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Autore: breosaighead    22/06/2014    6 recensioni
SOSPESA
Eppure Keira non poteva fare a meno di inseguire le onde, benché nel farlo ingoiasse tanta salsedine. E in quei momenti avrebbe voluto una mano da afferrare, che la tirasse fuori dall’acqua e che stringendole le spalle la riaccompagnasse a riva.
«Senti, Louis, lasciami stare. Non sono la persona giusta con cui fare amicizia, anzi, con cui fare proprio niente»
«Non è vero. Non stavo scherzando quando ho detto che sei interessante»
«Te ne pentirai»
«Lascia che lo decida io»
«Come vuoi»
In effetti non spettava a Keira decidere, ma dopotutto il suo era solo un - piuttosto utile - consiglio da non sottovalutare, sopratutto perché sapeva che c'era qualcosa in serbo per lei proprio dietro l'angolo e che questo non avrebbe lasciato in disparte Louis se solo si fosse avvicinato troppo.
Keira sapeva anche di avere a disposizione due scelte: abbandonarsi e lasciarsi trascinare via dalla corrente o accettare, addirittura, quel braccio teso apposta per lei da Louis; ma lui sarebbe riuscito ad arrivare in tempo e a sorreggerla?
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Liam Payne, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Mindtrip
(6)
"Burden"

 
 
 
 
Muschio.
 
