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Autore: roro    10/08/2008    11 recensioni
E, come mio solito, la gelosia mi corrode l’animo, spingendomi a gonfiare le gote come un criceto e sbuffare, irata.
Perché sì, quelle donne saranno di certo parte del passato, ma sono pur sempre parte del
suo passato: sono le donne che gli hanno insegnato come si bacia, come si carezza, come si fanno quelle cose da adulti che lui per ora non vuole costringermi a fare.
“Mitsuki?”.
“Sì?”.
Osserva il mio volto – accaldato, irato, bagnato – e scoppia a ridere. Ed è una risata genuina, la sua, una di quelle che scalda il cuore.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kouyama Mitsuki
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Shinigami §




*\* Salve, lettori!
Sono roro: forse qualcuno di voi ha letto qualche mia storia nella sezione Inu-Yasha... (NO! ndTutti). Cattivi, era tanto per dire... -.-
Comunque. Questa è la prima volta che mi cimento in una fic su FMWS, manga che personalmente adoro – chiariamo, ho una venerazione per Takuto.
Non so come mi sia uscita, ma spero la gradirete.

E, prima di lasciarvi alla fic, ci tengo a precisare che la Shot è dedicata alla mia Aryuna, volpe adorosa! Spero vivamente che le piacerà (anche se l'ha già letta! XD).
P.S. La fic è ambientata dopo il volume 7, in un lasso imprecisato di tempo. Immaginate pure di collocarla dove volete, eh!

P.P.S. Lasciate dei commenti, please! Saranno molto graditi! ^^ */*

Nota del 15/08/09:
Ho fatto una miiiini revisione. <.< Non ho cambiato molto la trama, ho solo riscritto un po' la storia. E non mi convince molto, ma è di certo meglio della schifezza precedente. Bah. ._."
Perdonatemi per il lavoro orrendo. <3 Prima o poi mi rifarò. UoU"

 

 

 

 

 

 

“A cosa stai pensando?”.

“Agli…”.

“Sì?”.

“… Shinigami”.

“Shinigami?”.

“Sì”, ripeto, alzando gli occhi al cielo. “Shinigami”.

Ripeto per qualche attimo quel termine, curiosa, sorpresa da quanto sia strano ed astratto, e poi lo sussurro ancora, cogliendone ogni sfumatura, desiderosa di immetterlo in me, nella mia pelle, nella mia voce, nel mio cuore.

Volendo essere sinceri, sino a poco tempo fa non avevo mai, mai creduto che potessero non essere solo una fantasia da bambini. Credevo fossero una leggenda: anche perché, in realtà, esseri così non dovrebbero esistere.

In realtà, ho detto.

Non dovrebbero esistere, ma sono vivi, veri, tangibili, incredibilmente buffi e simpatici. Non indossano cupi kimoni color della notte, né lunghe tuniche nere: si affidano a abiti più colorati. Umani, vorrei dire, ma so che potrebbe sembrare un controsenso.

Gli Shinigami non sono demoni, e non vanno definiti in questo modo – hanno un cuore, possono amare, odiano le crudeltà. E sì, sono messaggeri di morte, ma sono anche angeli. Quantomeno per me, che li ho conosciuti e ho avuto modo di osservarli.

Troppo spesso si dimentica che chi diviene uno Shinigami in precedenza si è suicidato, che chi diviene uno Shinigami è un essere debole, incapace di accettare il destino assegnatogli.

Quelli che non ce l’hanno fatta a vivere.

Siamo soliti considerarli esseri forti, privi di cuore e sentimento alcuno, ma dimentichiamo che i messaggeri di morte – mai nome fu meno appropriato, aggiungo con sdegno mordendomi il labbro inferiore – hanno sofferto. Magari pianto. Di certo urlato, mentre il loro cuore si spezzava e la vita si trasformava in una recita dalle tinte scure.

Mi volto lentamente, osservando Takuto: è seduto al mio fianco, e gioca con un micino. Quando gli ho chiesto dove l’aveva trovato, ha fatto una faccia buffissima, scompigliandomi affettuosamente i capelli e sorridendo.

“Mitsuki?”.

Anche lui è stato così.

Se osservo Takuto, non posso non pensare che anche lui, tempo fa, ha cercato la morte a discapito della vita.

Anche lui – Takuto, l’uomo che si sforza di farmi sorridere ogni giorno – ha sofferto. Ha perso la musica, ha perso la sua ragione di vita, ha pianto, si è disperato. Ha creduto di non poter vivere, perché la vita non gli riservava più nulla di quel che voleva.

Probabilmente, seduto su quel piccolo – e scomodo, mormoro soprappensiero, doveva essere molto scomodo – letto d’ospedale, osservava l’esterno. E gli uccellini. E ascoltava le loro voci, i loro sospiri, la musica che sono soliti creare.

