Shinigami
§
*\* Salve, lettori!
Sono roro: forse qualcuno di voi ha letto qualche mia storia nella sezione Inu-Yasha... (NO! ndTutti). Cattivi, era tanto per dire... -.-
Comunque. Questa è la prima volta che mi cimento in una fic su FMWS, manga che personalmente adoro – chiariamo, ho una venerazione per Takuto.
Non so come mi sia uscita, ma spero la gradirete.
E, prima di lasciarvi alla fic, ci tengo a precisare che la Shot è dedicata alla mia Aryuna, volpe adorosa! Spero vivamente che le piacerà (anche se l'ha già letta! XD).
P.S. La fic è ambientata dopo il volume 7, in un lasso imprecisato di tempo. Immaginate pure di collocarla dove volete, eh!
P.P.S. Lasciate dei commenti, please! Saranno molto graditi! ^^ */*
Ho fatto una miiiini revisione. <.< Non ho cambiato molto la trama, ho solo riscritto un po' la storia. E non mi convince molto, ma è di certo meglio della schifezza precedente. Bah. ._."
Perdonatemi per il lavoro orrendo. <3 Prima o poi mi rifarò. UoU"
“A cosa stai
pensando?”.
“Agli…”.
“Sì?”.
“…
Shinigami”.
“Shinigami?”.
“Sì”,
ripeto, alzando gli occhi al cielo. “Shinigami”.
Ripeto per qualche attimo quel
termine, curiosa, sorpresa
da quanto sia strano ed astratto, e poi lo sussurro ancora, cogliendone
ogni
sfumatura, desiderosa di immetterlo in me, nella mia pelle, nella mia
voce, nel mio cuore.
Volendo essere sinceri, sino a poco
tempo fa non avevo
mai, mai creduto che potessero non
essere solo una fantasia da bambini. Credevo fossero una leggenda:
anche
perché, in realtà, esseri così non
dovrebbero esistere.
In
realtà, ho detto.
Non dovrebbero esistere, ma sono
vivi, veri, tangibili,
incredibilmente buffi e
simpatici. Non indossano cupi kimoni color della notte, né
lunghe tuniche nere:
si affidano a abiti più colorati. Umani,
vorrei dire, ma so che potrebbe sembrare un controsenso.
Gli Shinigami non sono demoni, e
non vanno definiti in
questo modo – hanno un cuore, possono amare, odiano le
crudeltà. E sì, sono
messaggeri di morte, ma sono anche angeli. Quantomeno per me, che li ho
conosciuti e ho avuto modo di osservarli.
Troppo spesso si dimentica che chi
diviene uno Shinigami
in precedenza si è suicidato, che chi diviene uno Shinigami
è un essere debole,
incapace di accettare il destino assegnatogli.
Quelli
che non ce l’hanno fatta a vivere.
Siamo soliti considerarli esseri
forti, privi di cuore
e sentimento alcuno, ma dimentichiamo che i messaggeri di morte
– mai nome fu meno appropriato,
aggiungo
con sdegno mordendomi il labbro inferiore – hanno sofferto.
Magari pianto. Di
certo urlato, mentre il loro cuore si spezzava e la vita si trasformava
in una
recita dalle tinte scure.
Mi volto lentamente, osservando
Takuto: è seduto al
mio fianco, e gioca con un micino. Quando gli ho chiesto dove
l’aveva trovato,
ha fatto una faccia buffissima, scompigliandomi affettuosamente i
capelli e
sorridendo.
“Mitsuki?”.
Anche
lui è stato così.
Se osservo Takuto, non posso non
pensare che anche
lui, tempo fa, ha cercato la morte
a
discapito della vita.
Anche lui – Takuto,
l’uomo che si sforza di farmi sorridere ogni giorno
– ha sofferto. Ha perso la
musica, ha perso la sua ragione di vita, ha pianto, si è
disperato. Ha creduto
di non poter vivere, perché la vita non gli riservava
più nulla di quel che
voleva.
Probabilmente, seduto su quel
piccolo – e scomodo,
mormoro soprappensiero, doveva essere molto
scomodo – letto
d’ospedale, osservava l’esterno. E gli uccellini. E
ascoltava le loro voci, i
loro sospiri, la musica che sono soliti creare.
E dev’essersi chiesto il
perché di quanto gli stava
succedendo.
Deve aver pensato a Wakaoji-sama,
all’operazione. A
quello che, per lui, doveva essere stato il più grande dei
tradimenti: perché,
pur riuscendo razionalmente a capire le ragioni di Wakaoji-sama,
dev’esserci
stato male.
Lo so.
“Mitsuki!”.
So cos’ha provato: del
resto, ho rischiato di perdere
le stesse cose a causa della medesima malattia. E se non ci fosse stato
lui – e
Meroko, e Izumi, e tutti gli altri –, di certo avrei
anch’io smesso di
combattere, incapace di contrastare la nonna.