La porta si socchiude accompagnata da un breve cigolio probabilmente provocato da quel cardine in alto bisognoso d'olio e «Posso entrare?» domanda qualcuno; i capelli schiacciati sulla fronte dal cappuccio della felpa grigia e lui che tentenna sulla soglia; la gola forse un po' secca e il dubbio costante che lo accompagna da quando ha messo piede nell’atrio, giù al primo piano, di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato, addirittura sprovvisto di fiori che a detta di tutti “Renderebbero felice chiunque”.
«Pensavo non ci fosse nessuno data l'ora» spiega; il piede che farebbe più che volentieri dietro front e poi subito sopra lo skate con il vento fra i capelli, senza una metà precisa ma “Ovunque è meglio che qui”.
La sedia sfrega stridula sul pavimento e Harry si è voltato di scatto: troppi film horror guardati trascorsa la mezzanotte. Chi ha appena parlato non gli è affatto sconosciuto, ma effettivamente l'ora non è delle più appropriate per una visita, però di lasciarlo sulla porta non se ne parla quindi: «Oh, Louis! Vieni, entra pure» lo invita con un cenno del capo, senza nascondere un'espressione sorpresa perché, onestamente, non si aspettava di vederlo prima delle 8 AM.
Passi silenziosi e lenti fanno il loro ingresso nella stanza, si fermano e aspettano che la porta in ferro di colore bianco, seppur più scuro rispetto alle pareti, si chiuda dietro di loro, possibilmente senza sbattere. Continuano a muoversi lungo un breve tratto, fino allo sgabello in disparte alle spalle di Harry, sotto il televisore al plasma in modalità silenzioso, mentre sulla E4 sta andando in onda la replica del primo episodio di “Skins”, ma a nessuno interessa: Harry conosce la serie a memoria ed è troppo impegnato a riflettere, Louis invece non l’ha nemmeno notata.
«Come sta?» esita, la voce in genere squillante estremamente bassa.
Non lo vedo: gli occhi stanchi e le palpebre troppo pesanti anche solo per provare a sollevarle un'altra volta, ma anche così potrei giurare che si sia voltato nella mia direzione, dopo aver distolto lo sguardo da quello indecifrabile di Harry, e abbia posato gli occhi colmi di disappunto sul mio corpo apparentemente inerme disteso sul lettino, avvolto fino a metà busto dalle lenzuola che mamma ha portato da casa e ha insistito affinché me le mettessero.
«Come qualcuno che aveva già perso se stessa anche senza l'aiuto di tutta quella roba. Uno schifo, ma meglio. – una pausa – Almeno così dicono loro» gli risponde Harry, al mio capezzale, non del tutto convinto, accennando un’occhiata alla parete.
Potrei aprire gli occhi, alzarmi dal materasso troppo duro su cui sono sdraiata da non so quanto tempo, a tal punto che non mi sento più gli arti, e urlare loro che si stanno sbagliando, che non mi sono persa da nessuna parte, che sono ancora qua nonostante tutto, che non ho la più pallida idea della roba di cui stanno parlando ma che sicuramente non era mia, e che loro in realtà non sanno proprio un cazzo.
Invece non faccio niente. La verità è che non mi va, che credano a ciò che voglio e gli fa più comodo.
«Andare a quella festa dopo il terribile fiasco dell’ultima in cui siamo stati... Ma come accidenti ho fatto a dire di sì?» impreca Harry contro se stesso. Gli occhi verdi spenti, l'acqua di un ruscello che dopo aver straripato inondando la riva finita la tempesta prosegue comunque il suo corso; così loro continuano a resistere.
Si passa una mano fra i capelli ricci senza vita, esausti come lui, e subito dopo si strofina gli occhi, con il capo chino e i gomiti spigolosi appoggiati sulle ginocchia magre che spuntano dai pantaloni neri strappati – più che vissuti – anche essi con una storia da raccontare.
Dovrebbe comprane altri, glielo ripeto sempre.
Il periodo in cui faceva a gara con Zayn per chi fra i due fosse più in grado di mantenere intatto un paio di skinny jeans, seppur indossandoli praticamente tutti i giorni, è finito da un bel pezzo, da mesi. E lui ha già perso quando il giorno dell'incidente Zayn è stato ritrovato con i vestiti ancora integri, sebbene la caduta dalla sua amata moto Guzzi e il tentativo di evitare tutto quanto.
Sulla parte si è creato il contrasto della sua ombra scura contro il bianco opaco della camera. Le tapparelle della finestra abbassate che a stento lasciano entrare la luce dell’alba, eppure c'è troppo bianco anche così e Harry sta tremando stringendo forte i pugni all'altezza delle orecchie, con le nocche bianche, i muscoli delle braccia tesi, evidenti.
I sensi di colpa che prima non lo avrebbero mai tormentato adesso cercano di scalfirlo per colpa mia, rivelando la sua fragilità, quella che cerca ancora di nascondere e che pensavo non avrei mai più rivisto dopo il funerale di Zayn e le due settimane che gli sono succedute. Sono un carico troppo pesante da sopportare per chiunque, e forse c’entra anche il fatto che a briscola Harry fa proprio pena, perché i “carichi” non ha mai saputo gestirli come si deve e le rare volte in cui ha vinto è stato unicamente perché era in squadra con Zayn, che, sì, che ci sapeva fare: quelli erano il suo forte.
Louis si è alzato, gli dà una pacca incoraggiante sulla spalla, e se un estraneo li vedesse, penserebbe senza dubbio che siano amici dai tempi dei tempi. Louis seppur i suoi tanti difetti ha capito che è questo ciò che gli manca: un amico – nello specifico, Zayn –.
Ed io sono costretta a chiedere gli occhi un'altra volta. È troppo e non ho nessuna intenzione di ringraziare il ragazzo dai risvolti ai pantaloni, sapendo che è l'unica cosa che sta aspettando e che pretenderà come un aguzzino appena sarò fuori da qui.
Poi a un tratto lo sento nuovamente, intenso, il muschio, e lo sento così troppo vicino e forte che vorrei avere il raffreddore, con il naso tappato, le orecchie tappate, un incessante mal di testa e magari anche qualche linea di febbre che mi faccia delirare, immergere in un mondo di allucinazioni.
Niente realtà e soprattutto niente muschio.
Niente Louis.
 
Ancora muschio.
 
