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Autore: aniasolary    19/06/2014    10 recensioni
Natalie Truman, diciannove anni, buone intenzioni e scarsa capacità a far andare le cose come vorrebbe, non ha paura della vita. Tra sogni difficili, l’amore per un ragazzo irraggiungibile, impropri pasticci e situazioni imbarazzanti, il desiderio di diventare grande e sentirsi grande si fa sentire, rendendo il suo nido famigliare sempre più opprimente.
Il mondo è ai suoi piedi.
Al tempo stesso, quel mondo può caderle addosso.
L’unico modo per affrontarlo è cominciare a camminare con le proprie gambe, sperando di non inciampare nelle sue stesse scarpe.
«Un po’ per volta, il dolore se ne andrà. Non dimenticherai niente, ma starai bene. È un po’ come ricominciare a scrivere una melodia, ma senza cancellare le note precedenti. Con l’esempio del vecchio, puoi metter su davvero qualcosa di nuovo e migliore.»
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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3.

Sono le nove di sera ed io vago per le strade di Liverpool come avrei fatto una notte di qualche giorno fa. Devo sembrare una scappata di casa, ma questa volta sono stati i miei genitori a mandarmi via,  con il solo intento di sfidarmi e vedermi tornare a casa con la coda fra le gambe.
«Oh mio Dio, Natalie? Che cosa fai in giro con quella giacca fucsia abbinata a quei pantaloncini rossi?»
Seguo la voce e la prima cosa che vedo è una massa di capelli biondi ribelli eppure splendenti.
«Pamela? Che fai qui?»
«Mio fratello ha voglia di gelato e sono scesa a comprarlo. Si può sapere che cosa fai vestita in quel modo… oddio, stai di nuovo scappando?» Ride forte, in un modo un po' secco, come se le fosse andata l'acqua di traverso. Con il tempo ho capito che è solo il suo modo di ridere di fronte alle cose incomprensibili.
«No, i miei genitori mi hanno dato il permesso. Cioè, mi hanno dato il permesso e mi hanno scacciata fuori. Solo che non so dove andare.»
Pamela scuote la testa come se avessi detto la cavolata più enorme del secolo. «Nat, sei impossibile,» mi dice, prendendomi per il braccio, e dalla sua voce traspare una durezza che scorgo solo quando sta per scoppiare in lacrime per rabbia e frustrazione. La mia Pam è forte come una vecchia corteccia, passa il tempo e lei diventa sempre più resistente, anche con le menate del vento. «Io a cosa ti servo?»
Abbiamo sempre avuto problemi molto diversi, ma lei è stata sempre capace di affrontarli meglio e non ha mai avuto vergogna di chiedere aiuto. Le manca l’orgoglio, ma non la gratitudine, l’altruismo sfrenato, e quella bizzarra allegria immotivata che la rende insopportabile ma unica, unica per sempre: la mia migliore amica.
«Pam, siete sette figli.»
«Mia madre è cattolica, come la tua.»
«Non c’entra, non c’è spazio. I pigiama party si fanno sempre da me, no?»
«Be’, staremo più stretti. È un motivo in più per continuare la dieta, » assente sicura.
«Tu a dieta?»
«Sì, per queste cosce qui.»
«Ma se sei praticamente perfetta! Fai addirittura la modella…»
Pamela sgrana gli occhi. «È una cosa amatoriale e sul mascara. Chi è che diventa famosa a fare la modella di mascara? Mi sento le ciglia tutte appiccicate per tutto il tempo passato a non chiudere le palpebre… per un momento ho creduto che sarei rimasta con gli occhi aperti per sempre…»
«Pamela civetta! »
«Ah, che simpatica!» Mi guida verso il marciapiede opposto. «Vieni con me, trottolina, non vorrei che tu finisca per trotterellare lungo la discesa.»
Questo è un colpo basso.
***
 «Natalie… non pensi che restare a Liverpool sarebbe più semplice? » mi chiede Pam mentre si passa sul viso una maschera rigenerante, assomiglia al grinch.
