché non era invulnerabile, non era indistruttibile. Non lo è neanche adesso. E questo Alan lo sapeva- il suo volto si oscurò.
- Chi è Alan?- un impulso irrefrenabile, un desiderio malvagio si stava arrampicando dentro di me.
Erin alzò la testa e mi fissò: i suoi occhi si erano coperti di un velo di dolore.
- Era…- deglutì- é un ragazzo di venticinque anni, ormai, ma all’epoca ne aveva ancora venti. Lui… lui… Dio è così difficile. Lui tentò di stuprare Connie- l’ultima frase la sputò con acidità e disprezzo. Boccheggiò per qualche istante.
- Tentò?-
- Riuscimmo a bloccarlo in tempo. Connie aveva temporeggiato. Aveva lottato finché non arrivammo noi. Per questo è diffidente verso i ragazzi-
Nella mia mente calò un macigno di sconforto, schiacciando quel sentimento che aveva ribollito fino a quel momento. Era stata quasi violentata ed io le avevo fatto del male. L’avevo delusa.
- Avevo promesso di proteggerla da chiunque, e invece ora è in coma…- la sua voce era un misto fra il dolore e la rabbia che teneva segregati dentro.
Si alzò di scatto, svegliando Wayne che fino a quel momento stava dormendo- ODDIO! MIA SORELLA È IN COMA! CAZZO! È IN COMA!- la sua voce era spezzata, le lacrime scorrevano impetuose sulle sue guance. Si portò le mani al viso.
- Erin! Erin, amore mio. Guardami- Wayne le prese la testa fra le mani delicatamente, infilando le sue dita nei capelli- Connie è forte, lo è sempre stata, ricordi?- Erin annuì- ricordi le sue battute? Le sue minacce rivolte contro i coglioni rompi scatole del campus, le sue manate a destra e a manca, la sua determinazione? Ti ricordi di com’è tua sorella?-
Erin abbassò lentamente le mani, fino a farle cadere lungo i fianchi. Crollò tra le braccia di Wayne, che la strinse a sé, coprendole il viso col petto.
- Usciamo. Andiamo a prendere una boccata d’aria, ti farà bene- si sorrisero. Erin aveva il viso sconvolto, ma anche lei era forte. Lo era senza rendersene conto. Lo era per sua sorella.
 
[…]
 