“Mitsuki?”.
“Sì?”.
Lo osservo, e mi si stringe il
cuore: confortarlo.
Qualcosa in me vuole che lo
abbracci. Qualcosa
desidera che io lo stringa a me, lo... – arrossisco,
intimidita – ... baci.
Come se non lo avessi baciato al
concerto, davanti ad
una folla urlante. Come se il mio cuore, quel giorno, non avesse
ricominciato a
battere dopo tre anni di silenzio, intonando un tu-tum
frenetico solo per lui. Come se, quel giorno, non gli avessi
dimostrato di amarlo abbastanza.
“Cos’hai?”.
“Nulla”.
Sorrido, agitando una mano davanti al volto.
“Non ho nulla, davvero”, sussurro.
Il micino lancia
l’ennesimo miagolio, irritato dalla
mancanza di attenzioni, e io gli sorrido, sfiorando appena il pelo
color del
grano.
“Sul serio. Sto
bene”.
“Hai una faccia
strana”, mormora.
E io non posso fare a meno di
fissarlo e ricordare che
– per tre anni!
– non ho potuto
guardarlo. Eppure, non è mai stato troppo lontano da me:
semplicemente si è
nascosto, per vergogna o qualcosa di simile. Vorrei dargli uno schiaffo
–
perché mi ha fatto soffrire troppo, perché mi
è mancato esageratamente, perché
è così tenero da far palpitare il mio cuore
–, ma mi trattengo.
“Sicura di star
bene?”.
Lontani
per tre anni!
“Sì,
davvero”. Asserisco col capo, ricominciando a
carezzare il pelo del gattino. “Ho solo un po’ di
mal di testa”. Poi mi volto,
nascondendo il viso. “Credo”, aggiungo flebilmente.
Ma lui, quella parola,
l’ha sentita comunque. Lo so.
Inarca troppo il sopracciglio
destro, per poter essere altrimenti.
“Sicura? Ma davvero
sicura?”.
Vorrei dirgli che desidero
abbracciarlo, ma mi
vergogno: non ho mai avuto bisogno di dire, ho sempre agito. Quando
avevo
voglia di prendere una persona per mano, lo facevo, e quando desideravo
stringerla a me, le buttavo le braccia al collo e saltellavo, gioiosa.
Ho sempre preferito portare a
termine le cose, anziché
perdermi in inutili chiacchiere.
Ma ho scoperto che una parola
può valere come mille
azioni, e un azione può valere come mille parole. E, beh,
forse è per questo
che ora mi scopro combattuta dal desiderio di abbracciare Takuto e
quello di
alzarmi e correre via.
“No”.
“Sapevo che
c’era qualcosa di strano”. I suoi occhi
prendono una strana sfumatura, e mi osserva di sottecchi, lasciando
ondeggiare
le gambe – oggi indossa un jeans nero e una felpa gialla. Ho
provato a
convincerlo ad indossare un completo simile al suo abito da Shinigami,
ma si è
subito rifiutato. “Pensi ad Eichi?”.
No, vorrei rispondere, ma so che
sarebbe una bugia. Non
ho mai smesso di pensare a lui, e a tutte le cose che avrei dovuto fare
ma non
ho fatto.
Forse è per questo che
Eichi mi ha lasciata.
Non
è vero.
Forse è per questo che
Eichi mi ha abbandonata.
Non
è mai successo.
Forse è per questo che
Eichi è stato il mio primo
amore.
L’ho
amato davvero.
Ho provato quell’amore
agrodolce ed intenso che ti
segue tutta la vita, quello che non puoi dimenticare: Eichi non
può sparire dai
miei pensieri, né potrà mai smettere di essere
una costante delle mie
riflessioni. Sono una donna piena di rimpianti, dopotutto:
l’ho amato, ma ho
scoperto questo mio sentimento troppo tardi, quando lui non era
più al mio
fianco.
Ho pianto, mi sono disperata, ho amato.
Quando lui è morto, ho
desiderato quasi svanire a mia
volta – ma prima avrei dovuto realizzare il mio unico sogno.
Desideravo
cantare, e così ho fatto.
Credevo di non poter più
amare, ma così non è
stato.
Takuto mi si è
avvicinato, dapprima timidamente, poi
sempre con più impeto, dimostrando di provare davvero
qualcosa per me. Non mi
ha imposto di amarlo: si è semplicemente innamorato di me,
di questa me stessa
che tanto odio. Ha trovato qualcosa di positivo in un essere totalmente
negativo – almeno, io credo di essere così. Anche
se tutti negano e fanno finta
di nulla, non posso mentire a me stessa.
So di non essere un angelo, e so di non meritare l’amore di
Takuto.
Ma mi sono innamorata di lui, senza
alcuna ragione. E
lui si è innamorato di me.
