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Autore: Ita rb    11/06/2014    8 recensioni
[...] Bennet White era il classico esempio del perfetto uomo del suo tempo, o per lo meno così appariva alla vista degli altri. Nel suo breve tergiversare dinanzi all’ingresso del proprio appartamento londinese, spesso rimaneva con una sigaretta accesa che gli oscillava tra le dita e si posava leggera sulle labbra schiuse per annebbiargli la vista con vapori densi. Era schiavo del vizio in una città annoiata che si rigirava tra le lenzuola sporche di una bettola di Whitechapel per poi posare il posteriore sulle eleganti sedute della Royal Italian Opera, eppure non sembrava altro che un omuncolo tra tanti – uno di quelli che ci teneva a mantenere un abbigliamento impeccabile e nero quanto la notte che imperversava tra i viottoli poco illuminati. Aveva uno strano modo di approcciarsi alle vicende della vita, anche se alcuni l’avrebbero semplicemente definito cauto; ma nonostante ciò, quell’individuo non lo era affatto [...]
[ Fan fiction che partecipa al contest "L'EPOCA VITTORIANA E I SUOI SEGRETI" del gruppo "La crème de la crème di EFP" ]
Genere: Sovrannaturale, Storico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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OS nata per il contest organizzato dalla pagina Facebook “
La crème de la crème di EFP”, basato sull’epoca vittoriana e sul tema del fantasy.

Questa volta non voglio dilungarmi, ho deciso di essere più concisa e diretta: la storia è mia, i personaggi idem con patate, ma i nomi sono dettati dal caso e senza scopo di lucro, mentre i luoghi citati li trovate lì, dove sono sempre stati.

Visto che spesso si tende a non leggere le note, dunque, se siete così gentili da voler sprecare pochi minuti per leggerle, le trovate in fondo alla storia.

Anyway, ci vediamo in basso ~


 
 
Crow era il nome con cui tutti quanti si presentavano alla mia porta.
A volte lo mormoravano a denti stretti, titubanti, dopo aver mosso passi incerti lungo la City per arrivare fin lì, nel quartiere più basso, maleodorante e malfamato, sospinti dall’interessante scia di quelle credenze che erano solo fandonie. Con scetticismo si affacciavano per la via sperduta di Whitechapel e avevano il medesimo intento, nessuno escluso: confutare.
Spesso si presentavano uomini facoltosi, imprenditori o nobili annoiati per il mero capriccio di esserlo, individui impettiti e ben vestiti che amavano cercare il pericolo nelle nefandezze umane e l’emblema d’immortalità nelle orecchie della gente. Desideravano qualche nozione aggiuntiva con cui passare il tempo, qualcosa che sarebbe stata in grado di mantenerli arzilli nel proprio salotto anche dopo scoccata la mezzanotte, perciò sollevavano gli angoli delle labbra in possenti ghigni che sapevano di una conoscenza fittizia e mormoravano il nome tanto temuto quanto affascinante di Aleister Crowley; ma non sempre accadeva e quelle rare volte in cui comparivano uomini disperati, una strana atmosfera s’irradiava per tutta la stanza fino ad assumere una consistenza quasi soffocante.
Avevano lo sguardo spaesato e terso, quasi liquido e colmo di una paura inconsapevole che gli faceva scorrere il sangue nelle vene con nuovo vigore, mentre il loro intero essere diveniva rigido e stanziava come un albero privo di radici nel bel mezzo di una burrasca.
Erano silenziosi, si contorcevano le dita con le gemelle e cercavano un briciolo di coraggio nel petto occluso, quando la gola vibrava e neppure riusciva a deglutire la saliva.
Tutto si fermava lì, diveniva immobile, e il tempo che sempre scorreva per conto proprio, all’improvviso si faceva delle remore nell’osservarli – circospetto gli si appollaiava sulle spalle e assumeva le sembianze di un corvo con grandi ali spiegate, ma loro non riuscivano a vederlo e si stringevano sotto il cappotto di una media borghesia per prendere un respiro assente in quell’aria vuota che annaspava su per il naso.
È così che lo conobbi, nello stesso modo di tutti gli altri, cercando di formulare un’idea per spillargli quattrini e metterlo in mano a degli strozzini pur di guadagnarci ancora.
 