Dall’ultima volta che avevo sentito la sua voce, erano passati sedici giorni. Se fossimo arrivati a tre settimane avremmo dovuto chiamare i suoi. Avremmo dovuto chiamare i suoi per dirgli che la loro figlia era a metà tra la vita e la morte.
Il senso di colpa non si era attenuato, ma avevo trovato un modo per nasconderlo.
Quella notte avevo dormito con la testa appoggiata tra il braccio e il fianco di Connie. Erin era tornata a casa, sarebbe tornata in ospedale la mattina dopo.
Mi svegliai con il profumo di salsedine nella testa. Aprii gli occhi e alzai lo sguardo alla mia destra: Connie aveva la testa girata di lato, verso di me. Mi alzai lentamente e le accarezzai il viso.
- Ti amo. Connie io ti amo. Sei l’unico essere vivente che mi abbia tenuto testa. L’unica ragazza talmente pazza da essere  bella grazie alla sua follia. Ti voglio con me, nonostante tutto il male che ti ho fatto, non voglio rinunciare al tuo sorriso e alle tue battutine. Ti amo e ho lasciato che un bastardo ti mettesse sotto- sprofondai nuovamente tra il suo profumo- ti amo e non lo sai. Dormivi quando te l’ho detto, come stai facendo ora. Ma sono innamorato di te e voglio che tu lo sappia- sentivo lacrime fredde solcare i miei zigomi.
- Lo sapevo da tempo- un sussurro.
Calò il silenzio. I miei occhi erano chiusi, nel buio tra gli arti del suo corpo.
Il mio respiro s’infiltrava tra le pieghe del lenzuolo, e il suo calore ritornava verso di me, s’infrangeva sul mio viso. Sentivo la pelle tirare leggermente.
I muscoli del mio collo si tesero, pronti a sollevare la testa.
Mi tirai su lentamente, tenendo gli occhi chiusi, la testa dritta.
Sentivo la macchina, alla quale erano collegati gli elettrodi che raggiungevano il suo petto, segnare un ritmo calmo, normale.
I miei occhi non avevano intenzione di aprirsi. Avevo paura che non fosse lei, che fosse un altro dannato sogno.
Le lenzuola si mossero, facendo scivolare nell’aria della stanza un fruscio leggero.
Aprii gli occhi lentamente.
Vedevo appannato, ma quella sensazione durò solo qualche secondo.
- Guarda che sono qui…-
Di nuovo. La sua voce.
Di nuovo.
Le lacrime corsero lungo il collo.
Girai la testa.
- Connie…-
- Ti amo, scricciolo- sorrideva, un occhio chiuso, l’altro assonnato.
Le presi la testa fra le mani, creando semicerchi con i pollici. Le dita affondate nei capelli castani.
Una bomba di calore esplose nelle mie labbra, si espanse in ogni angolo del viso. Le sue mani avvolsero il mio collo, accarezzandolo e solleticandolo leggermente con le unghie.
Aumentai la pressione, le catturai le labbra, ogni anfratto della sua bocca percorso dalla mia lingua.
La stretta delle sue mani aumentò, il suo corpo si contrasse lentamente, scosso dalla malizia.
La nostre lingue intrecciate.
- Dio, quanto ti amo-
- Scricciola indistruttibilmente sexy- ridevamo, immersi nelle lacrime.
- Scricciolo dannatamente puntuale da essere all’ospedale proprio quando vengo investita- la sua voce si spezzò.
- Erin mi odia. Mi detesta per non averti tirato via una seconda volta dalla strada. Ed io concordo pienamente- sorrisi tristemente.
- Non è stata colpa tua- gemette, tenendosi il fianco destro- tu eri a fare ciò che dovevi fare. E sono viva, sono qui. Quindi vedi di piantarla e sorridi, altrimenti ti cucio la bocca a sorriso- rideva di gusto, come se il suo incidente fosse sotterrato dal tempo. Il suo tono tuttavia era affaticato, e ciò non lo riusciva a nascondere.
- Cosa fai scusa? Era una minaccia?-
- Ti sguinzaglio Erin. E non sarà vita facile. È peggio di Terminator- il suo sguardo si fece minaccioso.
La maniglia della porta scattò, e lasciò entrare il ‘Terminator’.
Altro silenzio. Lo sguardo di Erin fisso su sua sorella, il volto scosso da un tremito.
- Oddio…- si girò e riuscì.
Wayne rimase per qualche istante immobile, fissando Connie, col sorriso stampato sul viso.
- È fatta così, lei…- fu interrotto dal nuovo rientro di Erin. Era di corsa. Poteva decollare da un momento all’altro.
- CONNIE! DIO, SEI SVEGLIA!- si catapultò sul lettino, circondando Connie in un abbraccio.
Io volai giù dalla sedia. Mi sfuggì un rantolo d’aiuto, naturalmente pestato e ignorato dalle urla di Erin.
- La mia sorellina…- Erin piangeva.
- Sorellona vorrai dire. Sono nata qualche ora prima di te- ridacchiava, con un’aria da prepotente.
- Vaffanculo. Tu e le tue battutine di merda, tu e il tuo vizio di farti investire, tu e la tua mania di farmi preoccupare! Io… io…-
- …Mi vuoi bene-
- Ti voglio bene. Te ne voglio anche troppo- si staccò, e incrociò le braccia- Wayne hai intenzione di rimanere lì a vita e diventare un pezzo d’ornamento d’ospedale, o venire ad abbracciare mia sorella?-
Wayne si avvicinò, la strinse forte nelle braccia, tanto che temevo di che potesse essere fatta fuori.
Io nel fra mentre assaporavo col mio didietro il pavimento glaciale della stanza d’ospedale.
- Connie… mi sei mancata così tanto…- la sua voce profonda rimaneva intrappolata tra il pigiama e i capelli della scricciola, e le sue risatine erano allegre.
- Su, su! Largo, che qui deve intervenire la sorella!- sentii arrivare qualcun altro sul suolo: Wayne era stato liquidato più velocemente di un venditore porta a porta.
- Stesso destino, fratello- sospirò.
- Ragazzi, emergete dall’escursione e venite ad abbracciarmi. Voglio sentire di nuovo i vostri profumi mescolati-la voce di Connie era soave, delicata, e tendeva al sussurro.
Ci alzammo e circondammo entrambe le ragazze in una stretta unita e indissolubile.
Il nostro gruppo esisteva ancora, eravamo uniti, stretti come le radici al suolo.
Connie era viva, respirava, parlava, sorrideva. Ed io mi perdevo ogni minuto di più nel suo sorriso.
 
[…]
 
Pov. Connie
 
Quando mi risvegliai Khaled era piegato sul mio lettino, con la testa fra il mio braccio e il mio fianco. I suoi capelli mi solleticavano la pelle.
Ero convinta che quello fu il miglior risveglio della mia vita.
Ma ce ne furono molti altri, uno più bello dell’altro. Alcune mattine mi portavano la colazione da casa, come pancake o muffin ai mirtilli, altre mi portavano tre o quattro libri da leggere dalla mia libreria.
Di solito Khaled dormiva sul divanetto sotto la finestra, anche se secondo me era scomodo quanto dormire su materasso di biglie. La mattina lo chiamavo sul letto:  volevo che dormisse almeno qualche altra ora su un qualcosa di morbido.
Non era così male dopotutto.
 
