*La Morte o La Resa*
Tyler Lockwood mi ha morsa.
Quella parole
rimbombavano nella mente di Katherine Pierce da ore. Aveva avuto molti momenti
terribili nel corso della sua lunga vita, primo fra tutti l’allontanamento
forzato da sua figlia appena nata, ma questo… questo le riportò alla mente
proprio quel dolore.
Lo strazio, la
disperazione, le lacrime che non smettevano di bagnarle il viso. Nelle orecchie
sentì rimbombare la sua stessa voce che gridava, pregava suo padre di farle
tenere in braccio sua figlia almeno una volta.
Chi doveva pregare ora? Chi avrebbe potuto cambiare idea e
riportarle indietro la sua bambina?
In poche ore Nadia
sembrava ancora abbastanza in salute, ma a volte il suo corpo era scosso da
tremori e sudava. Le allucinazioni non erano ancora arrivate, il che
significava che avevano ancora un lasso di tempo sufficiente a curarla.
La prima cosa che
pensò di fare, dopo averla messa al sicuro, era andare da quel dottore
disgustoso: tra tutti i suoi intrugli doveva esserci una cura.
Ma la fortuna
sembrava non girare dalla sua parte.
Il dottore era
morto.
«No…» scosse la
testa e sentì l’alito della morte su di sé. Non le avrebbe permesso di portare
via Nadia.
Con rabbia
ribaltò tutti gli scaffali per trovare qualcosa, qualsiasi cosa potesse
aiutarla, ma sembrava che quel bastardo di un dottore fosse buono solo a
torturare vampiri inermi. In quel posto non c’era assolutamente nulla per lei e
Katherine gridò di frustrazione.
Si appoggiò con
la schiena alla parete e si lasciò scivolare a terra. Cosa poteva fare? Non avrebbe
lasciato morire sua figlia, ma come impedirlo? Uccidere Tyler Lockwood per vendetta non avrebbe arrestato l’avvelenamento.
Bruciare tutta Mystic Falls non le avrebbe ridato
Nadia una volta morta.
Cosa poteva fare?
E poi realizzò. C’era
qualcosa che potesse fare. Una persona da chiamare, anche se gli aveva detto
addio tempo addietro. Anche se le sarebbe costato la vita.
Si rialzò in
piedi, dandosi un contegno e schiarendosi la voce. Estrasse il cellulare dalla
tasca del giubbotto di pelle e fece scorrere la rubrica fino alla lettera K. Un
risolino nervoso le uscì dalla gola. Alla fine tornava sempre da lui. Era un
circolo vizioso.
Lui aveva bisogno
di lei e lei altrettanto ne aveva di lui. Non potevano realmente dirsi addio. Le
loro vite erano inevitabilmente intrecciate e quello che stava succedendo ne
era l’ennesima prova.
Schiacciò il
tasto di avvio chiamata. Lui rispose al secondo squillo.
«Katerina.»
Sembrava sorpreso.
«Non attaccare»
disse in fretta la vampira.
«Cosa vuoi?» il tono era scortese, ma c’era una
nota di curiosità nella sua voce – e una sfumatura allarmata.
«Ho…» quasi le
mancò il fiato per proseguire. «Ho bisogno del tuo aiuto.»
«…»
Katherine Pierce
non aveva bisogno di niente e di nessuno. Non aveva bisogno di aiuto e, in
caso, non l’avrebbe mai chiesto né ammesso. Lei prendeva ciò che le serviva a
qualunque costo.
«Non ho molto
tempo» proseguì, cercando di dargli abbastanza informazioni senza raccontare
ogni cosa. «Mi serve il tuo sangue.»
«Mi hai detto addio» sembrava che la
cosa ancora bruciasse.
«È importante. Io…
io farò qualsiasi cosa in cambio» le costò così tanto dirlo, così tanto, ma l’amore
per se stessa era superato solo da quello per sua figlia. Era una viscida
manipolatrice, ma non aveva dimenticato di essere una madre.
«Kat-»
«Smetterò di
scappare» lo interruppe, temendo che volesse rifiutarle il suo aiuto.
Le sue mani tremavano,
forse anche la voce. Se lui non avesse accettato, Nadia sarebbe morta.
«Mandami l’indirizzo.»
Click.
Katherine rimase
immobile, con il cellulare ancora vicino all’orecchio. Cosa aveva appena fatto?
La parte più egoista di lei era terrorizzata: dopo cinquecento anni si era
arresa. Si era consegnata a Klaus, il suo incubo peggiore. Ebbe l’istinto di
scappare il più lontano possibile.
Nadia.
L’aveva fatto per
Nadia. Aveva deciso di sacrificarsi per non far morire sua figlia.
