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Autore: DK in a Madow    17/06/2014    2 recensioni
Non per presunzione, ma aspirava a soggetti un po’ più interessanti della mela rossa lasciata sulla cattedra vuota. Così lasciò che il suo sguardo si perdesse tra i rami degli alberi del cortile dell’Accademia, osservando la rete fitta composta dalla pioggia, come la trama di una tela ruvida e ingrigita, che invece di risaltare i colori, li fa sbiadire.
*
1917
Un'esplosione di colori provocò un'enorme rovina di anime in quell'angolo di Parigi rimasto bohémien.
Due, in particolare, s'incontrarono, toccandosi così a fondo da fondersi.
Fino alla fine.
[Amedeo Modigliani/Jeanne Hébuterne]
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Dedo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diluvio

Parigi, Marzo 1917

In quella stanza, la quiete era dettata dal suo respiro.

Leggero, profondo, di sonno tranquillo. Dalle tende color avorio, la luce del sole filtrava come fili di lino, così sottile da sembrare il prodotto di un bel sogno. Quello che, molto probabilmente, lei stava facendo. Le guance tonde le si sollevarono colorandosi di rosa, con quell’espressione beata che solo i bambini riescono ad avere.

Perché, in fondo, era solo una bambina.

Sotto le coperte, si mosse piano, lasciandosi sfuggire un sospiro di disapprovazione non appena i suoi sensi tornarono a percepire il mondo reale, ormai svegli. Così, per paura di cambiare idea, rigirarsi nel letto e saltare un giorno di scuola, si sollevò di scatto e una ciocca dei suoi lunghissimi e incontrollabili capelli andò a finire sul naso pronunciato. Non se ne curò, mentre sbadigliava e si stiracchiava; spostò quei capelli solo quando si trovò di fronte allo specchio posto di fianco allo scrittoio, osservando la sua figura scura, poco esile e chiara per essere francese, ma si piaceva.

- Jeanne, svegliati!

- Sto scendendo! – urlò lei solo per farsi sentire, senza l’ombra di disapprovazione al richiamo della madre. Non sia mai.

- Onora il padre e la madre. – ripeté sottovoce – Come se fosse facile. – sospirò, per poi volgere lo sguardo alla finestra e andando a scostarne le tende. Fuori, Parigi esplodeva di colori. Sembrava che tutte le meraviglie del mondo si fossero catapultate nella capitale, come se avessero trovato, sotto quei tetti, il posto ideale in cui esprimersi, attraverso mani consumate dall’arte e sporche di vernice, proprietà assoluta di menti offuscate da vino, incubi e speranze.

C’est Paris, mon cher!

Tornò allo specchio, sistemando alla meno peggio quel groviglio assurdo di capelli che ormai arrivava ai fianchi e indossando qualcosa per tentare di essere presentabile, come avrebbe detto suo padre.

Scese giù, arrivando in cucina, situata in quello che era il quarto piano di un enorme palazzo abitato da famiglie alto-borghesi. Rispettabili, dignitose, ma soprattutto cattoliche! Suo padre si riservava la premura di ricordarglielo quasi ogni giorno, quando lei si presentava all’ora di pranzo col volto macchiato da una serie infinita di macchie di vernice, prodotto dei suoi studi all’Accademia Colarossi e merito di suo fratello (quello svitato, sempre suo padre) che la iscrisse lì dopo un breve periodo passato sotto gli occhi e le fantasie strambe di quel giapponese non tanto affidabile*. Fare la modella non le dispiaceva, le permetteva di entrare davvero in contatto con quell’arte che ora studiava seduta su sgabelli sui quali erano passati altri giovani come lei, convinti che l’arte si potesse studiare su un manuale e riportare sulla tela come una specie di schema, vuoto e privo d’emozioni. A lungo andare, però, restare immobile per ore di fronte a un uomo che tenta mille angolazioni, cambia i colori e cerca la luce perfetta, era diventato straziante. Così, ora si ritrovava nuovamente studentessa, ma lontana dal mondo da fiaba di Montparnasse. Lontana dall’arte.

