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Autore: Jawn Dorian    19/06/2014    0 recensioni
Questa è la storia delle piccole vittorie di John Watson.
E parte tutta da un’unica, semplice, e all’apparenza nemmeno minimamente disastrosa, frase.
“Devi chiedere scusa a John.”
{ Post-The Empty Hearse }
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Lestrade, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Ogni Holmes deve avere il suo Watson'
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“Vieni con me al cimitero di Londra?”

John Watson non aveva un migliore amico normale.
Questo perché - non sapeva neanche come fosse successo - il suo migliore amico era diventato Sherlock Holmes.
E Sherlock Holmes non era il tipo di migliore amico che lo invitava a prendere una birra, né tanto meno quello che gli prestava la sua spalla per lamentarsi del suo frustrante lavoro o dei lati poco piacevoli della vita matrimoniale.  Non era giocoso né allegro, e non gli tirava su il morale con una battuta e una pacca sulla spalla.
Sherlock Holmes era il tipo di migliore amico che lo chiamava per un caso nel tardo pomeriggio quando fuori pioveva a dirotto, e gli faceva quella assurda ed insensata domanda.
“Vieni con me al cimitero di Londra?”
E John Watson era il tipo di migliore amico che, opponendo solo qualche simbolica resistenza, gli dava quella assurda e insensata risposta.
“E va bene.”

 

 
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Questa è la storia delle piccole vittorie di John Watson.
 Non vittorie conquistate sul suo adorato campo di battaglia, non vittorie gloriose raggiunte con le armi. Si tratta delle vittorie piccole all’occhio di chiunque, ma per lui così significative da ricevere un posto d’onore nel cuore.
Insomma, non si tratta di medaglie al valore, anche se si pongono comunque, calde e soddisfacenti, all’altezza del petto del nostro soldato.
Questa è quindi la storia delle piccole vittorie di John Watson.
E parte tutta da un’unica, semplice, e all’apparenza nemmeno minimamente disastrosa, frase.
“Devi chiedere scusa a John.”
 
 
Sherlock sviluppò il suo piano per chiedere scusa a John più o meno in ventiquattro ore.
Questa frase può suonare estremamente controversa per chi conosce Sherlock Holmes, ma non conosce la situazione a cui stiamo andando incontro. Bisogna quindi fare innanzi tutto il punto della situazione: Sherlock sviluppò un piano per chiedere scusa a John, ma non perché l’avesse deciso lui.
Non era stata una sua iniziativa, ovviamente.
Lui non credeva affatto che ci fosse bisogno di un piano per chiedere scusa a John. Ma ad essere franchi, non credeva nemmeno di dovere ulteriori scuse al suo ex coinquilino.
Per sua sfortuna, Sherlock era circondato da scocciatori che la pensavano molto diversamente.
E non solo quella mattina al Bart’s aveva costatato che Molly Hooper non l’aveva ancora perdonato del tutto per averla coinvolta nel ‘non dire niente a John, è una cosa assolutamente segreta’, ma ora gli toccava anche sorbirsi la predica di un Detective Ispettore che a quanto pareva non aveva niente di meglio da fare che prenderlo e trascinarlo a perdere tempo.

