Questa storia non è dedicata a qualcuno, è un regalo di compleanno per qualcuno. Ire, con un giorno di ritardo te lo dico come avrei voluto fare ieri: buon compleanno!
Disclaimer: con questa storia non voglio insinuare nulla sulla vita privata dei personaggi reali di cui parlo; non li conosco, non li possiedo e le mie parole non rispecchiano in nessun modo la realtà.
Bulletproof
“ I passeggeri del volo 8783 per Londra sono pregati di
recarsi al gate 15. L’imbarco chiuderà tra dieci minuti “
La voce metallica gracchiò l’annuncio in italiano e subito
dopo lo ripeté in inglese, sovrastando il mix di suoni tipici di un aeroporto: voci
che si rincorrevano, rotelle di bagagli a mano che scivolavano sul pavimento
liscio, il rumore di tazze e piattini proveniente da un bar poco lontano.
Myles gemette e nascose maggiormente il volto sulla spalla
di Mark, che serrò la presa con la quale, da ormai cinque minuti, lo teneva
stretto a sé, quasi sperando che se avesse continuato ad abbracciarlo il volo
per Londra sarebbe magicamente scomparso e Myles non si sarebbe mosso di un
millimetro, figuriamoci di migliaia di chilometri.
Con uno sforzo disumano il cantante si allontanò leggermente
e si voltò verso il gate alle proprie spalle, dove le ultime famiglie di
vacanzieri si affollavano ansiosamente in attesa di salire a bordo.
<< È ora >> mormorò, tornando a guardare
Mark.
<< È ora >> ripeté questi, meravigliandosi di
come, nonostante ormai ci fosse abituato, si ritrovasse con un groppo in gola
ogni volta entrava in aeroporto con Myles sapendo che ne sarebbe uscito da
solo. Erano nel bel mezzo del tour estivo in Europa; avevano deciso di approfittare
di alcuni giorni liberi tra il concerto di Bologna, appena terminato, e quello
successivo a Solvesborg, per riposarsi a Copenhagen. Myles, però, sarebbe dovuto
volare a Londra per lo show di presentazione del nuovo album con Slash alla
House of Parliament e per le interviste di rito, e dunque avrebbe raggiunto il
resto della band a Copenhagen solo due giorni dopo.
Myles annuì. Le braccia di Mark erano ancora attorno alla
sua vita.
<< Sono giusto un paio di giorni >> aggiunse,
quasi come se quell’affermazione potesse lenire il dispiacere di entrambi
all’idea di sciogliere l’abbraccio che li legava.
<< Già >> Mark distolse lo sguardo.
<< Mark? >> lo chiamò Myles, stringendolo
maggiormente. Non ottenendo risposta, lo costrinse a guardarlo negli occhi.
<< Cosa succede? >>
<< Niente, tranquillo >> disse velocemente il
chitarrista. << Devi andare >>
<< No, dimmi cos’hai >> insistette Myles.
Mark non rispose.
<< Per favore >> provò ancora il cantante.
Tru sospirò. << È che… >> guardò gli occhi
azzurri di Myles, poi distolse lo sguardo, si passò una mano tra i capelli e
tornò a guardare il proprio ragazzo. << Tutto questo… Come compagno di band e come amico non ho nessun problema,
ma come fidanzato sto cominciando a stancarmi >> confessò, sentendosi un egoista
nello stesso momento in cui le parole uscivano dalla sua bocca. Non avrebbe
dovuto dirglielo.
Myles rimase immobile per un attimo, accusando il colpo. Un “ah” stupito fu tutto ciò che riuscì a
mormorare. Si allontanò leggermente, sciogliendo la presa che aveva sulle
spalle di Tru. Rimase in silenzio, senza sapere cosa dire.
“ I passeggeri del volo 8783 per Londra sono pregati di
recarsi al gate 15. L’imbarco chiuderà tra cinque minuti “
<< È meglio se vai, stai per perdere l’aereo >>
fu la voce di Tru a riscuoterlo. Nel suo tono non c’era rabbia, né
risentimento.
Myles annuì. Si avvicinarono simultaneamente per scambiarsi
un bacio; Myles sentì gli occhi inumidirsi nel percepire le mani di Mark che
gli circondavano il viso. Serrò le palpebre.
<< Ci vediamo a Copenhagen, allora >> disse,
quando si separarono.
<< Va bene >> annuì Tru. << Ti amo
>> aggiunse poi.