Nei giorni seguenti rimanemmo all’ospedale per i controlli e per la riabilitazione: avevo perso un po’ di memoria, ma il dottore ci disse che era solo una cosa temporanea.
Arrivavano ogni giorno gruppetti di amici, con fiori, cioccolatini, libri (stavo come un pascià), e pian piano la memoria e i ricordi riaffioravano.
Dopo tre giorni dal mio risveglio ebbi alcuni improvvisi abbassamenti di pressione, dopo il quale decisi di finire con le pappine e gli omogenizzati.
Ero convinta fosse colpa loro. E in effetti, dopo aver smesso con la ‘Pappino-dieta’, gli attacchi cessarono.
Esclusi gli esercizi per rimediare alla frattura della gamba e delle costole, stavo bene: le ferite sul viso e sul resto del corpo stavano guarendo, alcune erano già sparite, quelle più profonde invece avrebbero lasciato il segno. Ne avevo una lungo la tempia destra, che correva fino alla guancia. Erin diceva che faceva effetto, e dopotutto le davo ragione.
Ogni lastra che facevo dava risultati migliori, le ossa stavano tornando ad essere intere e forti.
Stavo guarendo, e lo stavo facendo con le risate dei miei amici accanto.
 
Tornai a casa due settimane dopo il risveglio e al college tre. Avevo perso mezzo semestre, quindi decisi di recuperarlo d’estate. Ma intanto mi godevo il ritorno a casa.
Il dottore aveva detto che potevo andare in bicicletta, ma non guidare. Quindi il primo sabato a casa, io ed Erin decidemmo di andare a fare una girata in bici, come ai vecchi tempi del liceo.
Andammo al parco.
- Ti ricordi quando caddi dalla bici? Eravamo insieme e tu ti prendesti un colpo- cominciai a ridere- ero volata per terra, e una macchina mi fece un pelo. Quando alzai lo sguardo avevi il volto terrorizzato-
- Facesti la stronza. Eri quasi finita sotto un furgoncino e te la ridevi prendendo in giro la mia faccia- cominciò a ridere anche lei, sputacchiando parolacce.
- Così imparavi a farmi impazzire!-
- Io? Io ti facevo impazzire?-
- No guarda! L’eschimese in vacanza in Lapponia! E chi sennò?-
- È un modo di dire!-
- Si si, certo… dicono tutti così- canzonarla era il mio hobby preferito.
- Ma proprio te dovevano appiopparmi?-ora stava soffocando dal ridere. La vedevo rimbalzare sulle buche.
- Grazie!-
Mi arrivò un messaggio. Mi fermai e tirai fuori il cellulare. Era di Khaled:
Aroha ana ahau ki a koutou, Scricciola.
(Ti amo in lingua maori)
Sorrisi.
Quel pomeriggio fu divertente, mangiammo anche un hamburger dal Mc Donald’s vicino.
Era da tempo che aspettavo di tornare a casa, mangiare con mia sorella, ridere ricordandosi delle avventure passate.
Ora ero a casa, con una sorella, un migliore amico, e un ragazzo, uno più pazzo dell’altro.
Non desideravo altro, poiché quella era la vita che mi aspettava per i prossimi anni, quella era la vita migliore che potessi desiderare.
 
 
Ragazzi, questo è l’ultimo capitolo… oddio! Sembra ieri che ho iniziato questa storia. Insomma ho scritto dieci capitoli (non che sia Guerra e Pace, ma comunque sono abbastanza fiera) e ora che sono finiti mi sento un po’ vuota. Non so se scriverò a breve un’altra storia, anche perché è iniziata l’estate.
Ma veniamo al dunque: come da copione qui ci servono i ringraziamenti.
Prima di tutto devo riconoscere un particolare merito alla mia piccola Bia, che mi ha spronato, o meglio minacciato, per andare avanti. Sei davvero incredibile, per ogni cosa: sei un’amica fantastica, una scrittrice piena di risorse e una lettrice ossessionata quanto me. Probabilmente se tu non ci fossi stata non avrei finito o addirittura iniziato questa storia. Ti sono davvero grata. E ti voglio un bene dell’anima.
Poi devo ringraziare le ragazze che mi hanno recensito, incoraggiato e aiutato: Mydreamofthestory, Chiara, Bellaswan_1999, Ida, Silvia_3 e infine Ely_lely. Grazie di tutto ragazze, e speriamo a presto con una nuova storia! Siete state davvero un aiuto importante.
Infine, un ringraziamento speciale ad Erin, che nella vita reale si chiama Margherita. Lei è la mia sorella, lei è la mia migliore amica, lei è quella ragazza che ad ogni caduta mi aiuta a tirarmi su. Senza di te, topina, non credo che ce l’avrei fatta a superare ‘sto anno.
Tu sei importante come il giorno lo è per la notte, come la luce lo è per il buio. Ti ringrazio per essere la mia punta di luce, la mia scintilla. Ti amo come una ragazza può amare una sorella.
 
Beh, non mi resta che dire ciao e alla prossima. Grazie ragazzi, di tutto.
La vostra Tex
  
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