E dev’essersi chiesto il perché di quanto gli stava succedendo.

Deve aver pensato a Wakaoji-sama, all’operazione. A quello che, per lui, doveva essere stato il più grande dei tradimenti: perché, pur riuscendo razionalmente a capire le ragioni di Wakaoji-sama, dev’esserci stato male.

Lo so.

“Mitsuki!”.

So cos’ha provato: del resto, ho rischiato di perdere le stesse cose a causa della medesima malattia. E se non ci fosse stato lui – e Meroko, e Izumi, e tutti gli altri –, di certo avrei anch’io smesso di combattere, incapace di contrastare la nonna.

“Mitsuki?”.

“Sì?”.

Lo osservo, e mi si stringe il cuore: confortarlo.

Qualcosa in me vuole che lo abbracci. Qualcosa desidera che io lo stringa a me, lo... – arrossisco, intimidita – ... baci.

Come se non lo avessi baciato al concerto, davanti ad una folla urlante. Come se il mio cuore, quel giorno, non avesse ricominciato a battere dopo tre anni di silenzio, intonando un tu-tum frenetico solo per lui. Come se, quel giorno, non gli avessi dimostrato di amarlo abbastanza.

“Cos’hai?”.

“Nulla”. Sorrido, agitando una mano davanti al volto. “Non ho nulla, davvero”, sussurro.

Il micino lancia l’ennesimo miagolio, irritato dalla mancanza di attenzioni, e io gli sorrido, sfiorando appena il pelo color del grano.

“Sul serio. Sto bene”.

“Hai una faccia strana”, mormora.

E io non posso fare a meno di fissarlo e ricordare che – per tre anni! – non ho potuto guardarlo. Eppure, non è mai stato troppo lontano da me: semplicemente si è nascosto, per vergogna o qualcosa di simile. Vorrei dargli uno schiaffo – perché mi ha fatto soffrire troppo, perché mi è mancato esageratamente, perché è così tenero da far palpitare il mio cuore –, ma mi trattengo.

“Sicura di star bene?”.

Lontani per tre anni!

“Sì, davvero”. Asserisco col capo, ricominciando a carezzare il pelo del gattino. “Ho solo un po’ di mal di testa”. Poi mi volto, nascondendo il viso. “Credo”, aggiungo flebilmente.

Ma lui, quella parola, l’ha sentita comunque. Lo so. Inarca troppo il sopracciglio destro, per poter essere altrimenti.

“Sicura? Ma davvero sicura?”.

Vorrei dirgli che desidero abbracciarlo, ma mi vergogno: non ho mai avuto bisogno di dire, ho sempre agito. Quando avevo voglia di prendere una persona per mano, lo facevo, e quando desideravo stringerla a me, le buttavo le braccia al collo e saltellavo, gioiosa.

Ho sempre preferito portare a termine le cose, anziché perdermi in inutili chiacchiere.

Ma ho scoperto che una parola può valere come mille azioni, e un azione può valere come mille parole. E, beh, forse è per questo che ora mi scopro combattuta dal desiderio di abbracciare Takuto e quello di alzarmi e correre via.

“No”.

“Sapevo che c’era qualcosa di strano”. I suoi occhi prendono una strana sfumatura, e mi osserva di sottecchi, lasciando ondeggiare le gambe – oggi indossa un jeans nero e una felpa gialla. Ho provato a convincerlo ad indossare un completo simile al suo abito da Shinigami, ma si è subito rifiutato. “Pensi ad Eichi?”.

No, vorrei rispondere, ma so che sarebbe una bugia. Non ho mai smesso di pensare a lui, e a tutte le cose che avrei dovuto fare ma non ho fatto.

Forse è per questo che Eichi mi ha lasciata.

Non è vero.

Forse è per questo che Eichi mi ha abbandonata.

Non è mai successo.

Forse è per questo che Eichi è stato il mio primo amore.

L’ho amato davvero.

Ho provato quell’amore agrodolce ed intenso che ti segue tutta la vita, quello che non puoi dimenticare: Eichi non può sparire dai miei pensieri, né potrà mai smettere di essere una costante delle mie riflessioni. Sono una donna piena di rimpianti, dopotutto: l’ho amato, ma ho scoperto questo mio sentimento troppo tardi, quando lui non era più al mio fianco.

Ho pianto, mi sono disperata, ho amato.

Quando lui è morto, ho desiderato quasi svanire a mia volta – ma prima avrei dovuto realizzare il mio unico sogno. Desideravo cantare, e così ho fatto.

Credevo di non poter più amare, ma così non è stato.

Takuto mi si è avvicinato, dapprima timidamente, poi sempre con più impeto, dimostrando di provare davvero qualcosa per me. Non mi ha imposto di amarlo: si è semplicemente innamorato di me, di questa me stessa che tanto odio. Ha trovato qualcosa di positivo in un essere totalmente negativo – almeno, io credo di essere così. Anche se tutti negano e fanno finta di nulla, non posso mentire a me stessa. So di non essere un angelo, e so di non meritare l’amore di Takuto.