¶ Le palpebre fisse assomigliavano ad alveoli lugubri e corvini.
«Quando mia madre era ancora in vita mi parlava spesso di come la vita fosse ingiusta», esordì d’un tratto, cogliendomi alla sprovvista.
Teneva saldamente il bicchiere di gin che gli avevo versato e sedeva composto sulla sedia tarlata che gli era stata offerta, mentre con la mano libera carezzava il tavolo – quella tovaglia lurida che in molti non avrebbero neppure degnato di uno sguardo. Sistemava le molliche di pane in una piccola montagnola dopo averle spinte con i polpastrelli e rimirava il liquido con una sorta di nostalgia, eppure non si azzardava a mandarlo giù – diffidenza, mi dissi.
«Vostra madre deve essere stata una donna saggia», commentai allora, prendendo posizione s’una sedia di fronte a lui. La scostai dal tavolo con naturalezza e un po’ di teatralità aggiuntiva fece il suo dovere quando scossi di poco il capo per posare le mani giunte dinanzi al suo sguardo assorto.
Non c’era bisogno che gli chiedessi come avesse trovato quella porta anonima, né come conoscesse la parola d’ordine: tutto procedeva per vie traverse, passando di bocca in bocca, con un certo vanto, dietro i fazzoletti chiari con cui i lord si pulivano le labbra dopo aver addentato un boccone di carne nodosa come se fosse ambrosia.
«Solo una donna», rispose lui con un lieve accenno di cinismo che non metteva a dura prova la concezione comune: le donne erano pur sempre donne, dovevano preoccuparsi del ricamo e delle frivolezze create appositamente per loro da una società troppo bigotta per restarlo anche la notte, quando la cintola dei mariti vibrava per slacciarsi altrove. «Però devo ammetterlo, aveva un grande intuito», aggiunse, prima di soppesare l’idea di bere quel bicchiere di gin.
Lo buttò giù tutto d’un fiato e non tornò a guardarmi negli occhi fin quando non fu certo che il sapore fosse dei più scadenti; allora cominciò a parlare, assumendo le sembianze di un fiume in piena e straripando verità scomode da tutti i lati senza capacitarsi del fatto che la sua lingua non avesse argini a cui appigliarsi: lo fece e basta.
 
¶ Sembrava essere tornato bambino.
Parlò della donna che aveva incontrato quando ancora era un ragazzino dalla faccia spruzzata di brufoli e della diffidenza che questa aveva mostrato nei suoi riguardi quando le era stato proposto di sposarsi proprio con lui. Si definiva brutto, come se non avesse mai conosciuto le vere mostruosità del mondo – le malformazioni e gli abomini di Whitechapel; eppure continuava a tenere la testa alta, dignitosa, con la capigliatura impeccabilmente posta alla colpo di vento.
Non che m’interessassero gli squilibri amorosi di un borghese arricchito, meno che mai quello che inizialmente aveva acceso la miccia come un velato complesso di Edipo, ma dopo un po’ compresi che l’idea sul suo conto fosse totalmente sbagliata: nessun attaccamento morboso alla donna che l’aveva partorito, nessun dramma di bruttezza vero e proprio, solo una chiara accettazione del sé odierno che si mostrava impeccabile.
«Posso accendermi una sigaretta?» Chiese, spingendosi fino ad offrirmene una per convenzione, ma non ci fu nulla a impedirgli di fumare nella catapecchia di Whitechapel – e non di certo io che accolsi quell’offerta come se fosse oro colato.
Sollevai appena un sopracciglio, prima di vedere il cerino guizzarmi incontro e con una grossa aspirata fusi i vapori biancastri che s’innalzavano verso il soffitto.
«Cosa vi porta qui, milord?» Domandai impaziente, prendendo a tamburellare con le dita sul tavolo e osservando con la coda dell’occhio quel suo innaturale modo di ordinare il disordine a partire dalle briciole che venivano scomposte e accatastate di nuovo.
«Sono Bennet White, potete chiamarmi così se volete», replicò con una saccente modestia, aspirando dalla sigaretta di buona qualità che aveva fra le labbra.
«Cosa vi porta qui, Bennet White?» Riformulai, accondiscendendo con un leggero cenno della mano prima di posarci contro una guancia.
«Mia moglie», soffiò, spostando appena la testa per sollevare il mento. «È morta qualche mese fa…»
Quella piccola aggiunta mi fece pensare che, dopotutto, i problemi di cuore non lo interessassero – non nel modo convenzionale per lo meno; eppure ero ancora un po’ titubante, visto che sembrava non avere troppa voglia di parlarne.
«Le mie condoglianze», sussurrai senza il benché minimo sentimento.
A Londra morivano uomini e donne – perfino bambini – ogni giorno in cui il sole sorgeva oltre la foschia e le nubi alte, perciò quella perdita non era altro che un numero già aggiunto alla lista dell’Oscura Signora e che al massimo avrebbe potuto fruttare nelle tasche di un truffatore come me.
«Vi arricchite sulle spalle della gente per questo e altro ancora, perciò non mostratevi rammaricato.»
 
