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Autore: Carlos Olivera    27/06/2014    2 recensioni
Tratto dal Capitolo 1
In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.
Era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.
Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili; di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale.
A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione, rassomigliando alle ali di un angelo.
Nelle pubblicità delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell'Inferno
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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EXTRA

CON TE, FINO ALLA FINE DEL TEMPO

 

 

La giovane donna sedeva dinnanzi alla finestra della sua umile stanza, aperta sulla maestosa bellezza delle acque del Lago Biwa, con il monastero che come aggrappato con le unghie e con i denti alla ripida e brulla scogliera arrivava quasi a lambirne le sponde.

I capelli, biondissimi, erano elegantemente raccolti in una crocchia dietro la nuca, e portava una tunica leggera, di un colore bianco panna, che lasciava parzialmente scoperte le spalle, cinte invece da uno scialle.

Nei suoi occhi si leggeva la volontà di viaggiare; non con il corpo, ma con i ricordi.

La sua mente, a distanza di tanti anni, ancora faticava a rievocare il lungo e tortuoso cammino che l’aveva condotta fino a lì, a quella decisione, e ancor più difficile le veniva ricordare ciò da cui tutto era iniziato, quel giorno così ormai lontano nel tempo che aveva spento così tante vite e sconvolto, nel bene o nel male, quelle di tutti coloro che erano rimasti, e che avevano visto le false certezze sgretolarsi come fango secco per far spazio ad una dura, cinica e crudele realtà, quella stessa realtà in cui ora stava vivendo.

Così, come già altre volte aveva fatto, non le restò che affidarsi ai racconti, alle storie di cui lei stessa era in un certo senso protagonista, che unite ai pochi frammenti che negli anni era riuscita a mettere insieme andavano a comporre una storia terribile, ma che, per chissà quale miracolo, si era conclusa nel suo caso con una luce di speranza.

 

Gli EDA erano ormai giunti a ridosso della porta, ed erano sul punto di sfondare anche l’ultima linea di difesa, quando vi era stato una specie di sibilo, e subito dopo tutto si era spento in un mare di luce.

Amanda si vide cadere addosso un enorme pezzo di rivestimento, e quando riprese i sensi, riuscendo a fatica a toglierselo di dosso, fu sorpresa di vedersi ancora viva.

Protocollo di sopravvivenza.

In quanto maga, Amanda era stata addestrata negli anni a far sì che il suo organismo, se sottoposto a particolari stress o situazioni potenzialmente mortali, rispondesse istintivamente erigendo una barriera corporea di difesa usando tutto il potere magico disponibile; per questo fin dal momento in cui riaprì gli occhi si sentì piegata in due da una implacabile stanchezza e senso di spossatezza.

L’estrema debolezza però non le impedì, una volta ripresa pienamente coscienza di sé e del dolore che le arrivava da ogni parte del corpo, di rimanere di pietra di fronte all’orrore che le si parò innanzi.

Gli EDA, tutti, erano stati spazzati via; ma Klaus, Vincent, il signor Gullit, Ashley Thunterscott, e tutti gli altri… anche loro erano morti, ammassati senza vita l’uno sopra l’altro, sballottati via come bambole di pezza dalla potenza del colpo ricevuto.

Provò a chiamarli, a scuoterli, nella speranza di vederli riaprire gli occhi, ma nessuno le rispose.

Nessuno. Solo lei era sopravvissuta; un pensiero che la fece nuovamente cadere in ginocchio, il volto nascosto dietro le mani e gli occhi segnati dalle lacrime.

«Che sta succedendo qui?» urlò istericamente.

Poi, d’un tratto, il suo computer da polso si mise a gracchiare; nonostante i colpi presi e le crepe sul monitor, incredibilmente funzionava ancora.

«Amanda? Mi senti? Amanda!».

Lei, singhiozzando, guardò lo schermo, vedendovi comparire a fatica il mezzobusto di Mayu.

«Meno male, almeno tu sei ancora viva.

Devi andartene subito. La MAB sta attaccando il Megonia

«La… la MAB!?» esclamò sgranando gli occhi. «Che significa?»

«Ho intercettato le loro comunicazioni. Vogliono arrestare l’infezione con qualunque mezzo, anche a costo di sacrificarci tutti.

Devi andartene subito. La nave per ora resiste, ma basterà un altro colpo per farla affondare».