- Mademoiselle Hébuterne! – la salutò la madre, non appena i suoi piedi superarono la soglia. Di fronte a lei, seduti al tavolo posto al centro della cucina tirata a lucido, i suoi genitori l’attendevano, la colazione ancora intatta. Niente di preoccupante, era una scena che si ripeteva ogni mattina più o meno da cinque anni, da quando il carattere di Jeanne iniziò a farsi sentire, come i tuoni in lontananza che annunciano un temporale. Eppure, quella pioggia liberatoria, tardava ad arrivare e non sarebbe mai scesa se prima non si fosse liberata di quella gabbia, formata più dai pregiudizi e dalle imposizioni genitoriali che dalle mura perfettamente bianche della sua casa.

- Mi domando quando inizierai a svegliarti ad un orario decente, figliola.

Figliola. Quel termine dolce suonava come uno sputo in bocca a suo padre.

- Papà. – sorrise lei, sedendosi a tavola e afferrando una fetta di baguette – Sai che a me basta essere in orario alle lezioni. – aggiunse addentandola – E comunque, bonjour!

- E vorrei sapere anche quando darai un taglio a quei dannati capelli. – continuò lui, iniziando ad infervorarsi, gli occhi della madre che saettavano dal marito alla figlia – Sembri una di quelle che scorrazzano per la Pigalle!

- Achille! – lo richiamò la moglie a denti stretti – Starai scherzando! – disse, come a voler prendere le difese della figlia che, invece, guardava il padre con occhi di sfida, portando un piede nudo sulla sedia e poggiando una guancia sul ginocchio, mostrando una gamba tonica che spostava la camicia da notte fino al grembo.

- E siediti composta! – esclamò lui, battendo un pugno sul legno del tavolo, gli occhi pronti a schizzare fuori dalle orbite, folli.

- È solo una bambina, mon cher!

- E smettila di difenderla, Eudoxie! – sputò fuori lui, lo sguardo di rimproverò che zittì la moglie, facendole abbassare la testa, gli occhi puntati sulla tazza colma di latte, ormai freddo.

- Padre. – sussurrò Jeanne sorridente, riportando entrambe le gambe sotto il tavolo – Dovresti sapere che arrabbiarsi di prima mattina fa male. – disse, allungando una mano sul tavolo per afferrare un uovo sodo e mordendolo senza un briciolo di grazia – E fa passare la fame! – aggiunse a bocca piena, prima di alzarsi da tavola e andare a stampare un bacio sulla guancia del padre, rimasto impietrito, incredulo di fronte alla solare insolenza della figlia che (e forse Eudoxie non aveva tutti i torti) in fin dei conti era davvero ancora una bambina. La guardò a bocca aperta, mentre spariva sulle scale, i capelli che ondeggiavano da una parte all’altra della schiena. Poi lei si chiuse dentro la sua stanza e velocemente iniziò a vestirsi. Non sarebbe rimasta un minuto di più in quella dannata prigione quella mattina. Avrebbe voluto urlare, piangere, far capire a suo padre che non si è una poco di buono solo perché si dipinge una tela, ma non le avrebbe creduto, nemmeno giurando davanti a Dio che nessun uomo aveva scostato l’orlo della sua gonna. Nemmeno quel depravato giapponese, col quale spesso era rimasta da sola, o il focoso spagnolo, o quell’altro italiano di cui non ricordava il nome, ma di cui aveva sentito solo parlare. Per suo padre, invece, la “sua” Jeanne non esisteva più e in casa sopportava quella che, secondo lui, era solo una sgualdrina, da maritare al più presto a qualche uomo col polso di ferro, ricco e cattolico.

- Dio, chiunque tu sia, liberami al più presto da tutto ciò! – sussurrò lei, volgendo per abitudine lo sguardo al crocefisso sopra il letto e, indossando la tracolla di cuoio e un cappello consumato, uscì per la seconda volta da quella stanza, assicurandosi di passare il più velocemente possibile di fronte all’uscio della cucina ormai vuota ma, appena arrivata alla porta d’ingresso, sentì una mano attorno al gomito. Sua madre.