Chiuse gli occhi,
trasse un profondo respiro e inviò a Klaus un sms con l’indirizzo dell’appartamento
in cui aveva nascosto la vampira, poi corse da lei il più velocemente
possibile.
Spalancò la porta
e raggiunse subito la camera da letto. Le condizioni di Nadia stavano
peggiorando. La sua fronte era bagnata di sudore. Dormiva, ma sembrava che
fosse in preda agli incubi.
Si spostò nella
piccola cucina a preparare una bacinella e fazzoletti per combattere l’arrivo
della febbre alta. Scoprì che le tremavano le mani. Strinse con forza la
bacinella fin quasi a romperla e fu assalita dai dubbi.
E se Klaus avesse
mentito? E se non si fosse presentato? E se una volta arrivato si fosse
rifiutato di dare il suo sangue a Nadia? Katherine era pronta a tutto ed era
molto forte, ma non abbastanza per combattere contro Klaus e ottenere l’elisir
magico che avrebbe impedito a sua figlia di morire.
Scosse la testa
nel tentativo di liberarsi la mente da quei pensieri: Klaus era un mostro, ma
era un uomo d’onore. Era stato cresciuto con determinate regole e rispettava un
certo codice morale. Non l’avrebbe ingannata, era il tipo che rifiutava
piuttosto che dire sì e non presentarsi.
L’indomani,
quando le condizioni di Nadia erano drasticamente peggiorate, Katherine avvertì
la presenza di Klaus ancor prima che arrivasse sul pianerottolo. Aveva lasciato
la serratura aperta apposta per lui – come chi aspetta un amante, pensò.
L’ibrido entrò in
casa e si diresse verso la camera: la prima cosa che vide furono i capelli di
Katerina, seduta sul letto. La sua figura copriva quella stesa sotto le coperte.
Chi era il vampiro che voleva salvare a costo della propria vita? Se l’era
chiesto mille volte da quando aveva ricevuto quella telefonata.
«Sei qui» mormorò
la padrona di casa.
«Quanto tempo
resta?»
«Poco.»
Katherine si
voltò verso di lui senza preoccuparsi di mascherare il proprio dolore. Strinse la
mano di Nadia, che tremava nel sonno da almeno due ore, poi si alzò per far
posto a Klaus, che aveva mosso qualche passo verso il letto.
La somiglianza
tra le due donne lo colpì non poco. «Chi è?»
«Nadia Petrova.»
Si voltò di
scatto verso di lei. Non nascose il suo stupore nel sentire quel cognome. «Petrova.»
«È mia figlia»
gli si avvicinò cautamente. «Klaus, ti
prego, salvala.»
Troppe cose tutte
insieme, pensò l’ibrido fissando gli occhi scuri e supplichevoli della vampira.
Katerina che lo chiamava dopo averlo lasciato, Katerina che gli chiedeva aiuto,
Katerina che si arrendeva a lui, Katerina che aveva trovato sua figlia…
Katerina che sarebbe morta per sua figlia.
Quanti altri
aspetti del suo carattere c’erano da scoprire? Quante altre Katerina erano
sopite sotto le mille maschere che la vampira aveva indossato per cinquecento
anni?
Senza dire altro,
Klaus si sedette sul letto e si prese qualche istante per osservare il volto
della giovane Petrova. La somiglianza era davvero
notevole. Sentì il suo corpo scosso da altri tremori tanto forti da far muovere
tutto il letto, così si morse il polso e lo portò alle sue labbra.
Nel sonno, Nadia
bevve il sangue che le veniva offerto. I minuti successivi rischiarono di far
venire un colpo a Katherine, che scrutava il viso della figlia per notare il
più piccolo cambiamento. E ci fu il cambiamento.
L’incarnato della
vampira perse il colorito giallognolo, smise di sudare e la pelle tornò pian
piano liscia e perfetta come sempre. Il respiro si regolarizzò e i tremori
cessarono.
Con un enorme
sforzo, Nadia aprì gli occhi. Vide la figura di sua madre un po’ annebbiata, ma
si sentiva molto meglio rispetto all’ultima volta che era stata sveglia e
soprattutto cosciente. «Ce l’hai fatta…» sussurrò, stanca.
«Te l’avevo
detto, no?» Katherine le mostrò un timido sorriso e allungò il braccio per stringerle
la mano. «Dormi ora. Ti sentirai meglio.»
Nadia annuì,
chiuse gli occhi e si addormentò all’istante.
All’improvviso,
Katherine sentì su di sé il peso di quello che era appena successo. Aveva appena
ritrovato sua figlia e l’aveva quasi vista morire davanti ai suoi occhi. Sua figlia.