Dapprincipio, però, Amanda non volle neanche prendere in considerazione l’idea di scappare: non lei sola. Cosa aveva fatto di diverso per meritare di sopravvivere a quella follia?

«Ma… il Capitano… e Ulrich… e Helen…»

«Sono tutti morti, Amanda! Sei rimasta solo tu!»

«E… e tu? Tu puoi salvarti. Aspetta, ora ti raggiungo e…»

«È inutile» rispose Mayu apparentemente senza esitazioni, cercando di non tradire il suo vero stato d’animo. «Ho già provato a fare il log-out, ma non ci sono riuscita. Morpheus deve essersi guastato».

Allora, era dunque destino che dovesse salvarsi solo lei. Ma perché? Non riusciva ad accettarlo.

«No…» balbettò attonita. «Non puoi chiedermi questo. Non posso lasciarvi. Io…»

«Amanda, tu devi vivere!» le ordinò Mayu con veemenza. «Se muori anche tu, non sarà uscito niente di buono da questo maledetto inferno, lo capisci?».

Amanda rimase di sasso, non riuscendo a replicare, mentre nel suo animo si agitavano sentimenti contrastanti. Da una parte non le sembrava giusto abbandonare tutto e tutti per salvarsi, dall’altra invece sentiva che solo vivendo avrebbe potuto dare un senso a tutta quella tragedia.

«Vai, ora» le disse Mayu pacatamente. «Cercherò di farti guadagnare tempo. Raggiungi le scialuppe e lascia subito questa nave maledetta. Con un po’ di fortuna, dovresti poterti salvare».

La comunicazione a quel punto scomparve, ma Amanda non stette a lungo ad osservare il monitor annerirsi fino a soccombere del tutto ai danni che lo avevano segnato, e cercando di tacitare una voce della vergogna che la esortava a rimanere fece per andarsene.

Era praticamente già uscita dalla stanza, quando da un corpo rannicchiato e raggomitolato in un cantone lì vicino giunse un rantolo soffocato, ed avvicinatasi con qualche esitazione assistette con i suoi occhi a quello che, in quel momento, aveva tutta l’aria di un vero miracolo.

Johanna, quella Johanna che fin dal giorno delle sue nozze non aveva mai fatto altro che litigare come una figliastra Hilda, con il suo ultimo respiro si era avvolta attorno alla bambina come una seconda placenta, rimossa la quale Amanda vide emergere la piccola moribonda e priva di sensi, ma incredibilmente ancora viva.

Una volontà divina, o forse solo l’amore di una madre cui la mancanza di un legame genetico non aveva impedito di comportarsi come tale, le aveva salvato la vita, e ora stava ad Amanda far sì che quel sacrificio, così come quello di ogni altra singola vittima della follia del Megonia, non andasse sprecata.

Presala tra le braccia, ricevendo in cambio un gemito un po’ più forte, la ragazza si avviò barcollante verso l’uscita.

 

I membri del Consiglio di Sicurezza avevano accolto con un certo stupore il vedere il Megonia incassare un colpo tanto potente danneggiandosi gravemente, ma seguitando nonostante ciò a galleggiare agonizzante rifiutandosi di cadere.

In fin dei conti, era stata progettata pur sempre come una nave da guerra. E in quanto tale, oltre che di un’ottima corazzatura ed efficaci scudi protettivi era stata equipaggiata anche con un arsenale di tutto rispetto.

La maggior parte di quelle armi erano state smontate con la riconversione, ma gli armatori avevano avuto la sagace idea di lasciarle qualche arma difensiva ad energia; niente di eccezionale, ma abbastanza per dare filo da torcere a qualche pirata ardimentoso che avesse avuto la malaugurata idea di attaccarla.

Delle feritoie si aprirono alle spalle della torre del ponte, e da esse sbucarono fuori alcuni cannoni binati che puntarono verso l’Aurora e fecero fuoco all’unisono; ci voleva ben altro per incrinare un vascello di tali dimensioni, ma ciò nonostante in plancia lo scossone prodotto dall’urto si sentì vistosamente.

«Che diavolo è successo?» strillò Nolan contrariato. «È opera di qualche detrito?»

«È il Megonia!» rispose attonito Aoyama. «Il Megonia ci sta sparando!»

«Come ci sta sparando!?».

Prima che tutti potessero riaversi dalla sorpresa arrivò una seconda bordata, ma stavolta l’urto risultò così violento che qualcuno volò giù dalla propria poltrona, e subito dopo alcuni allarmi risuonarono tutto intorno.