<< Anche io >>
Myles appoggiò la testa al vetro e si chiese se fosse
antiproiettile. Considerando che si trattava di una delle finestre del
Parlamento inglese supponeva fosse così. Vi passò una mano sopra, stupendosi di
come al tatto e alla vista sembrasse esattamente uguale a qualsiasi altra
finestra del mondo. E se la ditta che le monta avesse commesso un errore e
avesse utilizzato un vetro normale al posto di un vetro antiproiettile? Nel
caso in cui ci fosse un attentato e qualcuno riuscisse a sparare un proiettile
proprio attraverso quella finestra, la ditta verrebbe considerata colpevole? E verrebbe
punita? Sospirando pose fine a quei pensieri senza capo né coda e si concentrò
sulla vista mozzafiato. Il Tamigi scintillava sotto il sole e gli edifici si
ergevano solidi sulla sua riva, rappresentando perfettamente l’architettura
stonante di Londra, che accostava antichi palazzi vittoriani a moderni
grattaceli di vetro.
Myles amava Londra. Ci era stato per la prima volta una
decina di anni prima, durante il primo tour degli Alter Bridge; Mark, che
grazie ai tour con i Creed la conosceva già abbastanza bene, lo aveva
accompagnato alla scoperta della città, sorbendosi pure un’eterna tappa al
negozio della Twinings che aveva visto Myles comprare così tante varietà di tè
che al momento di partire, per far stare tutto nel bagaglio aveva dovuto
togliere le bustine dalle scatole e infilarle sparse in giro per la valigia. Da
quel momento in poi aveva approfittato di ogni concerto nella capitale inglese
per esplorarla il più possibile e si era innamorato delle sue sorprese dietro
l’angolo, dei suoi parchi immensi, della sua confusione, dei suoi mercatini
strampalati e dei biscottini inglesi che Mark adorava.
In quel momento, però, guardando verso la folla di omini che
attraversava il Westminster Bridge scattando foto al Big Ben, si sentiva
estremamente infelice. E non solo perché Mark non era con lui, ma anche perché
la distanza che sentiva tra loro in quel momento era qualcosa che non si poteva
motivare semplicemente con i chilometri che li dividevano.
Da quando si erano salutati in aeroporto i messaggi tra loro
si erano limitati al minimo indispensabile; non c’era freddezza, piuttosto
confusione e dubbi su come affrontare le conseguenze inevitabili delle parole
pronunciate da Mark appena il giorno prima. Quando, arrivato in albergo, aveva
deciso di riposarsi un po’ prima di incontrare Slash, Myles si era ritrovato a
letto ad abbracciare il cuscino e a notare quanto fosse scomodo rispetto all’abbracciare
Tru e al riposare sul suo petto. Aveva finito per trascorrere le ore successive
a chiedersi se e dove avesse sbagliato. Mark era sempre stato favorevole al suo
progetto con Slash. Certo, aveva mostrato dispiacere all’idea di non poterlo
avere sempre accanto, ma l’aveva spronato a cogliere quell’opportunità e
l’aveva supportato in ogni sua scelta. E ora Myles si ritrovava improvvisamente
a chiedersi se la serenità di Mark fosse sempre stata solo una maschera e se
sotto sotto avesse solo finto di accettare tutto ciò.
Non voleva interrompere la propria collaborazione con Slash,
ci teneva molto e sapeva bene che un gesto simile non avrebbe fatto altro che
accumulare rancore tra lui e Mark e li avrebbe sicuramente portati a
rinfacciarsi ogni rinuncia. D’altra parte non voleva far soffrire Mark. Myles
era sempre stato convinto di aver gestito tutto con equilibrio, senza
trascurare nessuno; ora si ritrovava a scoprire di aver trascurato proprio la
persona più importante.
<< Stai bene? >>
Il cantante si voltò improvvisamente verso Slash, che lo
guardava a qualche metro di distanza.
Annuì. << Sì, sto bene >>
Il chitarrista sembrò intendere che ciò non fosse proprio la
verità, ma evitò di fare domande; tra loro era sempre stato così, l’uno non
forzava l’altro a parlare e l’altro si sfogava quando si sentiva pronto.
<< Hanno finito di controllare gli strumenti, possiamo
andare a fare il soundcheck >> lo avvisò, cambiando argomento. Visto il
luogo in cui stavano per suonare, l’attrezzatura aveva dovuto essere
controllata dagli addetti alla sicurezza e questo aveva ritardato l’inizio
delle loro prove.
<< Va bene, arrivo >> Myles si affrettò a
raggiungerlo e a seguirlo nella sala in cui si sarebbe tenuto il concerto;
suonando sperava di riuscire a distrarsi almeno un po’ dai pensieri che lo
stavano divorando.