Mi rigiro sul letto, attenta a non schiacciare nessun marmocchio che mi dorme intorno. La mamma di Pamela è un abile sarta, e sul pigiama di ogni piccolo sta scritto il loro nome. Io sono fra l’angelo biondo Jess e la piccola peste Mara. Sul soffitto, Nick dei Backstreet Boys mi guarda in un modo seducente e al tempo stesso sereno. Pamela ha un’anima da adolescente anni novanta, anche se siamo cresciute negli anni duemila.
Io ascolto sempre Metal, invece. Mi sentirei fuoriposto ovunque e in qualunque epoca, eppure credo che mi vada bene così.
«No. Cioè, sì. Ma non mi va che mia madre possa venire a prendermi in ogni momento,» dico, scorrendo i titoli del giornale. «Cameriera. Si richiede ragazza intorno ai vent’anni per servizio ai tavoli.» Continuo a leggere. «Di bella presenza e… con una quinta di seno per riempire il grembiule.» Penso che mi stia per cadere la mascella. «Oddio, allora è vero quando dicono che trovare lavoro è difficile.»
«Non dovresti prima trovare una casa? » mi chiede, mettendo una rotella di cetriolo sull’occhio dentro. «Non vorrei che diventassi una barbona, e poi puoi usare la tua carta di credito per una settimana. Approfittane. Io lo farei.»
«Tu che faresti? »
«Cercherei di spendere tutti i soldi in una settimana facendo la bella vita con spogliarellisti cubani. »
«Tu vai sempre al dunque. »
«Tesoro, trova una casa. Un piccolo appartamento. Poi cerchi dei coinquilini. Londra è piena di persone che stanno messe male come te. Appena decidi ti accompagno alla stazione.»
«Grazie. »
«Anche peggio di te. »
«MA GRAZIE.»
***
È la terza volta che sono a Londra. La prima avevo sei anni: uno spettacolo magico a teatro, la mano di mamma sulla mia spalla per farmi restare al mio posto e tanto grigiore che sembrava vivo: strano e timido come un estraneo che ti guarda, e ti invita a fare qualche passo verso di lui, e sai che vuole solo raccontarti una storia. Fra la nebbia e i clacson, i biscotti alla cannella con il tè e il fish and chips, tra la ruota panoramica e il palazzo reale, Londra vuole sempre raccontarti una bella storia.
«Buonasera!» dico, e non riesco a non essere felice, anche se la mia vita qui non è ancora cominciata. Il locale quasi periferico è tutto in disordine, sedie ribaltate, donne sulla cinquantina che puliscono a terra con straccio, scopa e detersivo e una piccola tv che trasmette il nuovo video di Madonna.
«Sei tu la ragazza di Liverpool?» mi chiede una signora da dietro il bancone. Indossa una camicia fiorata e grossi orecchini dorati come l’eyeliner che ha sugli occhi.
Annuisco.
«Oh, bene. Sono la signora Faryland. Avvicinati e fatti guardare.» Mi avvicino a passi felpati, senza capire il vero motivo della sua richiesta. Poi la donna si mette gli occhiali e stringe gli occhi: cieca alla talpa maniera. 
Mi tasta le chiappe. 
Oddio, mi tasta le chiappe! 
«Mhm, sei ben messa.»La signora mi mette le mani sotto il mento. «Il posto è tuo.»
***
Il grembiule è rosso e tutto ricamato: non lo riempio con il seno – misera seconda dai tempi della prima media – ma tutto sommato non mi fa sentire orribile. Sono la più giovane, e qui siamo tutte donne. Ancora mi chiedo che importanza abbia il mio sedere, perché i clienti sono tantissimi anche se a prendere le ordinazioni è Nonna Paullina, sulla novantina di sicuro, e il fatto che questo abbia influito mi ha ferita. Non sono mai stata così bella, solo molto normale all'apparenza. Mi sono sentita stupida tante volte nella mia vita, ma andandomene di casa pensavo di dimostrare una volta per tutte di non esserlo affatto. Di essere Natalie Hanna Truman, e di diventare un po’ orgogliosa di me stessa, ma se devo affidarmi a questo vuol dire che la strada è ancora molto lunga.
