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Autore: twistedthicket1    19/06/2014    1 recensioni
A John va bene annegare.
Sono quasi tre anni, e nonostante gli altri possano non concordare, si accontenta del fatto che non sarà mai completo.
Non c’è nulla di cui vergognarsi, va bene essere rotto. Convinto che nulla lo aggiusterà, si arrangia con ciò che ha. Cerca di andare avanti.
Quasi ci riesce.
Cosa succede quando Sherlock Holmes ritorna, ed entrambi realizzano che è il suo ritorno, e non la sua morte, che potrebbe mandarli in pezzi?
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Eeeebbene sì, eccovi anche il secondo capitolo con una velocità che credo non rivedrete mai più, quindi rallegratevene u.u Volevo annunciare solo che siamo a metà dell’opera, ovvero c’è un altro capitolo e poi l’epilogo. Ora, buona sofferenza, ma presto ne saremo fuori o^o Ciaociao <3
 
 
 
 
 
 
 
I can breathe, I can breathe
Water, water
I can breathe, I can breathe 
Water, water
When you're here with me 
You're not here with me
  Can I pry your finger
From everything I
Say and do?   ~ Iko, Heart Of Stone

 


 
Due settimane.
Tra le gocce di pioggia che picchettano con insistenza alla finestra e il battito irregolare del suo stesso cuore, John non sa se è stato del tutto in grado di prendere una decisione. I giorni si confondono insieme, e come uno studente del college che si rende conto di una scadenza imminente all’orizzonte, continua a scacciare la decisione da davanti la sua mente finché può affrontarla dopo. Lasciando che l’acqua scorra sulla sua pelle senza agitazione. Continua a dirsi domani, affrontala domani.
 
Domani si trasforma facilmente nel giorno successivo, si scoglie nella mezzanotte prima che John possa anche seriamente prendere in considerazione di lasciare l’appartamento. Prima che possa riuscire a non urlare nel momento in cui si sveglia.
 
Perché questo è un incubo, e se si piega a ciò che realmente vuole fare, lo renderà reale. Spaventosamente reale. Significherebbe che la vita che ha vissuto per quasi tre anni, tutto il dolore e la paranoia e l’intontimento e il dolore sono stati una bugia.
 
Come?
Com’è possibile che ciò che ho pensato sia così sbagliato?
 
Tu vedi, ma non osservi.
 
Quasi trasale quando quel brontolio sussurra nel suo orecchio, distogliendolo dall’assente contemplazione del suo tè. Si è raffreddato, ma a John non interessa. Non importa, almeno non quanto il ricordo che gli balena davanti agli occhi. Correre nella fredda aria notturna, il petto piacevolmente indolenzito per l’immissione di ossigeno ghiacciato. Potrebbe far male, se non ci fosse stato un punto di luce che lo spingeva, che lo trascinava nell’ignoto. Non è spaventato, quella mano è forte, inflessibile. Possessiva. Grida non ti lascerò andare, mentre John  è guidato tra vicoli contorti, il tintinnio di manette d’argento che sbattono tra loro. L’immagine fa agitare lo stomaco del dottore, e posa la tazza con un rumore secco e si alza. Scacciando l’immagine come una maledizione, si porta alla finestra, strattonando parte delle tende.
 
La macchina è ancora lì, nera e anonima. Paziente. Sputa fuori un mormorato “Fanculo.” Modera il respiro prima di rilasciarlo, girandosi per tirare un pugno al muro con una forza così violenta che John sente le nocche far male. Si tiene la mano, prendendo respiri bassi e profondi attraverso la bocca. Il suo cuore martella, pulsando nelle orecchie. Non l’ha sentito battere così forte per mesi, e sembra orribilmente ironico che per la prima volta, vorrebbe solo tornare a essere intorpidito.
 
Perché questo, questo così tanto più male.
John si morde il labbro abbastanza forte da poter assaporare il sangue, ferroso e vivido nella sua bocca. I suoi occhi blu scivolano fino a chiudersi, la fronte si appoggia al braccio, quando considera le opzioni che ha davanti, a stento credendo che davvero sta accadendo. Quasi chiama Mary per chiederle la sua opinione, ma una sensazione di tensione nel suo petto lo ferma dal prendere davvero il telefono. Sembra qualcosa che non può dire, neanche a lei, nonostante le abbia precedentemente detto di Sherlock.
 