¶ Bennet White era davvero sagace.
Annuii a quella provocazione e un leggero sorriso si dipinse sulle mie labbra, mentre le sue vibravano appena tant’erano indispettite; così mi decisi a versargli un altro bicchiere di gin e non lo rifiutò: lo bevve subito, senza alcun timore.
«Volete contattare vostra moglie?»
«È stata trovata in un mare di sangue», spiegò lentamente, cercando le parole nel mucchio di quelle conosciute. «Si è suicidata nella vasca da bagno e vorrei contattarla per conoscerne il motivo», disse risoluto, deglutendo nell’attesa di una risposta che non tardò ad arrivare:
«Ogni azione ha le proprie conseguenze, Bennet White, siete certo di voler conoscere il vero motivo del suicidio di vostra moglie?» Domandai teatralmente, facendo guizzare nell’aria i vapori della sigaretta accesa che tenevo in mano.
Spesso, molti profani se ne andavano con la coda fra le gambe nel guardarsi attorno in quel simulacro di eresia, ma lui non lo fece: si voltò per osservare la stanza illuminata dalle candele rancide e notò dettagli che prima gli erano parsi parte integrante dell’arredamento – là, sotto la luce giallina e soffusa, anche una semplice ombra era il riflesso dei demoni umani. Non batté ciglio di fronte al teschio che aveva alle spalle e lì si fermò appena, sospirando e tornando con gli occhi su di me.
«No», disse. «Se avessi avuto timore delle conseguenze, di certo non avrei bussato alla vostra porta e non sarei seduto a questo tavolo.»
Convenni con lui, seppur silenziosamente, e con un ghigno interessato annuii alle sue stesse parole, rimarcandole come voleva e infondendogli una sicurezza che in realtà era solo immaginazione.
«E sia, ma ricordate che ogni servigio ha un preciso costo.»
Sembrava che lo sapesse già, perché annuendo non strabuzzò le palpebre e non cercò di trattare: lasciò carta bianca al truffatore.
 