Le girò
pericolosamente la testa e si appoggiò al muro accanto al letto. Klaus si alzò
e la osservò come se la stesse studiando. Raramente l’aveva vista in condizioni
simili, di solito era sempre controllatissima in ogni situazione.
Come scottata dal
suo sguardo, Katherine uscì dalla camera da letto e si diresse di nuovo in
cucina. Aprì il rubinetto, riempiendosi le mani di acqua e passandosele sul
viso. Si sentì soffocare nel momento in cui Klaus la raggiunse nella piccola
stanza. È ora, pensò. L’avrebbe
uccisa.
Lui non disse
nulla, rispettò quel momento e attese che lei si fosse ricomposta. Una parte di
lui già fremeva di eccitazione per la vittoria: cinquecento anni a correrle
dietro e alla fine ce l’aveva fatta. Katerina Petrova
si era arresa. Era sua.
«Cos’hai
intenzione di fare ora?»
Tornata in sé,
Katherine si voltò verso la persona che aveva sperato di non dover mai più
rivedere fino alla fine dei suoi giorni.
«Reclamare ciò
che mi appartiene» rispose lui, con una tale intensità nello sguardo da far
vacillare la sua ritrovata sicurezza.
«Va bene» disse
lei, poi trasse un lungo respiro e chiuse gli occhi, pronta ad essere uccisa. Anzi,
no, prima torturata e poi uccisa.
Klaus si prese
qualche istante per osservarla: bellissima.
Era sempre stata tanto bella quanto pericolosa. Il senso di vittoria si
impadronì di lui. Avrebbe potuto dare una festa per celebrare la fine della
caccia più lunga della sua altrettanto lunga vita.
Sapeva cosa fare.
Girò intorno alla vampira, sfiorandole un braccio, la spalla, i capelli,
portandosi dietro di lei, che non mosse un muscolo. Si morse il polso e lo
spinse contro le sue labbra.
Katherine non
capì, ma non si ribellò e bevve il sangue che le veniva offerto – o imposto, la
differenza era sottile.
Con l’altra mano
Klaus spostò i capelli dal suo collo, si chinò, riempiendosi le narici del suo
profumo, posò la bocca sulla pelle bruna della vampira e affondò le zanne,
mentre spostava il braccio sui suoi fianchi e la stringeva e sé in una morsa
ferrea.
Katherine capì
cosa stava facendo Klaus. Una parte di lei avrebbe voluto opporsi, ma era
troppo tardi – e la parola era stata data, aveva detto qualsiasi cosa e non si sarebbe tirata indietro. Lui non le doveva
niente, eppure era lì, a mezza giornata dalla sua telefonata per salvare la
vita di una sconosciuta.
La bocca dell’ibrido
si staccò dal suo collo così come la mano venne allontanata dal suo viso. Senza
darle il tempo di reagire, Klaus si sporse in avanti, le girò il viso dalla sua
parte e la baciò.
Non era un vero
bacio, era la conclusione di quel piccolo rito. Katherine sentì il sapore del suo
sangue unito a quella di Klaus e la cosa la eccitò in un certo senso.
Quel contatto
durò relativamente poco. Lui la lasciò andare, si pulì una goccia di sangue col
pollice per poi succhiarlo tra le labbra, già tese nel suo famoso ghigno della
vittoria. Katherine si allontanò da lui di un paio di passi e cercò qualcosa
con cui pulirsi il collo.
«Goditi tua
figlia per il tempo che ti concedo, Katerina» sussurrò l’ibrido passandole
accanto. «Mi appartieni, ora. Saprò dove
trovarti ovunque tu andrai.»
Lei non rispose. Era
vero, adesso erano legati: avrebbero sempre avvertito la presenza l’uno dell’altro.
Era connessi telepaticamente. Se lui l’avesse chiamata, lei sarebbe corsa al
suo cospetto.
«Klaus» si voltò
quando lui stava per uscire dalla stanza. «Grazie.»
Osservò la sua
schiena per pochi secondi, prima di vederlo sparire.
In un certo
senso, Katherine aveva sempre saputo quali potevano essere le conclusioni del
loro gioco: la morte o la resa. E lei si era arresa.
Controllò nello specchio
del bagno che non ci fossero altre macchie di sangue sulla sua pelle né sui
vestiti, diede una sistemata veloce ai capelli, si stampò un bel sorriso sulle
labbra e tornò in camera.
Aveva sbagliato
una volta cedendo alla paura del ritorno di Nadia nella sua vita, non avrebbe
commesso due volte lo stesso errore. Era intenzionata a seguire il consiglio di
Klaus: godersi sua figlia. Loro due sole finché ne aveva la possibilità.