Un brusio di voci sommesse proviene dal corridoio: sono le infermiere che passano davanti alla mia stanza. Il loro turno sta per iniziare ma stanno comunque spettegolando sugli avvenimenti della sera precedente – la nuova arrivata è andata a cena con il capo reparto e questa, a quanto pare, nell’ambiente, sarà la notizia del giorno –.
Poi ce n'è un'altra, di voce, dal tono estremamente cupo, quasi duro, ché suo malgrado ha il compito di informare quelle che si direbbero essere la moglie e la figlia delle condizioni non molto buone del paziente della 124, e al momento di salutarsi le voci delle due donne si fanno forza e non s’incrinano neanche un po’. Le loro lacrime non le porterà alla deriva facilmente, è sicuro.
Qualcosa di umido si posa leggero sulla mia fronte, un contatto di a malapena qualche secondo, un bacio e un sussurro: «Per quando torno, Keira, voglio che tu abbia aperto questi cazzo di occhi». Percorre poi con il dito il mio braccio, dalla spalla fino alla mano, la stringe forte e si allontana subito dopo, in direzione dell’uscita.
Apro gli occhi un istante prima che se ne sia andato, che la sua figura slanciata sia scomparsa definitivamente dietro la parete, per salutarlo silenziosamente, alzando il capo quel tanto che basta per vederlo, Harry, con la testa china, lo zaino in spalla e la tasca posteriore sempre aperta che mi chiedo se non abbia mai perso niente di valore, probabilmente no, o avrebbe già imparato a chiuderla. Il cappotto nero ancora da infilare, i piedi che si trascinano, svogliati come ogni mattina e l’andatura tuttavia elegante.
Faccio per sollevarmi sui gomiti ignorando la pressione al centro della fronte e mettermi seduta quando un brivido mi scuote l’intera colonna vertebrale.
“Merda!” è tutto ciò che sono in grado di pensare e borbottare mentre considero che l’unica cosa buona da fare sia rimanere sdraiata, magari con la coperta che arrivi fin sopra i capelli.
Ha le mani sul davanzale. Lo stanno stringendo quasi fosse una specie di appiglio che gli impedirà di cadere a terra perché le gambe gli cederanno da un momento all’altro, ma Louis semplicemente non vuole perdere il controllo e preferisce aggrapparsi saldamente a qualcosa che, è sicuro, non può rompere. La testa è alta, il viso guarda dritto di fronte a sé, l’espressione austera.
Gli occhi sono scuri, forse perché in controluce, e fissano impassibili il mio riflesso incerto, abbagliato dal sole nascente, e a mia volta provo sostenere il suo sguardo, non distogliendolo nemmeno quando la signora della 123 irrompe in camera e ne esce immediatamente farfugliando qualche scusa, del tutto spaesata.
Louis non si volta, continua a darmi le spalle mentre mi sorride di sghembo e, nello stesso istante in cui il suo viso diventa più chiaro ai miei occhi, sembra che non provi nient'altro che pena per me.
E ora che lo guardo meglio lo riconosco: ho la consapevolezza che si tratta di quello sguardo che non riesco mai a decifrare, quello che mi lancia ogni tanto di sottecchi, che aveva il giorno in cui ho rifiutato la sua amicizia per ovvie ragioni, perché in qualche modo rievoca i ricordi di Zayn, rendendo del tutto vani i miei sforzi di sopprimerli all'interno, nel mio inconscio.
È lo stesso sguardo che nasconde dietro ai suoi tanti sorrisi e alle sue mille battute, che provo a reggere ma che alla fine, a dispetto di tutto, ha la meglio. E vorrei solo riuscire a ignorarlo.
«Che ci fai qui, Louis? – domando atona, in realtà per niente interessata alla risposta. È più una domanda di cortesia – Vai via. Ti prego» finisco. Una supplica che spero colga e lo convinca ad andarsene.
Non lo voglio qui. Non voglio vederlo. Non voglio discuterci e, più di ogni altra cosa, non voglio sentire il suo stramaledettissimo profumo di muschio, non ora che la pressione al centro della fronte sembra non volermi lasciare in pace.
Avevo le mie ragioni quando ho detto che non volevo averci niente a che fare.
Louis ghigna, è concentrato su di me, sulla mia figura rannicchiata sotto le lenzuola con la testa che è rimasta scoperta. Non mi dà più le spalle e capisco che invece sarebbe stato meglio, perché sfidarlo così è ancora più difficile di quanto già non lo fosse.
«Per favore» aggiungo a denti stretti, un po’ per il dolore alla fronte e un po’ perché sono infastidita. Le pupille che vagano per la stanza in cerca di qualcosa che possa distrarmi dalla sua presenza. Non c’è niente.