“Devi chiedere scusa a John.”
Greg tamburellava le dita contro il suo caffè. Lo guardava con l’aria da papà deluso dall’atteggiamento del figlio, ed era effettivamente ciò che si poteva tastare nell’aria: l’ispettore era deluso.
“Pensavo di essere qui per un caso” proclamò Sherlock, glaciale come suo solito. Perché effettivamente per lui una chiamata da parte di Lestrade non poteva essere interpretata in altro modo.
E invece si ritrovavano seduti in un bar noioso e semivuoto. Lestrade l’aveva praticamente trascinato – fisicamente, per altro, come fa un vero padre con un bambino capriccioso – contro il suo volere.
“Sono serio, Sherlock. Tu non hai davvero idea di che cosa ha passato John mentre tu eri via.”
“Gli ho già chiesto scusa.”
“Come no, pima di saltare in aria. Ottimo scenario. Sai, mi ha raccontato tutto, Sherlock…non penso sia esattamente un buon metodo per farsi perdonare.”
“Davvero? Allora come mai mi ha detto che mi perdona?”
“Oh…buon Dio!” sbottò ad un tratto Greg, mollando il caffè per portarsi le mani alle tempie “discutere con te mi fa venire il mal di testa, lo sai? Per quanto tempo dovrai atteggiarti da duro della situazione? Perché diavolo non scendi dal tuo piedistallo e non ammetti che John Watson è una persona importante per te?!”
Sherlock ingoiò a vuoto.
“Non pensi sia il caso di concentrarsi sul suo lavoro, ispettore? Questa per te è una perdita di tempo.”
“Io non credo proprio.”
Lestrade sorrise amaramente, scosse la testa con fare preoccupato, e poi portò un sorso di caffè alla bocca. Sherlock lo guardò con qualcosa di molto simile al rispetto e all’ammirazione, forse per la prima volta. Perché quell’uomo aveva un lavoro stressante, era divorziato, e nonostante questo trovava il tempo di aiutare John Watson e preoccuparsi di prendere per l’orecchio il suo migliore amico e discuterci solo per farlo stare meglio. E fu in quell’attimo che Holmes fu costretto a rendersi conto che quando lui non era lì per consolare John, invece Greg c’era sempre stato. Era stato un amico molto più presente ed attento di quello che era stato lui.
“Quindi, devi chiedere scusa a John.”
“Non ce n’è bisogno.”
“Vedrò di essere più chiaro…” l’ispettore gli posò – arpionò – una mano sulla sua spalla, e sorrise con fare decisamente ironico – spaventoso - e fu Sherlock Holmes in persona a notare che era assolutamente sincero mentre gli diceva – ringhiava- quelle esatte parole: “…sono stanco morto di guardarti fare i girotondi mentali, Sherlock. Se non chiederai scusa a John come si deve, potrei prendere in considerazione l’eventualità di ridurre la tua faccia ad un cazzo di scolapasta. Sono più che sicuro che in centrale sarebbero tutti pronti a testimoniare in mio favore. Stai pur certo che lo faccio.”
Fu a quel punto che Sherlock Holmes, come dicevamo, cominciò spontaneamente a sviluppare il suo piano per chiedere scusa a John.
 
***
 
 
Come Sherlock aveva previsto, John non aveva fatto domande mentre il taxi scivolava sulle strade bagnate di Londra per portarli al cimitero.
E, sempre come aveva previsto, aveva finalmente rotto il silenzio solo una volta che furono di fronte all’enorme cancellata.
 “Che cosa stiamo facendo qui, Sherlock?”
L’altro aveva tirato fuori un sorriso enigmatico che avrebbe affascinato chiunque, ma non John,  quel sorriso rendeva John davvero furioso. Il suo amico, senza rispondergli, aveva varcato il cancello e si era messo a camminare. E John, come al solito, gli marciò dietro.
Assaporò la pioggia alzando lo sguardo appena verso il cielo, mentre il consulente investigativo non accennava a fermarsi, e lasciava che sciarpa e cappotto si infradiciassero.
John a quel punto lo raggiunse.
“E’ per un caso?”
“Diciamo pure così.”
“Bene. Che genere di caso?”
“Un caso che ho lasciato in sospeso parecchio tempo fa, e che è il momento di chiudere.”
John sbuffò. Essere più specifici sarebbe stato di grande aiuto, ma si trattava di Sherlock. Quella teatralità era così tipica di lui.
“Proprio oggi? Proprio mentre piove a dirotto? Prenderemo una polmonite!” esclamò ad un certo punto il suo lato di medico, mentre con il colletto dell’impermeabile tentava di coprirsi almeno le orecchie.
“Credo ne varrà la pena.”
Qualcosa non quadrava.
 
