Disclaimer: Robert Downey Jr, Jude Law ed ogni altro personaggio pubblico qui citato non mi appartengono in nessun modo, la storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro e non vuole dare rappresentazione veritiera del carattere, della sessualità o di ogni altra particolarità qui affrontata delle persone utilizzate per questa storia.
About our lives.
Prologue – Arrive
Mollai
la valigia a terra, che emise un tonfo. La porta della mia camera mi
si era già chiusa alle spalle, mentre la signorina bionda di
cui non
ricordavo il nome e che mi aveva accompagnato lì tornava al
suo
ufficio con un bel sorriso rassicurante. Io mi ero girato di spalle,
seguendola mentre l'ultimo spiraglio della porta le si chiudeva sul
viso e scompariva dalla mia vista.
Ero rimasto fermo qualche
istante e poi ero tornato a guardare davanti a me. Ero solo, e quella
era la mia nuova camera. C'erano due letti da una piazza ciascuno,
due armadi ed una scrivania. La stanza era luminosa, probabilmente
complici i muri bianchi e la grande porta finestra che dava su una
piscina. Una cazzo di piscina e della fottute sdraio intorno.
Sembrava più un albergo di un centro di disintossicazione,
in
realtà. Unica nota stonata: la mancanza di una televisione,
ma
immaginavo che non l'avessero messa in camera di proposito per
permetterci di guardarla in stanze apposite tutti insieme. E
probabilmente per propinarci quelle puttanate sulla
socialità e
balle varie.
"No, signor Downey, questo non è
l'atteggiamento adatto!"
Ops, vero. Non dovevo sottovalutare
quel che avveniva lì, dovevo crederci e dovevo volere il
cambiamento, doveva arrivare da me... e sapevo che era vero, lo
sapevo, ma se non avessi preso quella vacanza con
un po' di
filosofia non avevo davvero idea di come ne sarei uscito vivo.
Mi
misi la mano sinistra sul fianco e poi la destra tra i capelli: erano
un disastro sotto le mie dita, lo sentivo, ma sinceramente non me ne
fregava troppo.
Andrew sarebbe tornato a casa il giorno
successivo, mentre io sarei rimasto in quello schifo di Georgia per
altro tempo ancora. Chissà quanto.
Era anche vero però che
Andrew, il mio migliore amico, era sano, io no.
Andrew non tirava
su di coca, io sì.
Lui non ballava il valzer della morte ogni
giorno senza possibilità di scelta. E io sì.
E quindi, per farla
breve, lui si meritava di tornare a casa, mentre io dovevo fare
qualcosa per lui e per me.
Se non fosse stato per lui e per Jami
– soprattutto per lei - non sarei stato in quel posto, a
guardarmi
intorno senza capire cosa fare a quel punto. Ed arrivato lì,
solo
come un cane, non avevo davvero idea se essere loro grato o meno.
Mi
spettinai ancora di più i capelli passandoci velocemente la
mano
sopra, per decidermi poi di mettermi in moto: raccolsi la valigia da
terra e la poggiai su uno dei due letti, prima di aprire la zip e
iniziare a sistemare i vestiti nell'armadio più vicino al
letto che
avevo occupato. In mancanza di direttive quella era la cosa
più
logica da fare, anche per tenere la mente impegnata ed evitare di
pensare a tutto ciò che avrei dovuto passare in quel cazzo
di posto.
***
Una
vena sulla tempia mi pulsava, la sentivo distrattamente. Ma non mi
fermavo, continuavo a correre come un dannato in mezzo a quell'enorme
parco intorno alla struttura. Il sudore colava e faceva sì
che i
miei occhi bruciassero, i capelli mi si appiccicavano alla fronte.
Correvo, correvo come mai prima di allora, o come forse avevo
sempre fatto: era quello il mio modo per sfogarmi, prima della coca.
Ma dovevo togliermela di dosso, non potevo più, ed ora
correre era
l'unica cosa che mi era concesso fare.
Porca puttana, era normale!
Quei cazzo di dottori me lo dicevano, che era normale avere scatti
d'ira, perché ero in astinenza. Ma rifilare un pugno sul
naso ad uno
degli infermieri non era stata una mossa intelligente in ogni caso,
sospettavo. E dovevo sfogarmi in qualche modo, ed i polmoni
bruciavano e la milza bucava. Ed era tutto quel che cercavo.
Non
avrei mai corso abbastanza, ma il parco era finito, non c'era
più
spazio. Un senso di oppressione mi premeva sul petto, non respiravo,
affogavo, mi trascinavano giù. E cominciai a piangere come
un
bambino, a lottare contro il muro di quello schifo di posto. A
prenderlo a pugni finché il dolore ad una mano non fu troppo
forte.