Myles chiuse la porta e vi si appoggiò contro. Il sole era
ormai tramontato e la poca luce rimasta illuminava appena la camera d’hotel,
rendendola immensamente triste, più di quanto già facesse la piccola valigia
solitaria appoggiata a lato del letto e aperta dal proprietario giusto per
cambiarsi velocemente prima di uscire per l’impegno successivo.
Il suo volo per Copenhagen sarebbe partito alle quattro di
mattina. Era stato sul punto di prenotare il volo delle nove e venti previsto
per quella sera, ma non sapendo a che ora sarebbe terminato il suo ultimo
impegno, un’intervista con annesso servizio fotografico, aveva deciso di non
rischiare. In quel momento, però, in una stanza fredda in cui ogni oggetto e
ogni centimetro di moquette sembrava estraneo, se ne pentiva.
Guardò la valigia, ancora pressoché intatta, poi controllò
l’ora. Le sette e venti. Aveva due ore per correre in aeroporto. E per comprare
una cosa piccola ma importante.
Quando Myles giunse al quarto piano del Luxor Hotel di
Copenhagen era l’una e mezza di notte. Si diresse fino alla camera che era
stata prenotata per lui e Mark e che, al momento, ospitava solo il chitarrista.
Si fermò davanti alla porta di legno massiccio con un 423 indicato sopra e
strisciò la tessera magnetica. La porta si aprì con uno scatto silenzioso.
Myles entrò e si chiuse la porta alle spalle. Dovette
rimanere fermo per qualche secondo prima di abituarsi al buio della stanza.
Quando fu in grado di vedere discretamente, sorrise nel notare il disordine che
tra vestiti sparsi e chitarre Mark era riuscito a creare nel giro di due
giorni. Il suo sorriso si allargò ulteriormente quando il suo sguardo si posò
sulla figura addormentata sul lato destro del letto. Posò la valigia a terra,
la aprì facendo attenzione a non far rumore e velocemente si cambiò e indossò
un paio di pantaloni della tuta e una t-shirt grigia. Si avvicinò al letto e si
infilò sotto alle coperte, avvicinandosi a Mark. Il chitarrista sembrò
accorgersi del materasso che si piegava, poiché dopo qualche secondo aprì gli
occhi. Sbatté le palpebre più volte, prima di parlare.
<< Myles? Che ci fai qui? >> mormorò, la voce
ancora impastata dal sonno che contrastava con lo sguardo immediatamente
sveglio e sorpreso nel trovare il fidanzato al proprio fianco. << Non
dovevi arrivare alle sei? >>
<< Ho preso il volo prima >> rispose il cantante con un sorriso,
avvicinandosi e infilandosi tra le braccia di Tru, che lo accolse
immediatamente stringendolo forte a sé.
<< Sei qui >> sussurrò al suo orecchio, come se
dovesse ancora realizzarlo appieno.
<< Sono qui >> annuì Myles, con una risata.
Mark sorrise e gli lasciò una traccia di piccoli baci
dall’orecchio sino alle labbra, gustandole più e più volte. Poi si sistemò
meglio e lo strinse per bene, con l’intenzione di tenerlo stretto a sé per
tutta la notte e per tutto il tempo che avevano la possibilità di passare
assieme.
Copenhagen aveva un carattere molto diverso da quello di
Londra. I tipici edifici si susseguivano uno dopo l’altro, simili
nell’architettura ma dipinti ognuno di un colore diverso, e si specchiavano nell’acqua
dei canali. I ciclisti locali si muovevano agili tra i capannelli di turisti.
Myles distolse lo sguardo dal panorama fuori dalla finestra quando
Mark si avvicinò a lui. Si guardarono in silenzio per qualche secondo, prima
che Tru prendesse la parola.
<< Mi dispiace per ciò che ho detto prima che partissi
>> disse, prendendo la mano di Myles e giocherellandoci.
<< Non devi scusarti, se è ciò che pensi dobbiamo
parlarne >> rispose questi, il cuore in gola. Sì, ne dovevano parlare, ma
aveva una paura tremenda di farlo.