¶ L’enfasi del momento sapeva giocare brutti scherzi anche al più preciso e retto degli uomini.
Nessuno si accorgeva delle tempistiche con le quali una stanza veniva adibita dal mago, e i contatti con l’aldilà corrispondevano perfettamente alle aspettative degl’ignoranti.
Alcuni scoppiavano in lacrime amare, altri impallidivano e qualcuno, di tanto in tanto, s’imporporava di vergogna o rabbia per poi andare in escandescenza quando il suo scheletro nell’armadio veniva in superficie con l’intento singolare di continuare a muoversi sinistro tra un componente e l’altro della catena; eppure si trattava solo di parole, un potere al quale molti non riuscivano a replicare con altrettanta naturalezza in quell’universo ove l’ipnosi era posta s’un piedistallo dorato come l’ambizione più accattivante della monotonia.
Annodavo fili tesi negli angoli con gli spifferi d’aria, soggiogavo con uno sguardo tutti i presenti di fronte al tavolo tondo dai tre piedi indecisi che si posavano sul pavimento – e questo, normalmente, bastava; nonostante ciò, quando il Suo sguardo si fermò contro il mio, l’osservai bene e compresi che un leggero pallore aveva cominciato a farsi avanti assieme al timore che tanto aveva cercato di nascondere. Forse, mi dissi, sarebbe presto venuto aggalla.
Non persi tempo in schiocchi preamboli, però, lasciando da parte la soddisfazione per curarmi solo della minuziosità che mi era caratteristica; così mi concentrai sugli altri quattro membri: puntai lo sguardo sui loro volti cerei e scettici per guardarne uno ad uno e scoprirne le debolezze.
Una ragazzina dai capelli chiari mi fissava come se fossi un vero mago e cercava di donarmi quanta più dedizione avessi mai immaginato, mentre un uomo sulla cinquantina se ne stava appollaiato con le braccia conserte vicino allo stipite della porta chiusa di Bennet White. Di tanto in tanto mi fissava con aria burbera, ma non fiatava e si arricciava la punta dei baffi con circospezione, rischiando di far saltare i bottoni di quella giacca troppo stretta.
Quella che pensavo fosse la madre della più piccola, invece, si guardava tutt’attorno spaesata nel tentativo di catturare quei segreti invisibili che erano propri dei truffatori, mentre un anziano lord mi squadrava da capo a piedi nella certezza che li avessi addosso, magari nascosti al di là del panciotto.
Non c’era un numero preciso di partecipanti per tali occasioni, ma quando Bennet White cercò di giustificarsi, dovetti a malincuore trattenere una risata per mostrarmi un po’ sulle mie: non ero stato avvisato che quella fosse una serata mondana – o per lo meno così borbottai, indignato, per cercare di guadagnare un incremento sostanzioso dal suo portafogli.
 
¶ Quando diedi l’ordine di farlo, tutti si misero a sedere.
Il silenzio patì del sibilo nascosto, mentre la fiammella guizzava sul cranio nel centro del tavolo.
Giurerei di aver sentito un’esclamazione schifata da parte dell’impettita milady e un sospiro affascinato dalla ragazzina acerba con gli occhi azzurri, ma il vecchio non disse nulla e tenne le mani sul tavolo sin da subito, veterano di una tradizione che passava di bocca in bocca, mentre Bennet White, riluttante quanto suo cognato, si apprestava a seguire le indicazioni evasive.
Concentrazione, respirazione, occhi chiusi e pensiero fisso: non era difficile da tenere a mente, ma bastava quello per far sì che la mia voce suonasse imponente nell’invocazione della defunta e superasse il fremito della gamba che appostai vicino a quella più bassa del tre piedi.
Il tavolo vibrò, la fiammella lo seguì appena e la gola del panciuto cognato fremette.
«È qui tra noi», sussurrai solennemente quando lo spiffero d’aria fece vibrare meglio i fili nascosti e s’insinuò sinistramente nelle orecchie della più piccola che, aprendo gli occhi, mi fissò in volto. «Lei è qui…» dissi ancora, dando maggiore enfasi al discorso che di lì a poco avrei improvvisato con corde vocali subalterne; eppure, qualcosa andò diversamente.
«Siamo tutti qui», rispose il vecchio, spalancando gli occhi come la ragazzina alla sua sinistra. «Siamo stanchi di essere qui», aggiunse allora, muovendo appena i baffetti folti che gli coprivano il labbro superiore con fare quasi inquisitorio.
Rabbrividii inconsciamente, aggrottando di poco le sopracciglia per cercare di ricordare quale connotazione avesse avuto all’inizio – era strano, più lo guardavo e più continuavo a credere che i suoi occhi sembrassero ciechi.
«Viviamo nell’ombra delle menzogne», soffiò allora la donna alla mia destra, sollevandosi in piedi e fissando la candela sulla sommità del cranio che, dal centro del tavolo, si spostò un poco verso di lei.
 