In realtà è perché le ha parlato di lui, che le sue dita esitano a muoversi. Ultimamente, aveva iniziato a parlarle del suo passato, aprendosi lentamente con la sua presenza gentile e il suo supporto. Mary è la prima persona con cui si sentiva a suo agio a parlare di Sherlock dopo molto tempo,  da quando inizialmente i media erano diventati inconfutabilmente aggressivi nel cercare di accaparrarsi il dottore per un’intervista. Ha problemi di fiducia, e probabilmente li avrà sempre, ma i reporter li avevano aggravati. L’avevano portato ad un punto di rottura, finché per John non era diventato a stento possibile scambiare poche parole con la gente, figurarsi divulgare segreti personali.
 
E aveva donato a Mary il più grande segreto fra tutti durante il loro ultimo incontro, durante il quale aveva decantato con triste passione la folle brillantezza del detective.
 
Quando lo abbracciò, con le dita che accarezzavano gentilmente i suoi capelli mentre erano stesi a letto, John aveva finalmente ceduto.
Ranicchiandosi vicino a lei, le labbra contro la sua spalla, finalmente si era permesso di sussurrare cosa l’aveva consumato dal momento in cui aveva assistito alla morte di Sherlock, cosa ancora lo consumava.
 
Cosa gli sta facendo rimettere la giacca e afferrare il suo bastone.
 
Io lo amavo.
Io lo amavo così… così tanto, e lui non lo saprà mai.
Lui non saprà mai quanto significava per me.
Quanto ancora ha importanza, per me.
 
Alla fine, John sale sulla macchina. Non appena lo fa, le parole della sua terapista echeggiano nella sua mente.
 
Lasciati andare John. Devi solo lasciarti andare.
 
Ma non può, e non l’ha mai fatto.
Perché se si lasciasse andare, affogherebbe. Il peso della sua esistenza in un mondo senza Sherlock Holmes lo trascinerà giù, la pressione gli incrinerà le costole e gli spezzerà il cuore. Lo lascerà a soffocare.
Il calore di quella mano smetterà di raggiungerlo nei suoi sogni, e tutto quello che rimarrà sarà il freddo.
 
****
 
La centrale elettrica in cui è portato lo lascia con ricordi nostalgici. La riconosce senza neanche dover riflettere, conoscendo  il corridoio vuoto in cui cammina perché l’ha percorso molte volte nella sua mente, chiedendosi se avrebbe potuto cambiare il passato se avesse camminato diversamente. E’ il magazzino nel quale si è confrontato l’ultima volta con Irene Adler, e il posto in cui l’aveva pregata di rivelare al suo migliore amico che era sopravvissuta. I muri stessi sembrano salutarlo con un’eco, richiamandogli le parole scambiate, sussurrandogli nell’orecchio con la sua voce.
 
Non siamo una coppia-
 
Sì, lo siete.
 
per la cronaca- se a qualcuno lì fuori ancora importa, io non sono gay.
 
Beh , io lo sono. Guardaci.
 
A questo punto deve chiudere gli occhi, perché le parole che vengono dopo non sono quello che vuole sentire. Ciò di cui ha bisogno.
 
Quando li riapre, è nella stanza principale. Per un attimo si guarda intorno, ammirando la solida infrastruttura dell’edificio, le mani nelle tasche, rifiutandosi categoricamente di guardare avanti. C’è silenzio mentre è in piedi da solo nell’ombra delle mura, l’intero corpo è illuminato con le tonalità d’argento della luce che riflette sull’acciaio.
Sente qualcuno inspirare, troppo forte dato che John vuole credere di essere solo.
Che questa è stata tutta una grande bugia. Un ultimo scherzo per far davvero andare John avanti. Un ultimo tentativo di farlo ridere per quanto questo mondo sia contorto.
 