- Jeanne.

- Mamma! – fece lei, raddrizzando il cappello.

- Mi chiedo quando imparerai … - esordì, ma la figlia le poggiò un indice sulle labbra. Sapeva cosa stava per dirle e non aveva intenzione di sentirselo ripetere.

- Papà deve farsene una ragione. Crescere non significa essere una poco di buono! – disse con tenerezza. Non le piaceva alzare i toni con la madre, poiché era stata sempre comprensiva con lei.

- Lo so, figliola, ma sai com’è fatto. – provò a dire, ma Jeanne la interruppe nuovamente.

- Lo so! – disse decisa – Ma ha già cambiato un Dio. Non vedo come non possa cambiare opinione su sua figlia!

- Non parlare così, Jeanne! – esclamò la madre sbalordita, ma senza l’ombra di rimprovero.

- Ci vediamo a pranzo, mamma! – sorrise la giovane, lasciandole un bacio sulla guancia – Sono in catastrofico ritardo!

- Come sempre. – sottolineò la madre, lasciandole un bacio sulla fronte, sotto il cappello. Poi guardò la figlia aprire la porta e che la salutava facendo muovere le dita, prima di vederla sparire con il più raggiante dei sorrisi illuminarle gli occhi.

In lontananza, sentì il rimbombare cupo di un tuono.

- Si bagnerà come un pulcino, disgraziata!

 

 

*

 

 

Un lieve grattare, fragile come la tela di un ragno. Nell’aria l’odore di vernice e pioggia, quella che batteva sui vetri delle finestre e quella che gocciolava dai capelli di Jeanne, seduta nell’ultima fila, posto riservato a chi arrivava in ritardo. Da lì era complesso disegnare il soggetto del giorno, posto al centro dell’aula, e solo i fortunati (o meglio, i meritevoli) arrivati in orario potevano permettersi il posto in prima fila.

A Jeanne, però, poco importava. Non per presunzione, ma aspirava a soggetti un po’ più interessanti della mela rossa lasciata sulla cattedra vuota. Così lasciò che il suo sguardo si perdesse tra i rami degli alberi del cortile dell’Accademia, osservando la rete fitta composta dalla pioggia, come la trama di una tela ruvida e ingrigita, che invece di risaltare i colori, li fa sbiadire.

- Mademoiselle Hébuterne!

È già la seconda volta, oggi! pensò.

- Sì Monsieur? – disse lei, voltandosi a guardare il suo insegnante, Monsieur Girard.

- Il soggetto è da questa parte! – esclamò, indicando la mela sul tavolo e facendo sogghignare i presenti.

- Lo so perf … - iniziò a dire, preparando una delle sue solite risposte velenose, ma venne interrotta bruscamente, così repentinamente che le sembrò di aver avuto una mano sulle labbra che le impedì di parlare. La porta dell’aula si era spalancata d’improvviso e ne era entrato un uomo completamente fradicio, affannato e, a quanto sembrava, non esattamente lucido. Si fermò un istante, stringendo gli occhi per guardare meglio dove fosse finito, e togliendosi il cappello dalla testa, si passò una mano tra i capelli bagnati.

- Bonjour! – disse, sfoderando un pesantissimo accento italiano e sollevando le ciglia con un’espressione buffa. A Jeanne ricordò un bambino, uno di quei mocciosetti che incontravi per le strade, tra le mani un sacchetto di monete e alle calcagna qualche oleoso e obeso banchiere, troppo lento e troppo idiota per stare dietro alla faccia furba del ladruncolo.

Jeanne non capì perché le diede l’impressione di un ladro. Non allora. Per il momento, le strappò solo un sorriso.

- Buongiorno a lei, Monsieur Modiglianì! – disse Girard, sconvolto.