«Natalie, le patatine al tavolo due. »
«Corro! »
Sono molto veloce, mi mancano solo i pattini. La signora Faryland ci osserva tutti con quei suoi occhiali che le fanno diventare gli occhi grandi come quelli di una mosca e sembra che ogni cosa in questo posto la disgusti, da noi che serviamo ai tavoli ai clientii.
«Non correre troppo, ragazza di Liverpool. »
«Natalie.»
«… di Liverpool. »
Qui i nomi non esistono.
«Uno sgarro e sciò sciò,» dice con un sorriso, imitando il gesto che si fa per scacciare le mosche. Penserà mai che nella mia testa sta scacciando una copia di se stessa?
«Figlia mia!» dice nonna Paullina, aggrappandosi al mio braccio. «Figlia mia! »
«Nonna Paullina,» dico, incerta. «Sono Natalie, vostra figlia è qui.»
Nonna Paullina, i capelli bianchi raccolti in una treccia ed enormi occhiali, slitta di poco verso destra e afferra il braccio di Suzanna, quarantenne dai corti capelli castani e lo sguardo dolce; si lamenta sempre di suo marito, un bambinone affezionato alla birra. Qui ognuno racconta la sua vita fantastica. «Figlia mia, ora svengo! Portami dal dottore!»
«Sono Suzanna, signora…»
Nonna Paullina prende la scopa accanto a Suzanna. 
«Figlia mia! Portami dal dottore! Madonna, quanto sei magra, ne hai bisogno anche tu! Oh, la pressione…»
«Oh, mamma. » La signora Faryland le si avvicina. «Sempre nei momenti meno opportuni, è quasi mezzogiorno! Andiamo… ragazza della montagna, controlla la ragazza di Liverpool, è nuova. Un aumento se tutto va bene! Quando torno mi racconterai.»
«Mi chiamo Suzanna!»
«Mi chiamo Natalie!»
La signora Faryland si chiude la porta alle spalle.
Suzanna sospira. «Lavoro qui da dieci anni e mi chiama ancora così. »
Sussulto. «Dieci anni?»
«Si, Natalie. Non è passato nessun bel ragazzo a salvarmi da questo lavoro, non siamo mica le ragazze del coyote Ugly.»
Scuoto la testa. «Pe me Ugly sì, ma coyote no.»
Una folla di persone anima il locale chiedendo cibo e bibite, come se l’assenza della signora Faryland avesse provocato chissà quale segnale di pace. La pace non c’è perché non si capisce più niente e regna il caos, sbaglio almeno due volte a portare le ordinazioni e sudo cascate di liquido d’ansia interiore. Un adorabile bimbo ricciolino mi blocca la strada, sul vassoio porto un piatto fondo colmo di zuppa al pomodoro fino all’orlo. «Scusa, piccolo, » gli dico sorridendo, per poi evitarlo e raggiungere il tavolo dieci. Ma il bambino si aggrappa al mio grembiule e si intrufolo fra le mie gambe. 
«Tu mutandine belle! Farfalle colorate sulle mutandine belle! » Mi si gela il sangue mentre il bambino mi tira giù il tessuto e oddio mio, il vassoio mi scivola dalle mani e cade a terra con un tonfo metallico e la zuppa al pomodoro sembra la prova lampante di un omicidio passionale.
«Natalie!» grida Suzanna.
«Mammina! » grida il piccolo, e corre fra le braccia di Suzanna mentre io lo guardo senza credere davvero a ciò che vedo, vorrei soltanto tornare a casa dalla mia, di mamma. 
Ma io non ho tre anni.
«Oh, Nat, che disastro… scusami, mio marito avrebbe dovuto tenerlo. Ora vado a pulire, Claire prepara dall’altra zuppa, tu vai a portare le patatine al tavolo tredici. »
Sospiro. Ho sonno e voglio andare a casa. Ma… non posso tornare a casa. Ho preso in affitto una pensioncina, e la lascerò presto per l’appartamento dove dovrei andare a vivere.