 
 
“Eccoci arrivati.”
John era stato in guerra. Aveva visto dei posti orribili, dei volti dilaniati e delle facce cariche di rabbia.
Eppure, non un solo angolo delle trincee, non un campo pieno di morti o di feriti, non un filo spianto intriso di sangue, era mai riuscito a distruggerlo come aveva fatto quel posto.
Era decisamente il posto che odiava di più al mondo.
“Che cosa ci facciamo di fronte alla tua tomba, Sherlock?”
Non riuscì a mascherare la buona dose di rammarico con cui quelle parole uscirono dalla sua bocca. Lo sforzo di non sfuriare era evidente, così come la voglia di girare i tacchi ed andarsene all’istante.
John aveva perdonato Sherlock, ma quel dannato pezzo di marmo, quella stupida lapide, era il simbolo del suo tempo sprecato a piangersi addosso e di quello che per lui era stato un vero e proprio tradimento nei suoi confronti.  Perché – maledizione – aveva perdonato, ma non dimenticato.
“Andiamocene.”
Si stupì, John Watson, perché quella non era la sua voce. Era decisamente rotta. Qualcosa dentro di lui si era spezzato.
Non era più andato in quel posto, dopo il ritorno di Sherlock.
E, ovviamente, non aveva intenzione di tornarci di nuovo per nessuna ragione al mondo, ed era troppo.
Era troppo, perché per quanto Holmes avesse una conoscenza miserevole della natura umana, non poteva non capire che per John rivedere quella tomba equivaleva ad una tortura.
“Aspetta, John.”
“No, senti-“ la voce si ruppe di nuovo. John alzò l’indice e ingoiò a vuoto, schiarendosi la voce ed imponendosi auto controllo. “Ora noi prendiamo un taxi e torniamo a casa.”
Sherlock lo guardò. Quel suo sguardo che sapeva di cielo e di ‘scusami’ appena sussurrati, quello sguardo che aveva dedicato a ben poche persone durante la sua esistenza, e tra le quali John era certamente la più importante di tutte.
Senza dire nulla, agguantò qualcosa nella tasca interna del suo cappotto, e la tirò fuori.
Un martello.
“Cosa diavolo significa?”
“Mi sembra piuttosto ovv—“
Ovvio, vero? Dio, Sherlock. No, che non lo è. Non è affatto ovvio. Almeno abbi la decenza di spiegarmi cosa diavolo ci facciamo qui con questo freddo infernale, sotto la pioggia.”
Il detective curvò le labbra nell’ennesimo mezzo sorriso speciale che somigliava ad un indovinello, quell’indovinello che John non era riuscito in nessun modo a risolvere, in tutti quegli anni.
“Come potrai immaginare, questa lapide non serve più.”
“Sì, posso immaginarlo. Quindi?”
“Questa lapide, John, non ha motivo di esistere. Il suo proprietario è vivo e vegeto. Se gli oggetti potessero avere un anima, questa lapide non ne avrebbe più una, dato che non ha più uno scopo. In poche parole, sarebbe solo un involucro morente. Giusto?”
“Credo…sì?”
La pioggia si arrestò un poco. Le nuvole fecero traspirare un pezzo di cielo arrosato dalla sera, all’orizzonte.
La luce rossastra diruppe riflettendosi sulla pioggia.
Quello spettacolo mozzò il fiato a John.
Sherlock ne approfittò. Lestamente, mise tra le mani del medico quell’utensile, come si fosse trattato della bacchetta magica più potente sulla faccia della terra.
“John. Ti andrebbe di dare a questa lapide il colpo di grazia?”
“Cosa?”
Quello era un suono strozzato, più che una domanda. Non aveva mai sentito niente di più ridicolo.
“Si può mandare chiunque a buttarla giù—“
“John.”
Un altro sguardo eloquente colpì John nel petto. Le parole della sua psicanalista ora rimbombavano prepotenti nelle sue orecchie: ‘Quelle cose che avresti voluto dire, ma non le hai mai dette…dille ora.’ Sherlock stringeva il suo polso, come per invogliarlo ad usare davvero quel martello, e John si sentì impazzire.
“Cancella ogni traccia della mia morte. Sii tu a farlo, se la cosa può farti sentire meglio.”
“Stai zitto.”
“John, ti stavo per contattare tante di quelle volte, devi credermi. Ma non potevo lasciarmi andare, era ancora troppo presto.”
“Basta. Stai zitto.”
“I simboli per gli esseri umani sono così importanti. E tu puoi cancellare l’ultimo simbolo che mi rende morto. So che farlo può farti sentire meglio. Dimmi pure tutto ciò che ritieni necessario.”
“Per gli esseri— OH, BUON DIO, SHERLOCK! Parli come se tu non fossi umano!”
Sherlock lo guardò. A lungo, e intensamente, in uno di quei particolari momenti in cui i suoi occhi decidevano di cambiare colore e non erano più di ghiaccio, ma brillavano di mare dopo la tempesta.
Negli occhi di John guizzò l’ira, e alle sue gambe fu sottratto il passo deciso del soldato, per dare il posto ad una stabilità nulla, fragile e compromessa.
“Non lo capisci, vero? Non voglio più pensarci, non posso più pensarci! Non posso più pensare che tu non abbia sentito il minimo bisogno di evitarmi una sofferenza così devastante! Perché se c’era una cosa importante per me, Sherlock—“
“John—“
“Ho detto, STAI ZITTO!”