Invece, la sua testa si gira controvoglia verso il rumore, il respiro gli muore nel petto quando una figura familiare appare da dietro un pilastro. John sente il sangue nelle sue vene congelarsi, minacciando di non scorrere mai di nuovo. Il cuore si restringe nel petto, le mani si serrano in aria, improvvisamente sperando di avere un bastone a cui appoggiarsi.
Non riesce a respirare.
 
Perché lì, proprio lì c’è la prova per cui si era contestato tanto a lungo, la ragione di tutto il suo dolore e tutta la sua sofferenza per quasi tre anni. La fonte di tutta la sua agonia e di ogni grammo di gioia che abbia avuto nella sua vita da adulto.
L’inizio e la fine.
 
Sherlock.
 
E il detective era lì, i ricci un po’ più indomiti del solito e la faccia un po’ più pallida dell’ultima volta, ma molto viva. Così tanto viva.
 
Fa più male di quanto potrebbe aver mai immaginato.
Come se un chiodo di ferro fosse stato portato al suo collo, è angosciante.
Perché Sherlock lo guarda, e sul suo volto non c’è uno “scusa” o un qualunque segno di dolore. C’è semplicemente un’aspettativa, una consapevolezza che fa sentire John come calpestato da un rullo stradale. Le labbra del detective si alzano in un ampio sorriso, e lo guarda senza traccia di nervosismo quando parla. La sua voce è cucita con orgoglio, come se avesse fatto qualcosa di davvero notevole ed eccezionale.
 
“Finalmente sei venuto.”
 
John Watson vuole morire.
 
****
 
La prima volta che John aveva incontrato Irene Adler, aveva odiato il modo in cui manipolava Sherlock. Soprattutto, sarebbe potuto sembrare gelosia, ma inizialmente il medico militare era stato solo furioso per il modo in cui la dominatrice giocava col cuore del suo migliore amico. Nonostante John stesso non possa dire di non aver impersonato la parte di Casanova (Tre Continenti Watson era uno scherzo diffuso nell’esercito) può tranquillamente dimostrare che non è mai stato tipo da giocare con le emozioni degli altri. C’è qualcosa di decisamente sbagliato nell’idea, non era mai andata d’accordo col medico militare e mai lo farà.
Manipolare volontariamente l’affetto di una persona per guadagno personale.
 
Per lui, è qualcosa che non può essere perdonato.
 
Solo che adesso sembra che l’uomo di cui ha sentito la mancanza così a lungo, la persona che involontariamente amava più di tutto, stia essenzialmente facendo la cosa che John non può assolutamente perdonare.
L’ha preso in giro, e ora sta lì come se non ci sia nulla di cui preoccuparsi al mondo, mentre i suoi ricci scuri brillano leggermente alla luce. Come se fosse sempre stato lì, invece che così tanto fuori dalla sua portata. Invece che un fantasma al confine della vista del dottore.
 
Ora, gli angoli della sua visuale diventano rossi. Pulsano, ronzano.
Lo pervadono incontrollabilmente, rubandogli il respiro.
 
Perché qui c’è la conferma alle sue peggiori paure.
I suoi incubi.
 
Sherlock non è morto.
No.
Sherlock se n’è andato.
 
E improvvisamente, tutto si inclina, e deve reggersi perché le sue ginocchia si sono indebolite. Si ranicchia per la sorpresa quando due mani forti si avvicinano come per sorreggerlo, scattando lontano dal tocco del detective come se fosse fatto di elettricità. Una scossa.
 
“No!”
 
Gli esce dalle labbra.
E in qualche modo, è quello che continua a ripetersi, anche dopo che Sherlock si allontana.
John si piega su se stesso, il torpore lo abbandona, sostituito invece da un dolore ardente che brucia l’interno delle sue ossa.
 
“No. No, no,no,no,no Cristo No-”
 
E le mani sono su entrambi i lati della sua faccia, descrivendo cerchi contro le sue tempie per calmarsi, la loro freddezza congelava la sua pelle accaldata. Quegli occhi blu-verdi si rivolgono a lui con una familiarità che i due uomini non hanno più, non l’hanno avuta per molto tempo, e la voce di Sherlock è ferma e sicura. John odia come vi si sofferma per calmare il suo panico.
 
