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Autore: AyakoSoul    24/06/2014    1 recensioni
La colpa è una voce interiore che ci guida a fare cose che potremmo evitare...Alice capirà troppo tardi di aver assecondato qualcosa che l'ha guidata a una tragica fine...
Genere: Horror, Mistero, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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YOUR DAMN FAULT

 

 

 

Mi chiamo, anzi, mi chiamavo Alice.
Ho, anzi, avevo 15 anni.
Perché sto raccontando tutto al passato?

Perché ora vi parlerò di come sono morta.


Vivevo in una piccola cittadina delle coste inglesi, e abitavo in un piccolo condominio vicino alla spiaggia.
Questa era molto particolare: un tratto di essa era sabbiosa, a ovest, mentre a est era piena di scogli.
In estate noi andavamo sempre a est perché ci sembrava un'avventura più gratificante di quella di fare come tutti gli altri e raccogliere noiosi paguri sulla spiaggia per poi ricacciarli in mare.
No, noi eravamo fatti per quel tipo di avventura, la voglia di pericoli e il legame che ci univa ci spronavano ad andare avanti aiutandoci l'un l'altro, a scoprire di più su quel territorio segnato come zona sconsigliabile e pericolosa dagli adulti, quella zona dove gli scogli impedivano la vista delle case e dell'orizzonte o nascondeva ricci appena sotto i nostri piedi.
Proprio a causa di quegli scogli che tanto amavo ho raggiunto il mio destino.
Un giorno trovammo una specie di grotta “segreta”, incastrata sotto una buca nel terreno coperta dalle piante rampicanti del posto.
Entrammo, incuriositi dal fatto che fosse posizionata come se avessero tentato di nasconderla.
Quello che vedemmo ci lasciò di stucco: le pareti non erano di roccia o di terra, ma erano di metallo.
Un metallo molto particolare, a sentire Jas, che se ne intendeva di quella roba.
Infatti sul soffitto rotondo scorrevano linee luminose e in movimento che emettevano una fioca luce azzurrina, e si diramavano con simmetria fino al pavimento.
Davanti a noi, una galleria buia.
«Che si fa?» chiese Mary, che guardava oltre l'oscurità con preoccupazione.
«E' ora di pranzo, sarà meglio tornare..» provò a dire Jack, ma io lo afferrai per la collottola, impedendogli di andare avanti.
«Dai, andiamo a vedere!» lo incitai stupidamente io.
Non perché fossi davvero curiosa, anche io avevo paura.
Ma c'era una voce che mi chiamava, lì in fondo, e mi attraeva a sé.
Lasciai lì i miei amici che mi urlavano dietro di tornare a casa, percorsi tutta la galleria che al mio passaggio si illuminava per poi rispegnersi.
Ansimai per la corsa, mentre arrivavo alla fine della galleria.
Essa si apriva in un enorme soffitto a volta illuminato dalle stese linee di luce, ma ora erano più luminose.
Nella stanza, a forma di bulbo, c'erano dei tavoli squadrati pieni di fogli scarabocchiati o con cupe macchie scure sopra.
C'erano contenitori con liquidi o cose misteriose e viscide al proprio interno, armadi dalle ante rotte che rivelavano articolazioni amputate che grondavano sangue secco o frigoriferi pieni di strani animali deformati.
Sulla parete laterale leggevo una scritta su una targhetta metallica: Laboratorio Unificato 0345.
«Ehi!» urlò da dietro Jack, raggiunto dagli urletti di Mary e Jas.
«Venite e vedere.» intimai io a loro, mentre esploravo l'ambiente, la vocina che insisteva dentro di me nel voler aprire tutti gli armadi dall'eccitazione e dalla curiosità.
«Non dovremmo essere qui.» disse inquieto il mio amico.
«Già, non dovremmo...ma non c'è nessuno e noi non stiamo facendo niente di male.» mi giustificai io per la mia misteriosa curiosità.
Poi venni attratta da un piccolo quaderno nero e lacero su uno di quei tanti tavoli pieni della roba più disparata, con scritto "diario di bordo".
«Ferma!» mi disse lo stesso rompiscatole, ma io non lo ascoltai.
Toccai il quaderno, sussultai dallo stupore: le pagine iniziarono a sfogliarsi in modo alquanto rapido, da sole, come se ci fosse un forte vento a farle girare.
Si fermarono a una data ben precisa e io, attratta da quell'avvenimento, lessi.