Il marmo è una roccia metamorfica composta prevalentemente di carbonato di calcio. Si forma attraverso un processo metamorfico da rocce sedimentarie, quali il calcare o la Dolomia, che provoca una completa ricristallizzazione del carbonato di calcio di cui sono in prevalenza composte e danno luogo ad un mosaico di cristalli di calcite o di dolomite.
Duro, solido, difficile da estrarre.
Per cui, come John Watson riuscì a scalfirlo con un semplice colpo di martello, rimarrà per sempre un mistero.
Mentre la pioggia londinese continuava a farsi beffe del suo dolore, John aveva davvero scagliato quello stupido martello contro la tomba.
“Mi hai lasciato solo per due anni!”
Un altro colpo.
“Mi hai lasciato ad elaborare il lutto della tua morte!”
Un altro ancora.
“Ho sofferto come un cane! Mi è crollato il mondo addosso! Ero convinto di morire anch’io!”
Un altro, e un altro, finchè finalmente la scritta intarsiata su quel marmo non fu rovinata, lacerata. Uno squarcio stava sul nome ‘Sherlock Holmes’.
“Sei tornato come se niente fosse senza chiedermi neppure scusa!”
Una botta, un’altra, ancora una. Colpi su colpi.
Finchè il marmo non fu rovinato, scalfito, scolpito quanto più a fondo si poteva.
A fondo, sempre più a fondo.
John rantolava ad ogni nuova ferita inferta alla lapide, gridava, digrignava i denti, strizzava gli occhi.
Sherlock lo guardava, fermo come una statua, austero ed immobile.
“John. Perdonami.
Un colpo. E un altro. Altri due inferti di fila.
“Sei un dannato bastardo, io—“
Respirò a fondo e forte. Il fiato mozzato. E Sherlock non seppe dire neanche osservandolo con tutta la sua attenzione, se quelle sui suoi zigomi fossero gocce di pioggia o lacrime.
Si fermò, con il fiatone.
“…ti ho già detto che ti perdono! Certo che ti perdono!”
 
 
 
 
Sarebbe stato opportuno un abbraccio, dopo quel turbine di emozioni. Ma Sherlock non era tipo da abbracci, e nessuno lo sapeva meglio di John.
Si sarebbe potuto parlare di come John aveva di nuovo calcato la parola ‘certo’ in una frase dove le certezze sarebbero dovute essere inesistenti.
Avrebbero potuto dilungarsi su come in quei due anni avessero sentito la mancanza l’uno dell’altro, o di come Sherlock fosse stato davvero bravo nel chiedere scusa, questa volta.
Magari John avrebbe potuto anche dire a Sherlock che spesso ingaggiava delle vere e proprie battaglie per tentare di renderlo umano. Ma non lo fece.
Finirono a ripararsi dalla pioggia sotto il tettuccio di una fermata dell’autobus, ridendo come due ragazzini che avevano appena suonato dei citofoni per poi scappare.
“E’ la cosa più ridicola che io abbia mai fatto, Sherlock. Davvero la più ridicola…”
“Devo darti ragione, questa volta.”
“Questa volta?” sorrise fugace “vuol dire che ti ricordi della nostra prima corsa?”
“Perché non dovrei ricordarla?”
In quel momento, nemmeno la pioggia poteva offuscare la luce immensa che sembrava sprigionare il sorriso di John.
In quella battaglia lunga anni per rendere Sherlock Holmes umano, John era il soldato più valoroso di tutti.
Questa era la storia delle piccole vittorie di John Watson.
 