“Shh, è okay-”
 
John a mala pena realizza di aver tirato un pugno all’uomo finché quei ricci scuri non volano indietro, un taglio germoglia tra le labbra di Sherlock, sula guancia spunta un pallido e promettente rosa. Diminuisce un po’ del rosso nella vista di John. Si lecca le labbra e stringe il pugno per trattenersi dal colpirlo di nuovo. Al contrario si alza instabile, indietreggiando per riprendere fiato.
 
Sembra che non riesca per nulla a pensare, e quando i suoi rantoli ricominciano a intopparsi, Sherlock allunga la mano come per toccarlo, ma sembra ripensarci dato l’ultimo risultato. La sua voce è dello stesso tono basso, irritante.
Comprensivo.
 
Ma non è più lenitivo per John, perché l’ultima volta l’aveva sentito  quando stava crollando e gli stava dicendo addio.
 
“Va tutto bene adesso, John, è okay-
 
NO NON LO E’! NON E’ OKAY!”
 
La sua voce rimbomba e rimbalza attraverso l’edificio, suonando metallica alle sue orecchie, assordante. Quasi assordante quanto l’immagine che vacilla dietro le sue palpebre ogni volta che le sbatte.
 
Sono un falso.
SHERLOCK!
Addio, John.
 
Cristo… Dio, no…
 
Sbatte le palpebre, e l’immagine si scioglie, mostrandogli l’uomo che è stato la luce ricorrente sia dei suoi sogni che dei suoi incubi per quasi tre anni. Come la sabbia che passa per un setaccio, i suoi ricordi si sbucciano, livello dopo livello, la prova schiacciante è troppo forte per trattenerli.
 
E improvvisamente John realizza che guardare la persona che ami suicidarsi non è stata la cosa peggiore, no. La cosa peggiore è realizzare che la persona che hai amato ti lascia volentieri credere di essersi suicidata solo per vincere un Gioco.
 
Perché è questo che sussurra nell’orecchio di John, la voce di Moriarty che canta. La follia è come degli allarmi che gli suonano in testa.
 
Basta giocare, Papino ne ha avuto abbastanza!
 
E’ troppo.
Dio, è troppo. E poiché John ha imparato ad affrontare le sue emozioni scacciandole, è quello che fa. La sua schiena si irrigidisce, costringe il suo respiro ad appiattirsi. Nella sua testa, il consiglio del militare per respirare sotto stress si ripete come una canzoncina.
 
Quattro Quattro Quattro. [1]
 
Si appoggia al suo bastone, ma non lo lascia diventare una stampella. Lentamente, si gira a fronteggiare l’uomo di fronte a lui, alza il mento con aria di sfida, gli occhi azzurri brillano. Sherlock si alza in piedi, massaggiando il livido che gli sta già spuntando sulla mascella, gli occhi verdi si assottigliano vedendo che John non è per nulla calmo ma anzi, emotivamente morto.
 
E’ scritto nei suoi occhi, nella loro oscurità. E’ bisbigliato nel modo in cui guarda attraverso il detective invece che lui direttamente. E’ detto dal modo in cui la sua mano non trema più, ma la sua gamba non più ancora sopportare il suo intero peso. Per la prima volta, Sherlock Holmes vede il John Watson che è stato creato in sua assenza, e si ritrova a guardare nello sguardo fisso di uno sconosciuto. No, non creato, ritornato. Perché è il John dai suoi giorni di guerra, schiena dritta come un bastone, sull’attenti, e occhi che passano velocemente su tutte le uscite, prima di poggiarsi su Sherlock.
L’assottigliarsi dello sguardo dice soltanto una cosa, e non è una promessa di amicizia.
 
E’ la sfiducia data a un nemico.
 
Sherlock si trova solo in compagnia dell’unica persona per cui ha sempre aspettato di essere in grado di tornare.
 
Aveva sempre sperato di no.
 
Ora, nota che forse avrebbe dovuto tenere in conto qualcosa di cui si preoccupava raramente.
 
Dolore.
 
Perché John Watson sta soffrendo, e lo urla in ogni arto, in ogni punto, in ogni giuntura del suo corpo.
Così tanto dolore che il detective si chiede come possa ancora stare in piedi.
 