- No, no, no! – disse lui, facendo oscillare un dito davanti alla faccia mentre si avvicinava all’insegnante – Si dice Modigliani! – fece, scandendo bene le parole e prolungando ironicamente le vocali – Non Modiglianì! – lo corresse, con un sorriso, prima di sfoderare una sigaretta, apparsa da chissà dove – Imparate a pronunciare bene il mio nome, monsieur, non sono tutti francesi sulla faccia della terra. – lo rimproverò infine, denti stretti attorno alla sigaretta e mani nelle tasche.

Jeanne lo fissava rapita, come se stesse assistendo ad uno spettacolo insolito ed irripetibile. Ecco come si chiamava. Modigliani! Il Maestro esiliato. L’italiano ubriacone e fuoco di molti letti francesi. Questo era tutto quello che sapeva di lui. Eppure, vedendolo così, le sembrò semplicemente geniale. Gliela leggeva nel sorriso l’arte, la scintilla. Le sembrò ancora più curioso quando, con occhi stretti, iniziò a muoversi per la stanza, il suo sguardo che si posava su ogni alunno in prima fila. Poi, prestò attenzione alla mela sul tavolo; così si sedette su di esso, afferrò il frutto e, dopo averlo fatto saltare nel suo palmo, lo portò alla bocca, addentandolo sotto lo sguardo scandalizzato dell’insegnante.

- Una mela! – disse, masticando a bocca aperta mentre le risate iniziavano a salire – Ai vostri alunni date da disegnare … una mela! – ma, a quel punto, la risata che superò le altre fu proprio quella di Jeanne, la quale rideva con una mano premuta sulle labbra e aspirando forte dal naso, gli occhi in lacrime mentre quelli dei suoi compagni si posavano su di lei, increduli.

Modigliani sorrise sotto i baffi e la guardò ridere, fino a quando non ebbe smesso, mordendosi le labbra.

- Ti faccio ridere? – le chiese.

Jeanne si sentì avvampare, nonostante nella voce dell’uomo non ci fosse ombra di rimprovero, ma semplice curiosità. E lei, che dell’infanzia conservava ancora la timidezza, annuì piano, portandosi le mani in grembo.

- Ho mangiato il vostro soggetto, che ci trovate di divertente? – disse lui, abbozzando però una risata di scherno che non piacque a Girard, che storse la bocca, offeso.

- Non era il mio soggetto. – rispose Jeanne, con un ghigno impertinente – Era solo una mela.

- E qual è il vostro soggetto, Mademoiselle? – chiese poi con voce profonda e roca, prima che questa fosse rotta da un colpo di tosse.

Jeanne non rispose, semplicemente mantenne quel suo ghigno, afferrando la tela che aveva di fronte con delicatezza e voltandola verso quella specie di pubblico improvvisato. Quando videro di cosa si trattava, le risate furono impossibili da trattenere per i presenti, tranne che per lo sconvolto Girard, il quale iniziò a balbettare parole di rimprovero alla vista del proprio “ritratto”.

- Mademoiselle Hébuterne! Come vi permettete! – gridò, puntando con un dito la propria testa pelata tramutata in una mela con le sembianze di un volto, con tanto di occhiali sul naso ed espressione arcigna.

- Suvvia, non prendetevela così tanto. – lo interruppe Modigliani – La signorina ha dato un’espressione diversa al soggetto! – disse, sventolando il torsolo della mela e lanciandolo alle proprie spalle, mentre non staccava per un secondo i propri occhi neri da quelli di Jeanne, la quale continuava a tenere il suo sguardo di sfida e un ghigno malefico.

Poi, la campanella annunciò la fine delle lezioni e Modigliani fu il primo ad abbandonare la stanza.

 

 

*

 

 

- Ottimo lavoro!

Jeanne sobbalzò, inchiodando.

- Maestro! – disse, spaventata, trovando dietro le proprie spalle Modigliani, sigaretta tra le labbra e capelli neri ormai asciutti.

- Oddio, no! Chiamami Modì! – disse, portandosi le mani sui fianchi con fare plateale – Tu sei testa di cocco**, vero? – domandò, stringendo gli occhi.

- Come fate a saperlo? – chiese lei sconcertata, ma la risposta gliela lesse negli occhi – Foujita!