Louis fissa senza vederlo davvero il vaso con i fiori – “Oh, delle dalie! Bellissime!” – che mamma o Harry devono aver portato, sul carrellino vicino al mio letto, e sembra soppesare la mia richiesta finché: «No. Spero tu non me ne voglia, Keira, ma intendo rimanere qui»
Mi metto a sedere di scatto, incredula per la risposta che ho ottenuto. Gli occhi sgranati e dalla bocca che non esce alcun suono.
Credevo avesse più rispetto per la gente ricoverata in ospedale, che non si sarebbe sottratto a una semplice richiesta.
Senza prevederlo sono già in piedi, pronta a fronteggiarlo, faccia a faccia, e cacciarlo via dalla stanza, con i fili della flebo che vengono scossi dai miei passi e, cavolo!, ora sì che sento la testa che sta per scoppiare e scommetto che poi andrà a dividersi in due parti simmetriche.
Mi sento improvvisamente frastornata, con le forze che vengono a mancarmi allo scorrere di ogni secondo. Louis lo nota e per venirmi incontro decide di abbandonare tutte le parole – taglienti – che avrebbe voluto rivolgermi, quelle che aveva sulla punta della lingua e che si stava preparando a sputar fuori senza ripensamenti; e le occhiatacce colme di rimprovero che aveva deciso di riservarmi.
Agisce così tempestivamente che penso abbia il brevetto da bagnino, anzi, ne sono sicura. Mi passa la mano dietro, sulla schiena, all’altezza delle costole e, come se la gravità avesse cessato di esistere, mi prende in braccio, attento al tubo attorcigliato sul mio polso, con la siringa che forse si è mossa un po’ e ora è diventata più fastidiosa.
«Non credevo di disturbarti così tanto. – dice mentre mi adagia senza alcuna fatica sul letto. Queste devono essere in un certo senso le sue scuse. – E comunque qui c’è il telecomando con cui avresti potuto chiamare un’infermiera» mi porge l’oggetto, prima appeso alla testiera del letto clinico, che non avevo notato. Dopo aver controllato che i tubi, bene o male, fossero ancora al loro posto, indietreggia contro la parete dove ha deposto lo skate blu cielo con le ruote da cambiare.
«Non mi è venuto in mente. Ero più concentrata su di te e sul fatto che non ti volessi qui»
«E ora hai cambiato idea? Posso restare?»
Mi viene da sorridere per l’ingenuità della sua domanda, la fa facile, come se ora fosse tutto a posto, come se la mia opinione nei suoi confronti fosse cambiata; «No».
Louis scuote il capo: si aspettava il contrario. Ha afferrato il suo skateboard e sta cercando di incastrarlo in qualche modo dentro lo zaino, la lingua fra i denti per lo sforzo e la concentrazione, quando lo interrompo: «Che hai detto prima? Hai mosso le labbra» specifico.
Finisce ciò che sta facendo, richiude la cerniera e la sua attenzione ritorna a me «Dicevo che prendere il telecomando per chiamare qualcuno non è l’unica cosa che non ti sia venuta in mente»
«E con questo cosa vorresti dire?»
«Guardati.» dice allargando le braccia, indicando tutto ciò che ci circonda in questo momento e fa un mezzo giro su se stesso, come a volerlo osservare meglio e per sottolinearlo ancora di più in qualche modo.
Lo zaino è in spalla mentre il cappellino da baseball con la visiera gialla gli sta schiacciando i capelli. Si volta, sta per sparire dietro la parete da cui mezz’ora fa se n’è andato Harry, ma prima: «Avverto il dottore che ti sei svegliata e ti consiglio di non far finta di dormire quando Harry tornerà. Non credo tu sia insensibile fino a questo punto. – muove un passo in avanti verso la porta, ma pare ricordarsi di qualcosa d’importante e subito retrocede – E comunque sono venuto qui solo per vedere come stavi, perché, se ricordi, alla festa sei svenuta fra le mie braccia mentre borbottavi cose completamente incomprensibili»
«E dunque sei qui solo per riscuotere i ringraziamenti che ti spettano? Lo trovo giusto» lo schernisco. Le braccia al petto incrociate e un’espressione beffarda sul volto.
Il viso di Louis assume un’aria scocciata – più rassegnata – e «Fai un po’ come ti pare, Keira» dice, volgendo lo sguardo al sole autunnale ora più visibile fra le veneziane, diversamente dai miei ricordi di quella sera, sempre lontani e offuscati, troppo confusi per riuscire a venire a capo.
«Non ricordo molto della festa, Louis» confesso, trattenendolo ancora un po’.
«Lo credo!»
«Ma so per certo che la roba di cui parlavate tu ed Harry non era mia, qualunque cosa fosse»
Louis sospira e so che non mi crede, come non lo farà Harry.
Rimaniamo in silenzio, non c’è altro da dire.
«Non sapendo quali fossero i tuoi fiori preferiti ti ho preso i miei: le dalie. Vedi di non far appassire anche loro più di quanto tu non abbia già fatto con te stessa. Ci vediamo, Keira»