Ma mi sono innamorata di lui, senza alcuna ragione. E lui si è innamorato di me.

Singhiozzo impercettibilmente. “Non proprio”, ammetto. Ed è così liberatorio, poterlo dire senza paura di essere presa per sciocca!

Mi sorride. “Ok”, rantola. Non smette di osservarmi neppure mentre si piega verso il micino – che ha ricominciato a miagolare – e muove un nastrino rosso. Non so dove l’abbia preso, suppongo me l’abbia sfilato dai capelli mentre ero distratta.

E il micino fa le fusa, contento.

“Takuto?”, dico, saggiando per bene il suo nome sul palato – cosa che, poco prima, ho fatto anche con la parola Shinigami.

Sospira. “Cosa c’è?”.

“Non l’avevo notato: hai tagliato i capelli?”.

Non me n’ero accorta durante il concerto. E non l’avevo fatto perché, anziché osservare il suo corpo, mi ero limitata ad osservare i suoi occhi. E le sue labbra. E il suo viso, che tanto avevo desiderato rivedere.

Quel giorno ero stata anche troppo distratta, e avevo intonato due volte la stessa strofa, rischiando di mandare a monte un concerto – e di far impazzire la band. Il chitarrista si è licenziato proprio dopo la fine dello spettacolo, in effetti.

“Beh, sì. Erano troppo lunghi, e mi davano fastidio, e… Mitsuki, stai piangendo?”.

Oh. Mio. Dio.

Nascondo il volto tra le dita, ma non posso far finta di nulla: mi ha vista, dopotutto. E le sue mani corrono sulle mie guance, sfiorandole debolmente, nel disperato tentativo di rimediare a un danno che lui non aveva causato.

Boccheggia. “Ho… Ho detto qualcosa di spiacevole?”, domanda, tirandomi a sé.

Io mi limito ad arrossire.

“Mitsuki?”. Carezza ancora il mio viso, delicato come se stesse toccando una bambola di porcellana: chissà cosa ci trova in me.

In questi giorni mi scopro a domandarmelo un numero infinito di volte, e questo mi spaventa – cosa ci trova in una bambina? Come può amarmi davvero, lui che ha avuto modelle come fidanzate?

E, come mio solito, la gelosia mi corrode l’animo, spingendomi a gonfiare le gote come un criceto e sbuffare, irata.

Perché sì, quelle donne saranno di certo parte del passato, ma sono pur sempre parte del suo passato: sono le donne che gli hanno insegnato come si bacia, come si carezza, come si fanno quelle cose da adulti che lui per ora non vuole costringermi a fare.

“Mitsuki?”.

“Sì?”.

Osserva il mio volto – accaldato, irato, bagnato – e scoppia a ridere. Ed è una risata genuina, la sua, una di quelle che scalda il cuore.

“Mitsuki, non fare la stupida, dai”, dice, carezzandomi amabilmente la schiena: sfiora la stoffa del vestito con una lentezza estenuante, concedendosi di quando in quando di carezzarmi il collo e i capelli corvini. “Non piangere”.

“Non piangerò”, confermo, socchiudendo gli occhi.

Restiamo così a lungo. Molto, molto a lungo.

Quando ci stacchiamo, la luna è già alta nel cielo, e io sbadiglio un po’. Perché, ovviamente, ho sonno. E, ovviamente, ho sonno perché sono una bambina. E, cosa ancora più ovvia, lui deve farmelo notare con una nota saccente così antipatica da irritarmi: “Le mocciose non dovrebbero far tardi, lo sai”.

“Stupido”, borbotto, inclinando il capo di lato e facendogli una linguaccia. “Sei cattivo, Takuto!”.

Mi alzo, irritata, e faccio per andare via, ben sapendo che mi bloccherà un attimo prima che varchi la soglia – e infatti è così. Mi cinge la vita, posando poi il mento sulla mia spalla sinistra e avvicinando le labbra all’orecchio. Il suo respiro mi paralizza, e non posso che immobilizzarmi, fremendo.

“Mitsuki, posso baciarti?”.

Mi copro la bocca con una mano, decisa a non rispondere.

Lui ridacchia. “Chi tace acconsente, non lo sai?”.

E mi bacia. Perché Takuto è prepotente, dispotico, capriccioso, infantile, indeciso e anche troppo pervertito.

Lo abbraccio – non so resistergli, neppure quando voglio – e affondo le mie dita nei suoi capelli, tirandoli leggermente. Sorrido impercettibilmente, mentre si allontana il minimo indispensabile per prendere fiato.

“Ti amo, marmocchia”, mormora.

E io sorrido, contenta. “Ti amo”.

 

   
 
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