<< Non è ciò che penso, o meglio, lo è, ma… >>
Tru si passò una mano fra i capelli, insicuro su come continuare. Avrebbe
voluto parlare stringendo Myles tra le proprie braccia per avere la certezza
che non sarebbe fuggito da nessuna parte, però era conscio che farlo l’avrebbe
portato a non essere del tutto sincero e a concludere la questione prima del
dovuto solo per potersi godere qualche momento in compagnia del proprio
ragazzo. Per questo motivo si appoggiò alla parete e si limitò a stringere la
mano di Myles nella sua. Poi riprese. << Io sono felice della tua
collaborazione con Slash. Davvero, non lo dico tanto per dire. Sono felice e
orgoglioso del successo che state avendo, che stai avendo, ti conosco e so quanto te lo meriti. Sarebbe
incoerente da parte mia chiederti di rinunciare a tutto ciò, considerando che
anche io, Brian e Flip abbiamo progetti paralleli. È solo che… A volte è
difficile avere sempre le ore contate, sapere che mentre ti sto abbracciando il
tempo scorre e nel giro di qualche ora sarai a migliaia di chilometri da me, a
fare qualcosa che ti rende felice ma anche troppo lontano. Io vorrei poterti
ripetere in ogni momento quanto ti amo, vorrei poterti abbracciare e baciare in
ogni istante, vorrei averti sempre al mio fianco e vederti correre da un lato
all’altro del pianeta appena hai un momento libero… in certi momenti fa male.
Però non possiamo farci niente, è normale che sia così e non avrei dovuto dirti
quello che ti ho detto, ti ho fatto star male per niente >>
Myles ascoltò le parole di Mark in silenzio, con lo sguardo
basso. Quando il chitarrista smise di parlare rimase in silenzio ancora per
qualche secondo.
<< Mi dispiace >> disse poi. << Non ho mai
voluto farti soffrire. Cosa posso fare? >>
<< No, no, Myles, tu non devi fare niente >>
Mark questa volta si lasciò andare e lo fece avvicinare a sé per abbracciarlo,
temendo di essere stato frainteso. << Io non ti sto chiedendo di rinunciare
a niente né di fare niente. Non c’è nulla che si possa fare e tu non mi hai
fatto niente di male. Sono solo pazzamente innamorato di te e quando non ti ho
con me mi manchi, tutto qui. Non voglio che tu ti senta in colpa per il tuo
lavoro con Slash e non voglio che tu ti senta obbligato a non parlarne di
fronte a me o comunque a tenermi lontano dalla questione perché pensi che mi
dia fastidio. Hai capito? >>
Myles annuì.
<< Anche per me è difficile starti lontano >>
mormorò, dopo qualche secondo.
<< Lo so >>
<< E se… se ogni tanto venissi con me? Quando non hai
da fare, voglio dire. E io potrei venire con te quando sei in giro con i Creed
o con il tuo progetto, se… se ti va >> propose il cantante.
Mark rimase in silenzio. In effetti era così semplice.
<< Come abbiamo fatto a non pensarci fino ad ora?
>> mormorò, guardando negli occhi Myles, che scoppiò a ridere, sentendo
la tensione scomparire. Mark si unì alla risata. Appena si calmarono Tru passò
le mani sulle cosce di Myles e lo sollevò. Il cantante si strinse
immediatamente a lui e lo guardò.
<< Abbiamo risolto, allora? >> chiese, di nuovo
serio.
<< Sì, abbiamo risolto. Verrai in tour con me ogni
volta che puoi? >>
<< Sì. E tu verrai in tour con me ogni volta che puoi?
>>
<< Assolutamente sì, amore >>
Myles sorrise e appoggiò le proprie labbra su quelle di Tru,
in un bacio lungo e dolce. Quando si separarono il cantante si ricordò di una
cosa.
<< Tru? >> chiamò.
<< Sì? >>
<< Ti ho
portato una scatola di quei biscottini inglesi che ti piacciono >>
<< Ti ho già detto che ti amo? >> fu il commento
di Mark.
Myles scoppiò a ridere. << Puoi ridirmelo, se ti va
>>
<< Ti amo >>
Questa volta fu Mark a baciarlo, beandosi della sensazione
dei suoi capelli lunghi che gli sfioravano il viso. Improvvisamente aveva
l’impressione di possedere tutto ciò che desiderava nell’arco dei pochi metri
quadrati di quella stanza. L’amore della sua vita e una scatola di biscottini
inglesi ad attenderlo.
Myles si strinse più forte alle sue spalle, non per paura di
cadere ma per annullare ogni millimetro che ancora li divideva. Quando si
separarono diede un’occhiata alla finestra accanto a loro.
Probabilmente, a differenza di quello della House of Parliament inglese, quel
vetro non era antiproiettile.
Eppure in quel momento, tra le braccia di Mark, si sentiva al sicuro come non
lo era mai stato.