 
Buon inizio estate a tutti e sorpresa!
Ormai credo che ci abbiate fatto, più o meno tutti e chi più chi meno, l'abitudine ai miei aggiornamenti distanti secoli e secoli fra loro, ma ad ogni modo: scusate se non mi sono fatta viva in tutti questi mesi che, sì, sono stati davvero davvero tanti!
In realtà credevo fosse trascorso meno tempo, poi un giorno ho deciso di guardare la data dell'ultimo aggiornamento e ho scoperto che erano trascorsi ben tre mesi e passa, accidenti!
Ho avuto un po' di problemi fra tutto quanto e in più il buon caro e vecchio "word" ha deciso di abbandonarmi - ecco spiegato l'avviso nell'introduzione -. Ora non ho ancora risolto il problema, ma ho la versione prova, quindi finché c'è, usiamolo!
E niente, se c'è ancora qualcuno che segue questa storia, spero che il nuovo capitolo via sia piaciuto e lo so che forse non è all'altezza di ciò che vi aspettavate dopo tutto questo tempo, ma spero lo sia almeno un pochino.
Non ho molto da dire, solo che siamo all'inizio e mi sono resa conto che, oh cavolo!,  scriverla è davvero più difficile di quel che pensassi ahahaha 
Mentre scrivevo mi domandavo se sarò in grando di trasmettere tutto ciò che voglio e vedremo, ma è sicuro che non l' abbandonerò, assolutamente!
Non vi assicuro degli aggiornamenti costanti, ogni settimana, però potrei anche riuscirci, dipende tutto da come andranno queste vacanze.
Se siete arrivati a leggere fino a qui, vi ringrazio, ma vi ringrazio anche se non ce l'avete fatta, non è un problema.
Vi ringrazio per il fatto che siete rimasti, grazie mille!!
Se volete e avete voglia insomma, fatemi sapere le vostre opinioni, qualunque esse siano, che sono sempre più che gradite e preziosissime! 

Al prossimo capitolo, 
un bacio a tutti,

Bri.
 
  
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