Vado in cucina, l’odore di fritto e grasso mi travolge, prendo il vassoio ed esco per andarlo a consegnare. Lo sporco a terra non c’è più, Suzanna tiene suo figlio in braccio e gli parla a voce bassa ma autoritaria, ed il bambino la guarda con le manine sotto il mento e gli occhi grandi ad ascoltarla. È evidente che sin da piccoli certi uomini hanno una naturale tendenza a togliere le mutandine.
Mi dirigo verso il tavolo tredici.
Ci è seduto un ragazzo dalla carnagione abbronzata e corti capelli neri; sta leggendo un giornale e una maglia a maniche corte gli lascia scoperte le braccia dai muscoli tesi.
«Ecco a lei la sua ordinazio…»
Scivolo sul pavimento bagnato che credevo fosse asciutto, perché non era qui che era caduta la zuppa e per favore qualcuno mi seppellisca qui sul posto, grazie.
Alzo la testa. Il mio capitombolo degno dell’ultimo volo del piccione che si è schiantato contro la mia finestra ha fatto andare tutto all’aria. La mia gonna, prima di tutto, mettendo il mostra le mie stilosissime mutandine blu con sopra disegni di farfalle esotiche: abbasso subito il grembiule, sentendo le guance in fiamme. E il vassoio delle patatine, dritto dritto sul pacco del ragazzo, che mi fissa con due occhi scuri che vogliono friggermi molto più di quanto lo siano state le patatine. Il piercing sul suo sopracciglio destro riflette la luce del sole, accecandomi.
Ho le lacrime gli occhi.
Sotto la nebbia del mio sguardo, tutto il locale mi fissa… Suzanna mi fissa. Suzanna, con due figli e un marito e un lavoro umile, Suzanna che aspetta un aumento da quando è stata assunta, e che potrà trovarlo solo raccontando la verità su di me. Perderò il lavoro e non avrò niente con cui pagare l’affitto di una casa e cominciare la mia vita e anche solo per respirare nel mondo degli adulti.
«Ehi… hai battuto la testa?» La sua voce  è interrotta da un caldo respiro; è bassa, come se fosse rimasto in silenzio pertanto tempo.
Mi irrigidisco fra le sue braccia; mi aiuta a sollevarmi e non lo aspettavo, non lo volevo, vorrei dargli la colpa per la mia distrazione, ma la do solo a me. Solo a me, perché ho pensato come una ragazzina, come qualcuno che ha lasciato davvero tutto alle spalle.
«No, no,» dico. Sospiro. «Sto bene. »
Mi aiuta a mettermi in piedi. Sono blu, i suoi occhi: un blu scuro che sembra nero, impenetrabile e al tempo stesso placido, come il mare dianother place.
Gli ho sporcato i jeans, proprio . Certo che ho una mira davvero fenomenale.
«Mi dispiace così tanto.»
«I jeans si lavano. Ne ho un altro paio di riserva,» sorride, a metà. Sembra che una parte del suo viso resti scontrosa, mentre l’altra, dai lineamenti duri come incisi nel legno, si illumina come l’alba e mi raggiunge ed è per me.
«Ragazza di Liverpool! » La voce della signora Faryland mi fa sussultare. «Ho dimenticato le chiavi della macchina, torno indietro… e trovo questo! »
Ora muoio.
«Non è come sembra…» dice il ragazzo accanto a me.
Un momento… che cosa? Il ragazzo mi lancia uno sguardo complice.
«Infatti, non è come sembra.» Faccio un profondo respiro. «Il ragazzo ha fatto una scommessa con… il figlio di Suzanna, sì. » Mi volto ed indico il bambino. «Vinceva chi avrebbe avuto il coraggio di mangiare delle patatine buttate a terra per mostrare di essere coraggiosi, molto di più di capitan Uncino che ha paura di un coccodrillo!»
Il ragazzo tossisce. 
«Io ho perso.»
I figlio di Suzanna sorride. «Io coraggioso, io vinco!» Corre verso le patatine per terra, si inginocchia e fa per metterne una in bocca. Gli fermo il polso appena in tempo. «No, è cacca!»