«CAZZO! Cazzo, cazzo, cazzo...» Era un mantra
sconclusionato, con annesse lacrime ed il labbro inferiore stretto
tra i denti, stretto a sangue. Me lo sentivo bruciare, mentre
continuavo a tirare calci e pugni al muro, e mi faceva male tutto, ma
non c'era della cazzo di droga da mettere nel corpo per farmi passare
qualunque cosa mi fosse preso. Avrei voluto sbranare qualcuno o
piangere fino a non avere più fiato, sentire i miei polmoni
accartocciarsi e poi rimanere un solo involucro vuoto in quella vita
che forse non era fatta per me, che non mi meritavo. Una vita troppo
grande, troppo impegnativa. Ero solo un ragazzino, non ce la potevo
fare.
Chiedevo scusa ai miei genitori ogni giorno per ciò che mi
stavo facendo, ma in momenti come quelli li avrei ammazzati se mi si
fossero parati davanti. Faceva male da morire, faceva male pensarlo,
faceva male al cuore. La pelle bruciava, mentre cadevo a terra e mi
rannicchiavo con le ginocchia strette al petto, gli occhi serrati su
mondo, per non vedere, non vedere, Jude. Non vedere ciò che
devi
fare.
E dondolavo in quel mio angolo d'erba che mi ero ritagliato,
avanti e indietro, come un bambino impaurito dal buio. Io ero un
bambino, ma era pieno giorno. Eppure era buio e non avevo neanche un
fottuto fiammifero.
«E' l'astinenza... è l'astinenza,
Jude...»
E faceva schifo, ma era ciò che mi ripetevo tra i denti,
tentando di
concentrarmi stavolta sul dolore alla mano. Non riuscivo più
a
muovere le dita della destra, ma quando socchiusi gli occhi,
cautamente, vidi che le mie nocche erano sbucciate e sanguinavo.
Bene, mi avrebbero distratto, forse.
Avevo visto gente prenderne
a pugni altra per una sniffata che lì non sarebbe mai
arrivata. Mi
ero detto che io non sarei mai arrivato a tanto, che era colpa e
merito mio se ero a quel punto, eppure lo avevo fatto e la mia
guancia interna era stata morsa così forte che ormai il
sapore del
sangue mi inondava la bocca. Ed il petto, quel petto che era stato
costretto fino a quel punto in una morsa, si alzava e si abbassava
come un mantice, il cuore stava per uscirmi dal petto; lo sentivo
nelle orecchie, sul collo, nelle tempie. Il mio cuore era ovunque,
quel cuore che prima o poi avrebbe smesso di battere e che avevo
tentato di salvare entrando in quel luogo che prometteva di salvarmi.
Ma era stancante, era avvilente. Un colpo di pistola in bocca in
certi momenti sembrava qualcosa di molto più semplice.
«Calmati,
Jude... andrà bene...» Me lo sussurravo mentre
smettevo
gradualmente di frignare come una ragazzina e mi abbracciavo, mi
stringevo le braccia attorno al corpo, impedendomi di scivolare ancor
più giù. Non c'era un'ancora abbastanza forte a
tenermi a galla.
Non per me.
Qui avevamo assistenza medica e psicologica, ma chi ci
pensava al cuore? All'anima? O questa mancanza, questa freddezza, era
dovuta all'astinenza? Come tutto, d'altro canto. Tutto era
l'astinenza. Anche se non capivo come avremmo potuto allontanarci
dalla droga se poi ogni cosa, in un modo o nell'altro, era sempre
riportato a quella polvere bianca. Come avrebbe fatto la mia vita a
smettere di ruotare intorno alla coca se poi ogni cosa che facevo
veniva motivata con la sua assenza?
Poi però i pensieri si
interruppero. Staccata la spina, il dolore alle mani tornò,
acutizzato. Il sudore mi si era ghiacciato fastidiosamente addosso ed
un brivido mi scosse. Ok, era chiaro: dovevo smettere di fare il
cazzone e fare invece qualcosa per le ferite alle mani. Le
attività
pratiche facevano sì che il cervello non collassasse su se
stesso.
Lo teneva impegnato.
Ed infatti mi alzai di nuovo in piedi, non
senza qualche difficoltà, approfittando del magnanimo
momento in cui
non mi veniva mozzato il respiro in gola. Tremavano, sentivo le gambe
molli e cedere sotto il mio peso.
Calmo, Jude. Prendi un bel
respiro.