«Hanno colpito il sublimatore magico! Odin è fuori uso!»

«Maledetti bastardi» ringhiò Nolan a denti stretti. «Se volete la guerra, vi accontentiamo subito. Preparare il resto delle armi! Sbricioliamo quella nave una volta per tutte!».

 

Forse il Megonia riusciva ancora a galleggiare, ma certo non avrebbe resistito a lungo.

Al suo interno, la distruzione regnava sovrana.

Ovunque era un susseguirsi di crolli, deformazioni della struttura, incendi, ma soprattutto di morte; forse il virus che oltre alla mutazione provocava anche il disfacimento dei corpi stava risentendo degli effetti del vuoto cosmico o del potere del raggio emesso dall’Odin, ma i corridoi, i saloni e le stanze che Amanda si ritrovò ad attraversare pullulavano di creature morte o morenti, alcune orrendamente sfigurate e mutilate, quasi che nel loro ultimo rantolo di agonia avessero cercato di sopravvivere compiendo atti ai auto-cannibalismo.

Amanda procedeva a fatica, la caviglia sinistra che a causa di una storta la faceva gemere di dolore ad ogni passo, ulteriormente appesantita dal fardello della piccola Hilda, che per tutto il tempo seguitò a rimanere priva di sensi evitandosi, almeno, quell’orribile spettacolo.

Ad ogni tremore o scossone la ragazza temeva per la loro vita, figurandosi di vedere da un momento all’altro il Megonia spaccarsi in più tronconi per poi esplodere, e allora procedeva più rapidamente, soffocando le urla nella bocca con lo stivale che andava tingendosi di rosso.

L’aria, appesantita dal fumo e prosciugata del suo ossigeno dal fuoco, si faceva sempre più irrespirabile, tanto che ad un certo punto Amanda fu costretta a far comparire il proprio casco e a recuperare da un armadietto d’emergenza una maschera di soccorso per Hilda, rendendo la marcia verso la salvezza ancor più faticosa e apparentemente infinita.

All’ingresso nel ristorante, un’improvvisa esplosione per poco non investì entrambe in pieno, ma superato anche quell’ultimo ostacolo Amanda riuscì finalmente a raggiungere le scialuppe. Era così stanca che dovette percorrere gli ultimi metri quasi gattonando sul terreno, e aperta la botola di emergenza ebbe a malapena le forze di gettarvisi dentro assieme ad Hilda, riuscendo a chiudere il portello giusto in tempo per evitare l’arrivo di una violenta onda di fuoco che arroventò, senza per fortuna danneggiarla, la superficie vetrata.

Come il congegno di distacco fu sbloccato la capsula venne sparata via dal suo guscio, allontanandosi a grande velocità proprio nell’istante in cui, dall’Aurora, veniva lanciata una selva di missili antinave.

Amanda ebbe appena il tempo di affacciarsi dall’oblò, assistendo con i suoi occhi all’ultimo respiro del grandioso transatlantico Megonia, il Gioiello dello Spazio, che centrato in tutti i suoi punti più sensibili esplose in modo talmente violento da non lasciare dietro di sé null’altro che una massa informe di detriti non più grandi di una valigia, scomparendo nel nulla assieme al suo carico di vite, anime senza nome di cui non restava più neppure la cenere.

Non le riuscì di piangere; forse ciò a cui aveva assistito in quella che solo poche ore prima era iniziata come una giornata assolutamente normale le aveva tolto anche la forza e l’animo necessari per versare delle lacrime, o forse era il pensiero di aver salvato almeno una vita a far nascere dentro di lei la convinzione che, in qualche modo, non tutto era andato perduto.

Le avrebbero ritrovate solo due giorni dopo, sulla superficie di Neos, al limitare della griglia 15, nell’ultimo lembo di satellite al di fuori della Zona Oscura, da una delle navette inviate a proprie spese dal Direttore Shane alla disperata ricerca di superstiti.

Coloro che la conoscevano, e che poterono guardarla negli occhi al momento del salvataggio, avrebbero detto in seguito che quella che uscì da quella capsula non era più l’Amanda Gerth che era partita per raggiungere il Megonia.

 

Amanda voleva che fosse resa giustizia, ma voleva anche che quello che restava della vita di Hilda non andasse perduto.