Singhiozzo impercettibilmente.
“Non proprio”, ammetto.
Ed è così liberatorio, poterlo dire senza paura
di essere presa per sciocca!
Mi sorride.
“Ok”, rantola. Non smette di osservarmi
neppure mentre si piega verso il micino – che ha ricominciato
a miagolare – e
muove un nastrino rosso. Non so dove l’abbia preso, suppongo
me l’abbia sfilato
dai capelli mentre ero distratta.
E il
micino fa le fusa, contento.
“Takuto?”,
dico, saggiando per bene il suo nome sul
palato – cosa che, poco prima, ho fatto anche con la parola Shinigami.
Sospira. “Cosa
c’è?”.
“Non l’avevo
notato: hai tagliato i capelli?”.
Non me n’ero accorta
durante il concerto. E non
l’avevo fatto perché, anziché osservare
il suo corpo, mi ero limitata ad
osservare i suoi occhi. E le sue labbra. E il suo viso, che tanto avevo
desiderato rivedere.
Quel giorno ero stata anche troppo
distratta, e avevo
intonato due volte la stessa strofa, rischiando di mandare a monte un
concerto –
e di far impazzire la band. Il chitarrista si è licenziato
proprio dopo la fine
dello spettacolo, in effetti.
“Beh, sì.
Erano troppo lunghi, e mi davano fastidio,
e… Mitsuki, stai piangendo?”.
Oh. Mio. Dio.
Nascondo il volto tra le dita, ma
non posso far finta
di nulla: mi ha vista, dopotutto. E le sue mani corrono sulle mie
guance,
sfiorandole debolmente, nel disperato tentativo di rimediare a un danno
che lui non aveva causato.
Boccheggia.
“Ho… Ho detto qualcosa di spiacevole?”,
domanda, tirandomi a sé.
Io mi limito ad arrossire.
“Mitsuki?”.
Carezza ancora il mio viso, delicato come
se stesse toccando una bambola di porcellana: chissà cosa ci
trova in me.
In questi giorni mi scopro a
domandarmelo un numero
infinito di volte, e questo mi spaventa – cosa ci trova in
una bambina? Come
può amarmi davvero, lui che ha avuto modelle come fidanzate?
E, come mio solito, la gelosia mi
corrode l’animo,
spingendomi a gonfiare le gote come un criceto e sbuffare, irata.
Perché sì,
quelle donne saranno di certo parte del
passato, ma sono pur sempre parte del suo
passato: sono le donne che gli hanno insegnato come si bacia, come si
carezza,
come si fanno quelle cose da adulti che
lui per ora non vuole costringermi a fare.
“Mitsuki?”.
“Sì?”.
Osserva il mio volto –
accaldato, irato, bagnato – e
scoppia a ridere. Ed è una risata genuina, la sua, una di
quelle che scalda il
cuore.
“Mitsuki, non fare la
stupida, dai”, dice, carezzandomi
amabilmente la schiena: sfiora la stoffa del vestito con una lentezza
estenuante, concedendosi di quando in quando di carezzarmi il collo e i
capelli
corvini. “Non piangere”.
“Non
piangerò”, confermo, socchiudendo gli occhi.
Restiamo così a lungo.
Molto, molto a lungo.
Quando ci stacchiamo, la luna
è già alta nel cielo, e
io sbadiglio un po’. Perché, ovviamente, ho sonno.
E, ovviamente, ho sonno
perché sono una bambina. E, cosa ancora più
ovvia, lui deve farmelo notare con una nota saccente così
antipatica da
irritarmi: “Le mocciose
non
dovrebbero far tardi, lo sai”.
“Stupido”,
borbotto, inclinando il capo di lato e
facendogli una linguaccia. “Sei cattivo, Takuto!”.
Mi alzo, irritata, e faccio per
andare via, ben
sapendo che mi bloccherà un attimo prima che varchi la
soglia – e infatti è
così. Mi cinge la vita, posando poi il mento sulla mia
spalla sinistra e
avvicinando le labbra all’orecchio. Il suo respiro mi
paralizza, e non posso
che immobilizzarmi, fremendo.
“Mitsuki, posso
baciarti?”.
Mi copro la bocca con una mano,
decisa a non
rispondere.
Lui ridacchia. “Chi tace
acconsente, non lo sai?”.
E mi bacia. Perché
Takuto è prepotente, dispotico,
capriccioso, infantile, indeciso e anche troppo pervertito.
Lo abbraccio – non so
resistergli, neppure quando
voglio – e affondo le mie dita nei suoi capelli, tirandoli
leggermente. Sorrido
impercettibilmente, mentre si allontana il minimo indispensabile per
prendere
fiato.
“Ti amo, marmocchia”,
mormora.
E io sorrido, contenta.
“Ti amo”.