***
 
Ciononostante, la storia non finisce qui.
Quante volte vi è capitato di dare troppa attenzione ad una storia per poi dimenticarne un’altra, più piccola ma ugualmente importante, che ne fa parte?
Il fatto è, che John Watson non era stato il primo ad ingaggiare la lunga battaglia per rendere umano il miglior detective di Londra. Certo, lui era l’unico a combattere in prima linea.
Ma oramai si era formato un vero e proprio esercito sgangherato.

“Allora?”
Greg aveva incrociato le braccia sul petto. Non poteva avere un’aria più paternamente spazientita di quella, e da una parte sapeva di star diventando ridicolo agli occhi dei suoi sottoposti nel ridursi a quel modo solo per fare la predica ad un presuntuoso di prim’ordine. Non gli importava più.
“Allora cosa?”
Sherlock non alzò neppure gli occhi dal corpo della povera Joan Straker, strangolata la notte prima.
Questo fece sbuffare Greg, ma non demorse comunque.
“Hai parlato con John, sì o no?”
“Parlo con John tutti i giorni.”
“Questo lo so. Intendo, gli hai chiesto scusa?”
Il moro si alzò di scatto dalla sua posizione accovacciata. Sembrò riflettere per un secondo, dopo di che si diresse verso l’uscita, senza dire una parola.
“Sherlock!”
“Forse ho l’assassino! Ma dobbiamo sbrigarci ed andare in centrale!”
“Ti ho fatto una domanda!”
Si bloccò sulla porta. Si girò lentamente, quanto bastava perché il Detective Ispettore potesse guardarlo negli occhi.
“Ti ringrazio, Greg.
Lestrade non si mosse da dove era. Rimase pietrificato, mentre Sherlock era sgusciato via dalla morsa del suo sguardo allucinato già da un pezzo, e probabilmente sarebbe arrivato in centrale molto prima di lui.
Ma non si mosse comunque.
“Oh, tu, bastardo.”
Il suo sorriso fu incredibile, ma nessuno lo avrebbe mai visto. Era un vero peccato, perché fu il sorriso più bello che qualcuno avrebbe mai potuto veder comparire sul volto del Detective Lestrade di Scotland Yard.
Ed è giusto parlarvene in questa storia.
Le piccole vittorie di John Watson non sono le sole degne di nota.
 
 
 
 
 






Note dell’autrice
Innanzi tutto, se avete già letto la prima storia di questa serie (‘May I have this dance’) vi sono molto grata, anche per le recensioni positive che mi aiutano davvero molto.
Poi, non so davvero cosa dire su questa cosa molto priva di un vero significato, se non che le scuse di Sherlock sulla metropolitana in The Empty Hearse mi sono bastate. Ma non so davvero fino a che punto sono bastate a John. Per cui, ecco un altro momento rivelatore di John sotto la pioggia.
Per quanto riguarda Greg, ho adorato il suo momento con Sherlock. Ma doro Greg in generale, e trovo giusto dargli altro spazio e soprattutto altri meriti.
Credo ci saranno bisogno di più meriti per tutto il nostro sgangherato esercito: Molly, Mary, la signora Hudson, Anderson (che ormai è parte della ciurma).
Little Victories è una canzone, che mi ha ispirato questa storia. La piazzo qua, perché secondo me ne vale davvero la pena.
( https://www.youtube.com/watch?v=JyzkWUNyfwQ )
Se sei arrivato a leggere fino a qui, grazie mille.
 
  
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