Ma il cielo, dopo averla salvata, sembrò invece essersi dimenticato di quella poveretta.

Al suo risveglio, in un ospedale militare dove entrambe furono portate, Amanda restò di sasso quando la guardò negli occhi. Non c’era niente al loro interno, erano sfere colorate senza alcuna luce; come se la sua anima le fosse stata strappata, o fosse finita in pezzi sotto il peso di tutto quell’orrore, non ultimo l’aver visto probabilmente morire sua madre subito prima di svenire.

Secondo i dottori si trattava di una forma particolarmente grave di stress post-traumatico, che aveva comportato uno shock emotivo tale da aver causato uno stato catatonico simile ad una forma di coma vigile, da cui non era detto si sarebbe un domani risvegliata.

Sentendo quelle parole, Amanda si era ripromessa di aiutare in ogni modo Hilda a tornare la bambina solare e vivace che, pur non avendola mai conosciuta prima di quel giorno, era certa fosse stata.

E per farlo, non aveva avuto altra scelta che abbassare la testa.

La MAB era potente. Troppo potente. E aveva troppo da perdere a permettere che qualcuno raccontasse la vera storia del Megonia.

In altri tempi non si sarebbe fatta spaventare dalle loro minacce, non dopo essere sopravvissuta a qualcosa di così incredibilmente simile all’inferno; ma Hilda, lei era la sua debolezza.

Una bambina orfana, a detta dei più ormai mentalmente instabile in modo permanente, ma con un patrimonio stimato in oltre due miliardi di kylis era una preda fin troppo ghiotta per squali ed avvoltoi pronti a fiondarsi su di lei alla prima occasione.

La possibilità di restare vicino ad Hilda e proteggerla fu la tangente con la quale la MAB riuscì a comprare il suo silenzio.

Amanda si sentì morire dentro nell’istante in cui firmò l’affidamento della bambina; da una parte sapeva di stare facendo la cosa giusta, dall’altra sentiva di aver appena svenduto il sacrificio di migliaia di persone.

Ma lei non era Klaus, o Joe, o il Capitano Klopfer: lei non aveva la forza di lottare.

Lei voleva solo il bene di Hilda.

Per i suoi compagni ci sarebbero stati medaglie e onori, avanzamenti postumi di grado e solenni funerali, oltre a scuole, accademie e altri luoghi simbolici eretti in loro memoria, ma la realtà era che nessuno avrebbe mai conosciuto realmente il valore delle loro azioni, né il modo in cui erano morti.

Quanto a lei, oltre alla custodia di Hilda le fu dato ciò che, in cuor suo, come ogni altro giovane Agente aveva sempre desiderato: un ufficio, continue promozioni, e un impiego di tutta sicurezza che le avrebbe portato soldi e notorietà. Ma la verità, e lo sapeva bene, era che quella divisa era in realtà la prigione nel quale la MAB l’aveva rinchiusa, e in cui sarebbe rimasta intrappolata per il resto della sua vita; fintanto che l’avesse indossata l’Agenzia avrebbe avuto in mano il suo corpo, il suo destino, e la sua anima.

Sapeva che avrebbe sofferto, ma la riteneva una giusta punizione: la punizione per aver permesso alla verità sul Megonia di scomparire nell’immensità dello spazio. Quelle anime, quei fantasmi rimasti senza giustizia, l’avrebbero tormentata per sempre, come era giusto che fosse.

 

Passarono i mesi.

Hilda venne trasferita nella residenza di campagna della sua famiglia ad Amaltea, ma neanche questo sembrò sufficiente ad accendere qualche barlume di speranza.

Mangiava, beveva, e qualche volta sembrava anche percepire qualcosa del mondo che la circondava, ma in realtà era come un guscio vuoto.

Passava le giornate da sola, nella sua stanza, seduta sul letto a fissare il vuoto, con le numerose domestiche ed inservienti che cercavano come potevano di esserle d’aiuto aiutandola a mangiare, spazzolandole i capelli, o anche solo tenendole compagnia, ma ogni tentativo di suscitare in lei una qualche reazione, o anche solo di farla parlare, andava a sbattere ogni volta contro il muro con il quale la sua anima sembrava essersi isolata dal resto del mondo.

Amanda passava a trovarla ogni volta che poteva, trasferendosi definitivamente a casa sua quando il suo passaggio alla sede di Otisa divenne esecutivo, ma anche per lei le cose, con il tempo, iniziarono ad andare male.