- Sì, Nippo! – sussurrò facendo oscillare la sigaretta stretta tra i denti e roteando gli occhi – Dio solo sa se quell’uomo sa tenere a freno la lingua. – disse lui con tono provocante, ma quando guardò negli occhi di Jeanne trovò solo un profondo disorientamento. In altre donne avrebbe trovato malizia, sporcizia. Gli occhi di Jeanne, invece, erano campi di grano spazzati dal vento – Ti trovi bene qui? – le chiese poi, portando la sigaretta tra le dita.

- Voi che ne dite? – chiese lei, sollevata di potergli finalmente rispondere.

Non rispose. Anzi, sollevò le spalle – E chi lo sa cosa passa per la testa di una ragazza! – le sorrise, con tenerezza. La disarmò. Poi lui piegò la testa da un lato, il cappello tremò per un secondo ma non cadde. Osservandola, sembrava riflettere, quasi come se stesse cercando l’angolazione giusta che gli avrebbe dato l’esatta visuale sui suoi pensieri, fino a fargli dire: - Ma nessuna rosa starebbe al suo agio sotto una campana di vetro.

 

 

*

 

Corse, il fiato che abbandonava i suoi polmoni ad ogni metro, tornando poi come una tempesta una volta arrivata sotto casa. I pantaloni erano ormai una poltiglia di fango e acqua, i capelli arruffati e i piedi bagnati dentro gli stivali, ma sulle sue labbra splendeva il più raggiante dei sorrisi.

Venite a trovarmi, Mademoiselle Hébuterne! Il mio atelier è a Le Bateau-Lavoir.
Se non doveste vedermi, cercate tra le tele!

Rimase a bocca aperta mentre lo guardava allontanarsi, cappello in bilico e giacca sgualcita, ma anche il quelle condizioni, le sembrò di avere davanti il più carismatico degli uomini. Non che ne avesse conosciuti molti, eppure in quel momento le sembrò che non avesse bisogno di incontrarli per dire che Modigliani, Amedeo, era una qualche creatura divina persasi per caso nel mondo.

Ah, portate anche il vostro cappello. Se ce ne sarà bisogno, voglio essere io a toglierlo. Ho come l’impressione che ci nascondiate l’anima lì dentro, Mademoiselle.

Sentì il brivido di quella frase anche sotto quel portone, mentre la pioggia continuava a scendere. Come aveva fatto a leggerle dentro?

È per questo che ne portate uno anche voi?

Si fermò, dandole le spalle. Poi ruotò leggermente la testa, sulla guancia sinistra si rifletté la luce grigiastra che varcava la finestra facendo della sua pelle, coperta da una sottile peluria, un foglio sul quale le piccole e fitte ombre delle gocce di pioggia sembravano schizzi di vernice. Sorrise lieve, guardandola con quegli occhi scuri come perle nere. Poi girò la testa, prese a fischiettare qualcosa e se ne andò, perdendosi nel corridoio, con una camminata insolita. Sembrava camminasse sulle punte dei piedi.

Jeanne chiuse gli occhi, si portò le mani al petto. Appena sotto la pelle, era esploso un diluvio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Note:

* Tsuguharu Foujita, pittore giapponese trapiantato in Francia; quella con lui, fu per Jeanne Hébuterne la prima esperienza da modella.

** testa di cocco è il soprannome che fu affibbiato a Jeanne per la sua bellezza e suoi stupendi e lunghissimi capelli.

 

Angolo dell’autrice:

Salve!

Premetto col dire che sono nuova in questa sezione e, dopo molte fan fiction e una sola poesia, questa è la mia prima vera storia originale. Inutile dire quanto la storia di Amedeo e Jeanne mi abbia appassionato, specialmente dopo aver visto I Colori Dell’Anima e aver ascoltato Modì di Vinicio Capossela.

Questo è il risultato, una long “in quattro atti”, se così si può dire.

Spero non risulti banale e che magari vi invogli a lasciarmi una recensione, anche breve, per farmi sapere cosa ne pensate!

Un abbraccio,

Franny

   
 
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