E feci come mi stavo dicendo, immagazzinando un po'
d'aria nei polmoni. Alla fine riuscii a fare il tragitto inverso,
evitando chiunque mi stesse cercando: non era il momento, non lo era
davvero.
Perdevo sangue, avevo un mal di testa assurdo e mi
sentivo sporco, come se avessi nuotato nel fango fino a quel momento.
Ed intanto non pensavo a niente: solo alla mano che urlava in
silenzio. Un po' come me.
Abbassai la maniglia della porta ed
entrai in stanza.
***
Mani
sui fianchi e sorriso soddisfatto stampato in faccia: non stavo
troppo risentendo dalla lontananza della cocaina, per il momento.
Probabilmente erano le vitamine che il dottore mi aveva affibbiato
appena arrivato al centro. Non avevo idea di quanto sarebbe durato
l'effetto, ma per il momento andava quasi tutto bene.
Sistemati i
vestiti nell'armadio, però, non mi restava molto da fare,
per cui
decisi di girare i tacchi per scendere nella hall del centro a
chiedere qualche informazione e domandare, magari, se avessi potuto
chiamare Andrew. Mi sembrava un buon modo per ringraziarlo di... be',
praticamente tutto, a conti fatti.
Mentre meditavo in solitaria,
la mano avanzò verso la maniglia, che però si
abbassò da sola per
permettere alla porta di aprirsi: a quanto pareva avevo visite. Mi
trovai di fronte ad un tipo magro, più alto di me ma
probabilmente
di un paio d'anni più piccolo, ad una prima occhiata.
Capelli
biondi, occhi azzurri – o forse verdi?-, viso da ragazzino
che però
era squadrato. Viso di un bel ragazzo, aggiunsi poi mentalmente.
Bagnato sulla fronte: sudore; Bagnato sulle guance: lacrime.
Mi
accigliai, squadrandolo dal basso. Nella mia testa era strano vedere
un così bel viso sporco di dolore.
«Ehy, amico... tutto bene?»
Domandai cautamente, esibendomi in uno dei miei sorrisi migliori. Lo
sconosciuto rimase interdetto qualche istante, osservandomi con
chiara confusione. Poi però parve illuminarsi.
«Robert Downey?»
Tentò, squadrandomi a sua volta.
Io non potei fare niente se non
annuire, stringendo le labbra con una punta di irritazione: lui
sapeva il mio nome ed io non avevo idea di chi diamine fosse.
A
quel punto parve rilassarsi, mentre abbassava il capo e stirava le
labbra pallide in un lieve sorriso: «Io sono Jude Law, il tuo
compagno di stanza.»
Walking_Disaster's
corner:
Ed
eccoci giunti qui, in un viaggio che non so dove mi porterà
e se
mi porterà.
L'idea di questa storia è nata dopo aver visto Al
di là di tutti i limiti, dove abbiamo un bellissimo Rob agli
esordi
impegnato ad affrontare una guerra che ha davvero combattuto. Mi ha
lasciato qualcosa addosso quel film, ed infatti l'Andrew citato da
Robert non è altro se non Andrew McCarthy, Clay nel film. E
se ci
fosse Jude, con Rob? Se fossero entrambi un completo casino, in modi
diversi, e poi tentassero di mettere insieme i pezzi della loro vita?
Ecco da cos'è nata questa long. Ho pezzi in mente, ho penato
per
decidere se scrivere in prima o terza persona, ho il dubbio che
scrivere in prima mi penalizzi in ogni modo possibile immaginabile.
Ho tanti dubbi su questa storia, ma ho anche l'intenzione di portare
a termine questo viaggio. E be', non so che altro dire se non
"vediamo come andrà".
Passiamo ora però a questo
prologo: il pezzo che mi dà più soddisfazioni
è senza dubbio
quello di Jude, anche perché volevo dare un'idea ai lettori
di cosa
si prova ad essere in astinenza. Mi sono documentata prima di
scrivere, ho un sito intero a mia disposizione, quindi posso dire che
(per il momento) so quello che scrivo. Per quanto riguarda
l'immaginazione, dovete prendere il Robert di Al di là di
tutti i
limiti (ma va?) e un Jude random del '92 (Il talento di Mr Ripley,
tanto per intendersi). Quindi... ecco a voi i nostri bambini: Jude:
http://www.thegroundmag.com/wp-content/uploads/Jude-Law1.jpg
e Rob: http://img33.imageshack.us/img33/4319/screen3jh.png
...bruttini, eh? *Sarcasm* Poi non dite che vi tratto male!
Lasciate una recensione e mi farete una donna felice.
Love
u all and see u soon,
WD