La rivelazione portata dal Direttore Shane aveva aperto gli occhi al mondo su quanto realmente accaduto a bordo del Megonia, ma aveva anche generato una situazione politica e diplomatica che rischiava di gettare Celestis in preda al caos.

Come un violento ceffone che risveglia troppo presto da un bel sogno, quelle immagini così crude diffuse in ogni parte del pianeta risvegliarono in un sol colpo la coscienza collettiva, la quale giunse quasi all’unanimità ad una considerazione tanto evidente quanto drammatica: la MAB era troppo potente.

Era nata come un organo di sorveglianza con il compito di tramutare uno sparuto gruppo di coloni negli abitanti di una nuova Terra, e fare di Celestis una sorta di realtà superiore, ma negli anni aveva finito per abusare del suo potere, tramutandosi in una organizzazione paramilitare capace di agire a qualsiasi livello senza doverne rendere conto.

E visto che il Megonia era una nave di Amaltea, fu proprio ad Amaltea che quella sorta di focolaio di insoddisfazione assunse ben presto i connotati più drammatici, con un movimento di opposizione all’Agenzia che diventava di giorno in giorno sempre più incontenibile.

Ma di tutto questo Amanda non se ne curava: tutto quello che voleva era poter aiutare Hilda.

Avrebbe pagato qualunque cosa per vederla sorridere di nuovo, scacciare dalla sua mente i fantasmi del Megonia, ma per quanto ci provasse neppure lei sembrava in grado di rompere quel muro che la teneva prigioniera.

Un tardo pomeriggio d’estate, Hilda era sempre lì, nella sua stanza, l’espressione immobile e gli occhi fissi innanzi a sé, come una bambola di ceramica bellissima all’esterno ma in pezzi nell’animo.

Tra le cameriere e gli inservienti si vociferava che Amanda fosse stata richiamata a Kyrador, e a detta di molti probabilmente era solo una questione di tempo prima che tutte le sedi di Amaltea venissero chiuse a tempo indeterminato sotto la spinta pressante del dissenso popolare, con il rischio evidente che la loro signora si vedesse costretta a scegliere tra lasciare l’Agenzia e lasciare il Paese.

D’un tratto, due inservienti entrarono nella stanza tutte trafelate.

«Venite, signorina» dissero spingendo una sedia a rotelle. «La signora vuole vedervi».

Hilda venne vestita, pettinata e portata in giardino, dove trovò ad attenderla una maestosa mongolfiera dal pallone tutto colorato già pronta a partire. In piedi nel cestello, Amanda la guardava sorridendo, e di fronte a quella scena qualcosa parve muoversi; Hilda, a fatica, alzò gli occhi, quasi a voler cercare quelli della sua nuova madre adottiva.

«Bene arrivata. Forza, sali a bordo. C’è una cosa che voglio farti vedere».

Pur con qualche esitazione i domestici caricarono Hilda sul pallone, che ad un cenno di Amanda venne liberato dal suo ancoraggio sollevandosi immediatamente dal cielo.

Poco per volta, apparve dall’alto prima la imponente Villa Krietzmann, poi la scintillante Otisa, protesa gentilmente e con garbo sulle sponde del Lago Biwa, poi ancora l’intera vallata di Wermer, fino a che tutto attorno non vi fu altro che una infinita distesa di montagne e basse colline, illuminate dalla luce rossastra del tramonto che tingeva la roccia di blu e le nuvole di un arancio pastello, segni scomposti e insieme bellissimi dipinti sulla sconfinata tela azzurra sopra le loro teste.

In lontananza, verso ovest, il sole era quasi tramontato; sembrava un enorme buco rosso aperto nel cielo, sforzandosi di gettare i suoi ultimi bagliori sulle alte montagne di Amaltea prima di scomparire oltre le loro ripide cime, mentre un piacevole vento in arrivo da nord sospingeva la mongolfiera e scompigliava i capelli.

«Devi tornare Hilda!» disse Amanda stringendola forte, e bagnandole i capelli con le proprie lacrime. «Torna da noi! Ti prego! È tutto finito! Ci sono io qui con te! Apri gli occhi! Apri gli occhi, bambina mia!».

Quelle parole scesero fin nel profondo, e nell’istante in cui l’ultimo raggio di sole le colpiva gli occhi altre parole, molto simili, risuonarono nella mente della bambina.