¶ L’inquietudine m’invase.
Conscio che non fosse opera mia, spostai gli occhi da quell’assurdità per posarli stranito sulla mano che quella donna stringeva ancora nelle sue dita incredibilmente fredde; allora il gorgoglio distante del cognato mi raggiunse appena:
«Nominati e sfruttati per gli scopi bassi di una vita finita!»
Il sangue che fuoriusciva dal polso delicato scivolò denso e tutto d’un tratto sulle mie dita tremanti – sembrava putrescente e puzzava come lo scantinato di un becchino.
Allargai le palpebre, indegnamente sorpreso e sconcertato, prima di fissarla in viso e scorgere su di lei una chioma madida d’acqua che gocciolava tutt’attorno al cranio umano che avevo trafugato dal cimitero.
«Chi diavolo siete?» Domandai di getto, quando la presa di Bennet White si rinserrò attorno al mio polso fin quasi a stritolarlo. Un rantolo mi morì in gola e le ossa cigolarono, mentre la mano della ragazzina guizzò in avanti, afferrando la candela per spezzarla a metà con la semplicità tipica di un capriccio; dopodiché si avventò sul cranio e lo strinse nella penombra, carezzandolo un po’ con aria assorta.
«Questa è la mia testa», esordì allora, debolmente.
Non riuscii a trovare le parole quando i fili si spezzarono tutti, nessuno escluso, e i montanti della finestra saettarono verso le mura, facendo ondeggiare le tende chiare che coprirono appena il mio cliente. Restai a bocca aperta, ancorato alla sedia che sembrava sprofondare verso il basso e dinanzi al tavolo che vibrava, picchiava e strideva.
Le luci del corridoio si spensero, facendo saltare in aria tutte le lampadine, e il mio cuore mancò un battuto quando gli sguardi ciechi si puntarono su di me – era strano, eppure riuscivo a vederli anche al buio, mentre le sagome dei mostri erano illuminate dal riverbero lunare.
Qualcuno rise, qualcuno imprecò, qualcun altro pianse e le mura presero a battere forte nelle mie orecchie fin quasi ad assordarmi; eppure, all’improvviso, la stretta di Bennet White parve mancare quanto quella della donna grondante acqua.
 
¶ Seguito da tutti gli altri, il vecchio che avevo di fronte si tirò in piedi per sciogliere la catena.
Svanirono nel buio di quella stanza, lasciandomi fermo nel suo centro, con una mano sporca di sangue, il polso dolorante e i brividi lungo la schiena.
L’eco di una beffa mi carezzava le tempie con una litania fievole e m’irrigidiva le membra per rendermi una statua di sale.
Dopo quella volta, parlai molto di Lui per le vie di Whitechapel.
Bennet White era il classico esempio del perfetto uomo del suo tempo, o per lo meno così appariva alla vista degli altri. Nel suo breve tergiversare dinanzi all’ingresso del proprio appartamento londinese, spesso rimaneva con una sigaretta accesa che gli oscillava tra le dita e si posava leggera sulle labbra schiuse per annebbiargli la vista con vapori densi. Era schiavo del vizio in una città annoiata che si rigirava tra le lenzuola sporche di una bettola di Whitechapel per poi posare il posteriore sulle eleganti sedute della Royal Italian Opera, eppure non sembrava altro che un omuncolo tra tanti – uno di quelli che ci teneva a mantenere un abbigliamento impeccabile e nero quanto la notte che imperversava tra i viottoli poco illuminati. Aveva uno strano modo di approcciarsi alle vicende della vita, anche se alcuni l’avrebbero semplicemente definito cauto; ma nonostante ciò, quell’individuo non lo era affatto: bisogna ricordare, infatti, che era già morto da un paio di mesi, impiccato al lampadario d’ingresso per la prematura scomparsa di sua moglie.

 
Note: Note: Le illustrazioni che compongono il banner sono due. Love till death (illustration) di vadns; The angry god of real estate, di Matei Apostolescu.

La parola d’ordine con la quale si presentano i clienti al protagonista è crow – da qui il titolo che rimanda al corvo – in una chiara assonanza con Aleister Crowley.

Il numero di paragrafi in cui si divide la storia è 8, che spostato di 90° corrisponde al simbolo dell’infinito e che di per sé è il numero della morte, della transizione, del passaggio, della scoperta della trascendenza, del riflesso dello spirito nel mondo creato, dell’incommensurabile, dell’indefinibile e dell’incognito che segue alla perfezione simboleggiata dal numero sette.
   
 
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