“14 Settembre 1956: io e il mio collega abbiamo trovato tutti i materiali indispensabili per formare l'embrione, ora ci manca solo l'essere umano da copiare.” seguirono strani disegni fatti a matita con una calligrafia molto piccola che non capii.
“17 Settembre 1956: io e il mio collega abbiamo deciso di sfruttare la mia fidanzata come campione: userò la scusa dell'anniversario di fidanzamento come scusa per portarla qui.”
“19 Settembre 1956: l'esperimento è avvenuto, la mia ragazza è stata uccisa. Non la rimpiango: sapevo che era pazza, l'avevo capito da tempo. E poi il lavoro viene prima di tutto.”
“20 Settembre 1956: l'embrione sta manifestando segni di pazzia. La nostra arma ha ereditato le frequenze celebrali della mia amante. La rinchiuderemo e abbandoneremo il progetto.”
Nella pagina dopo la calligrafia diventava imprecisa e grande, una grossa macchia scura e rossa al lato del foglio.
AIUTATEMI SONO DENTRO L'ARMADIO A DESTRA
Un brivido gelido mi scese giù per la nuca.
Attratta dalla stessa voce che mi incitava, aprii l'armadio che indicava il diario di bordo.
Persi un battito.
C'era una ragazza bellissima, dagli occhi di ghiaccio fermi e spenti e i capelli rossi come il fuoco, la carnagione pallida.
Era in un contenitore cilindrico di vetro chiuso da innesti metallici mezzo-arrugginiti.
Sembrava avere qualche dispositivo di congelamento al suo interno perché, quando la aprii, una nuvola di vapore gelido mi arrivò in viso.
Il corpo della ragazza si mosse impercettibilmente, poi mi toccò la fronte con l'indice e una piccola scossa elettrica mi fece arretrare.
In quel momento i suoi occhi vitrei e gelidi sfumarono di colore e di forma, fino a diventare completamente uguali a quelli miei color nocciola.
Si strusciò le mani sulla maglietta nera e i jeans mezzi sgualciti come per ammirarne appieno il tatto, chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni l'aria che ci circondava.
«Libera...» la sentii sussurrare.
Poi mi guardò con una luce abbagliante e sinistra negli occhi, con schiettezza ma con un velo di oscurità che mi fece rabbrividire e gioire al tempo stesso.
«Noi siamo amiche, vero?» mi chiese afferrandomi le mani.
Io non capii, tanto me lo chiese in modo improvviso o totalmente casuale.
«S-Sì...» balbettai, incerta, quella voce sibilante che avevo dentro mi diceva di dire in quel modo.
Quella mi fece un sorriso a trentadue denti, abbracciandomi.
«Che bello!» urlò di felicità.
Mi sembrava di avere  a che fare con una bambina piccola.
«Bene...ma ora lasciami...» le intimai con voce gentile.
Quella si ritrasse di scatto con allegria.

Esplorammo ancora un po' l'ambiente, poi ce ne andammo, impauriti, seguiti a ruota della ragazza.
Ne avevamo tutti paura: da quel che avevo letto era una creatura artificiale che copiava le caratteristiche di altri che le stavano intorno. Era una cosa uscita da un contenitore, ma pensavo che col tempo ci saremmo adattati, tanto sembrava cordiale.
«Allora, come ti chiami?» le chiesi per rompere il ghiaccio.
«Non lo so!» esclamò lei.
«Quanti anni hai?» le chiesi un'altra domanda, ma ero un po' più incerta.
«Non lo so!» trillò di nuovo lei.
«E...da dove vieni?»
«Dal contenitore da cui mi hai tirata fuori!»
Tutti sussultarono, la tensione crebbe fino a diventare densissima.
«Quegli scienziati cattivi hanno ucciso la ragazza da cui è nata la mia mentalità, creandomi per com'ero! Ma poi ci hanno ripensato e mi hanno chiuso lì, abbandonando il loro curioso progetto!» continuò lei, non capendo come ci sentivamo.
Ci sembrava surreale, qualcosa di incredibile.
Però era vero.
Ed era davanti ai nostri occhi.
Un nodo mi si formava in gola mentre percorrevamo la strada a ritroso fino alla spiaggia.
Ci avevamo impiegato quasi tutto il pomeriggio per quel viaggio ed ora era sera inoltrata.
Ci salutammo ed io feci per tornarmene a casa, ma qualcuno mi afferrò per un braccio.
«Ora possiamo tornare alla grotta, vero Alice? Giocheremo fino all'alba così!» mi chiese la voce allegra della ragazza, dietro di me.
«Cosa..?» mi voltai di scatto, spaventata.
«Come sai il mio nome?!» alzai la voce, in preda al nervosismo.
«Io sono come te, Alice – mi disse avvicinandosi - io ti ho toccata!»
«Stammi lontano!!!» le urlai, e quella sussultò, dalla sua mano scaturì una lampo enorme e azzurro per la paura.
Riuscii a guardarla negli occhi: erano ridiventati azzurri.
Mi colpì, un dolore indicibile mi percorse le membra, mi fece strillare dal dolore mentre dai pori della mia pelle iniziavano a schizzare sangue che ribolliva, e poi mi accasciai a terra, priva di vita.
La ragazza mi scosse un paio di volte per vedere se mi svegliavo, il viso e le vesti imbrattate di rosso cremisi.
Poi, silenziosamente, portò il mio corpo nella grotta.

Attenti alla voce sibilante nelle vostre teste, perché è la colpa.
La colpa vorrà sempre uccidervi.
Vi rinnega, e poi pagherete con la vita stessa.


…......Messaggio dell'autrice..........
Tutte le mie storie one-shot sono sempre così allegre...
Pazienza, in un periodo nero come quello degli esami riesco ancora a scrivere storie huhuhu! u.u
Questa storia mi è venuta in mente in un modo alquanto particolare: ascoltando "It's not me It's you" degli Skillet. OwO
Non c'entra niente.
Lo so, non è un fatto normale.
Ma questa storia è normale per caso? u.u
Ringrazio quelli che la leggeranno e che vorranno recensire! ^^
Saluti,


AyakoSoul

  
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