«Cacca su patatine?» chiede il bimbo.
«No, tutta cacca,» dice Suzanna, prendendolo in braccio da dietro.
«… oh,» esclama la signora Faryland. La sua espressione si indurisce. «Che aspetti, ragazza di Liverpool? Pulisci.»
«Certo,» sussurro, incapace di dire altro.
Suzanna mi passa un panno ed io comincio a raccogliere le patatine cadute e, appena alzo gli occhi, il ragazzo mi mette il vassoio in mano.
«Se vuoi qualcos’altro cerco di dartelo di nascosto e gratis,» gli sussurro.
Ora sorride con tutto il volto. «Sei molto furba, ragazza di Liverpool
Inclina la testa ed io perdo il respiro.
 «Non è il soprannome giusto, però, per una ragazza come te.»
Scuoto la testa. Raccolgo tutte le patatine e le butto nel cesto e, veloce, prendo il panno bagnato per pulire il pavimento, per la seconda volta in questa giornata.
«E qual è il soprannome giusto per una come me?»
Alzo gli occhi.
Ma lui è già andato via.
***
Sera inoltrata. Arrivo nel Southwest della città che sono quasi le dieci, ma il turno oggi è stato estenuante, una ragazza è uscita prima e, dopo il casino che ho combinato, non mi è sembrato molto furbo lamentarmi. Da lontano distinguo l’alto palazzo grigio in cui andrò ad abitare; il portone è tutto ricoperto da scritte di bombolette, parolacce, qualche numero di telefono e epiche dichiarazioni d’amore. Non riesco a fare a meno di sorridere di fronte a quest’idiozia e di fronte alla mia, perché sono qui, e perché l’essere qui mi sembra la cosa più divertente del mondo. Suono il campanello e il portone si apre, trascino dentro la valigia e mi avvicino all’ascensore, circondato da sbarre di ferro tutte arrugginite.
«Ah-ah! Ascensore non funzuona, devi prendere scuale, ragazzua di Liverpooul.»
Mi volto e, dalle scale, un uomo magrissimo, con il volto arrossato e i capelli biondi mi guarda con un sorriso che traballa dal divertimento alla stanchezza; è abbastanza brillo, di sicuro.
Trascino la valigia e comincio a salire le scale, l’uomo mi guarda senza muovere un dito.
«Sì, sono Natalie Truman di Liverpool.»
«Io ruesso. Zot, di san Pietrobuergo. »
Riesco a raggiungere il piano e l’uomo mi porge la mano libera… l’altra tiene una bottiglia di vodka.
«Un gueccio?»
«No, gruazie.»
Il signore mi accompagna al mio appartamento, fortunatamente al secondo piano. Apre la porta e mi fa entrare per prima: mobili semplici e chiari, un po’ rovinati, di sicuro vecchi. Ci sono due camere da letto, entro in quella di sinistra: un semplice letto in ferro battuto, una scrivania tutta colorata e un armadio a ponte. Alla finestra da cui mi affaccio per vedere la strada su cui cala la sera, una tenda dal merletto bianco, come l’abito di una bambola di porcellana, si vede che Londra d'estate non dorme.
«Affituo in anticipuo.»
«D’accordo, li prenderò dalla mia carta, » rispondo. «Ma ho intenzione di trovare almeno un’altra coinquilina. »
«Buona fortuona.»
Sospiro.
«Ne avrò bisuogno.»
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Ciao a tutti, lettori! :D Prima di tutto, ringrazio le fantastiche ragazze che sono state gentilissime a darmi il loro parere nello scorso capitolo <3 E grazie mille a chi inserisce la storia tra le Seguite, le Ricordate e le Preferite *-*
Sopravvissuta alla seconda prova, eccomi qui ad aggiornare :) Spero di non avervi deluso e che vi sia piaciuto, sapete che accetto sempre suggerimenti e consigli!
Rivedremo il ragazzo dagli occhi come il mare di another place?
Lo scoprirerete! :D
Grazie mille, a tutti voi.
Un bacione,
vostra Ania :3
 
   
 
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