Anche John se lo chiede, tra sé e sé.
 
E’ anche più sorpreso di sé stesso quando riesce a parlare.
 
“Tre anni. Tre fottuti anni-
La gola gli si serra, delle emozioni bollenti gli bruciano gli occhi quando si abbassa per guardare il pavimento e prendere un respiro traballante.
 
Sherlock rimane accuratamente neutrale. Il volto è una maschera di ghiaccio. Dentro, sta contando ogni ferita che si è fatto in questi ultimi tre anni. Catalogando mentalmente ogni taglio, ogni osso rotto, ogni tortura che gli è stata fatta.
 
Percepisce comunque che John appare più emaciato, la sua espressione più ferita. Ma il detective se n’è andato per tre anni, e ha imparato ad essere distaccato. Ha imparato ad essere obbiettivo. Malgrado Mycroft l’avesse relativamente reinserito nella società, le barbarie del mondo ancora dolgono sotto la sua pelle. Come una pulsazione. Come vernice rossa.
 
Così dice cosa per primo gli viene in mente, ed è tagliente e crudele e lui lo sa, non appena lascia la sua bocca.
Accusatoria come un coltello.
 
“L’ho fatto per te.”
Quello che intende è
Lasciami spiegare. Ti prego lasciami spiegare prima di guardarmi così. Ho fatto così tanto e sono stato via così a lungo, e voglio solo stare di nuovo accanto a te.
 
Un tempo, John sarebbe stato capace di vederlo.
Ora è troppo arrabbiato.
Troppo furioso per il modo calmo e controllato con cui quest’uomo sta affrontando la sua miracolosa rinascita. John sbuffa, distogliendo lo sguardo. I suoi occhi sono freddi.
 
Sherlock inarca un sopracciglio scuro. Realizza che potrebbe dover spiegare di più. Ma questo non è il luogo. E’ freddo, e John non sembra appropriatamente vestito. Il cappotto che indossa è logoro, e il detective può affermare  che il rivestimento interno è anche messo peggio dal modo in cui il medico militare trema.
 
Voltandosi, decide che questa conversazione può essere ripresa nell’appartamento.
Lo dice con disinvoltura, non si aspetta la risposta che segue.
 
“Credi ciò che vuoi. Forza, stiamo tornando a casa.”
 
Io credo in Sherlock Holmes-
 
No.
 
La parola resta sospesa fra di loro, e per un attimo, entrambi immaginano che non sia mai stata detta. Poi gli occhi di John si chiudono, e vede sé stesso, cosa quei mesi l’hanno reso. La testa del detective scatta, gli occhi chiari si spalancano di una piccola sorpresa e confusione. Ma John non è mai stato più concentrato in vita sua. La sua voce è priva di incertezze, le spalle si fanno in una posa rigida da soldato appena rifiuta di distogliere lo sguardo dalla faccia di Sherlock. La sua mano sinistra gli trema al lato. Perché è questo quello che è, quest’uomo a pezzi, e la persona da incolpare è in piedi proprio di fronte a lui, completamente senza rimorsi.
Pietra.
Freddo e distaccato.
 
E John ricorda, e questo lo uccide, sapendo quante volte era crollato per questa statua immobile.
 
Quelle settimane in cui non faceva nient’altro che star fermo, le ore che ha passato stringendo quell’inutile teschio sul camino come un portafortuna, passandogli il proprio dolore sfregando la punta delle dita. Ricorda una notte, quasi un anno dopo la morte di Sherlock. Quando la sua pistola era sembrata incredibilmente tentatrice, scintillando sul suo cassetto. Come le sue mani avevano tremato quando l’avevano afferrata, e come l’unica cosa che l’aveva fermato dall’andare in fondo era stata il pensiero che Sherlock non avrebbe voluto che se ne andasse così.
E John vuole odiarlo. Non vuole nient’altro che disprezzare l’uomo d’avanti a lui, dal profondo di sé stesso. Il suo sangue ribolle, minaccia di straripare.
 
E potrebbe riuscirci, se potesse parlare prima che Sherlock apra la bocca. Così John dice quello che gli passa per la testa , sbotta per coprire qualunque risposta scioccata il detective stia per rivolgergli. Taglia brutalmente fuori tutte le sensazioni di affetto, mettendo solo benzina sul fuoco che divampa nel suo petto e urla per divorare tutto. Il fuoco che prima era stato spento dal dolore.
 
“Tu… tu non hai idea di cosa mi hai fatto passare.”
 
Sherlock lo guarda, i suoi occhi sono stranamente sbarrati e vulnerabili. Sembra che voglia parlare, ma John non glie ne dà occasione.
Non più.
Non lascerà più che Sherlock abbia l’ultima parola.
 
Questo è il suo addio, e d’un tratto non vuole nient’altro che assicurarsi che il detective non lo dimentichi mai, che non sia mai in grado di cancellare il suo sguardo stanco per il dolore dal suo stupido Mind Palace.
 
“Ho pianto per te, Sherlock. Ti ho guardato saltare da un dannato palazzo, sono stato tutto il tempo a singhiozzare a me stesso che tu non eri un falso. Ho visto il tuo sangue farsi una pozza sul pavimento, mi ha sporcato i vestiti e le mani, e per quanto le lavassi non riuscivo mai a renderle pulite. Ho vissuto per tre anni. Tre dannati anni convivendo col pensiero che non avrei più potuto parlarti-”
 
“Moriarty-”
 
Sherlock gracchia, ma John gli urla contro, rifiutandosi di sentire mai, mai più quel nome.
 
“Non ci provare!
 
Sherlock si zittisce, le sue labbra si stringono in una linea chiara. Il detective, intimorito dal soldato invalido. Nonostante John sia più basso, improvvisamente sembra riempire la stanza con la sua presenza, costringendo l’uomo più alto a ritirarsi per la sua collera senza freni. Ricorda quanto si è sentito debole nell’ufficio di Ella, vuoto.
Pensa a come non possa neanche baciare Mary senza vedere il volto di Sherlock, senza sentire la sua voce nelle sue sottili battute.
 
Pensa a come quest’uomo gli abbia portato tutto via, persino la sua vita.
Soprattutto, pensa a come non si ridarà mai al detective, mai più.
No.
Mai.
 
“E mi rifiuto, mi rifiuto di lasciare che mi senta di nuovo allo stesso modo.”
 
Sherlock è silenzioso, apparentemente spaventato e caduto nel mutismo. E’ un inizio. John vorrebbe quasi ridere. Invece sospira, il respiro lo lascia in un’unica corsa.  Si accascia in avanti, appoggiandosi al bastone mentre le sue dita svolazzano sulla maniglia, rigida alla sua presa.
Gli occhi azzurri si fanno freddi per l’intorpidimento, l’invadente sensazione di affogare ritorna, concedendogli per grazia divina di dire cosa doveva dire dopo.
 
Cosa doveva dire da molto,molto tempo, ma non c’è mai riuscito.
 
Cosa mormora nonostante sul suo cuore si stiano di nuovo creando delle crepe irreparabili.
 
“Per quanto ne so, tu sei morto quel giorno.”
 
E Sherlock lo guarda, sbiancato, le sopracciglia tese in un’evidente confusione e lieve disagio. Ma a John non importa, perché se ne sta già andando. Se ne sta già tagliando fuori. E’ troppo da provare, troppo da dire.
 
Troppo lasciato non detto. La sua voce è piena del suo addio, ma si rifiuta di lasciarla vacillare. Si rifiuta di farla spezzare.
 
Rifiuta che rifletta il disastro che si sente dentro, come se si stesse separando da un organo che ancora batte nella sua gabbia toracica.
 
“Non voglio rivederti mai più”
 
E allora Sherlock ritrova le parole, e riesce a emettere uno strozzato
John-
 
Ma il medico militare sta già annegando, la sua testa è di nuovo ricoperta dalle onde. Non si gira, e il detective non si azzarda a seguirlo. Tutto è argentato e bianco, metallico e freddo.
 
Tranne Sherlock, che è un punto oscuro nei colori altrimenti chiari dell’edificio.
 
Un’ombra, dimenticata o lasciata dietro.
 
****
 
 
[1] Ah non chiedete a me, non ho idea di cosa significhi D:
   
 
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