Và tutto bene, bambina mia! Chiudi gli occhi!

Forse, inconsciamente, era questo che aveva fatto: aveva chiuso gli occhi.

Su tutto. In attesa di trovare qualcosa, o qualcuno, in grado di farglieli riaprire.

Qualcosa parve muoversi all’interno del suo sguardo, come se quell’ultimo raggio di sole avesse trovato la forza per andare a rischiarare quella sua anima addormentata e rinchiusa dandole nuova vita.

Poi, avvenne il miracolo, e come una macchina rimessasi improvvisamente in moto dopo un lungo silenzio la mente, il cuore e lo spirito Hilda si ridestarono come da un lungo sonno così, da un istante all’altro, quasi quei lunghi mesi non fossero mai esistiti.

Gli occhi, quei suoi bellissimi occhi verdi, si riaccesero come stelle, il volto riprese il suo colore, e con aria spaesata la bambina si guardò attorno meravigliata e confusa.

«Amanda!?» disse riconoscendo la giovane che piangeva di gioia nell’abbracciarla con tutte le sue forze. «Che cosa è successo? Dove siamo?».

 

La giovane donna si posò una mano sul seno, lasciandosi pervadere dal piacevole tepore che le riscaldava il cuore ogni qualvolta ripensava a quella storia.

Tante cose erano cambiate da quel giorno così lontano nel tempo, non solo per lei.

Non poteva ricordare, ma sapeva cosa fosse successo. Così, come la sua nuova madre, aveva deciso di dedicare la propria vita agli altri, per dimostrare di meritare il sacrificio fatto da tanti per salvare la sua.

Usando ogni singolo kylis della sua cospicua eredità aveva aiutato chiunque fosse stata in grado; aveva fatto costruire scuole, ospedali, interi villaggi, e aveva donato quel poco che le era rimasto a quella grande confraternita del quale, come ultimo atto di sacrificio, ora si accingeva a diventare parte.

Se qualcosa di buono era mai venuto fuori dalla Tragedia del Megonia, benché quasi metà del mondo pensasse il contrario, questa era stata proprio la Chiesa della Santa Croce.

Risvegliando le coscienze riguardo al preoccupante ordine mondiale venutosi a creare negli ultimi centocinquant’anni, il Megonia e ciò che ne era seguito aveva contribuito a rendere evidente agli occhi di molti un’altra realtà innegabile: l’Umanità aveva dimenticato l’importanza del proprio dono.

Perché questo era la magia: un dono bellissimo e preziosissimo, di cui però gli esseri umani avevano finito per abusare, nell’illusione tutta terrena di poterla soggiogare e controllare così come, fin dagli albori della storia, avevano controllato il Fuoco, il Vapore, l’Elettricità e l’Atomo.

Ma la magia non era solo una fonte di energia: la magia era la vita.

Tutto esisteva grazie ad essa, eppure di lei si sapeva ancora così poco.

Nasceva dal mondo, e ad esso ritornava, in un ciclo senza fine che, secondo i precetti del culto, rispecchiava quello dell’esistenza terrena: un continuo susseguirsi di rinascite, nell’attesa di veder compiuto il proprio cammino di redenzione.

Perché l’Uomo, in fin dei conti, altro non era che una delle innumerevoli creature che esisteva grazie a quella scintilla di magia che ogni essere vivente portava dentro di sé, ma la cui purezza veniva inevitabilmente sporcata dalle emozioni negative proprie dell’uomo.

Solo purificando questa energia, come una pietra preziosa ripulita dal fango, era possibile tornare a far parte del Grande Ciclo che regolava tutte le cose, restituendo la propria scintilla a quel mondo dal quale proveniva; così facendo si diventava parte di quella stessa energia, e di conseguenza dell’intero ordine cosmico.

La bontà, la carità e la preghiera erano gli strumenti migliori per giungere a questo faticoso traguardo, e una vita sola di sicuro non era sufficiente per arrivare alla meta.

Per Hilda, poi, sarebbe stato ancora più difficile, poiché in sé sentiva di portare anche l’energia e lo spirito di tutti i suoi compagni di sventura periti sul Megonia: anche per loro avrebbe pregato, come aveva fatto ogni giorno da che la sua anima era tornata a vivere, sì da essere degna del dono che le avevano fatto.

Non sarebbe stato facile, lo sapeva molto bene, ma sapeva di non essere sola, e questa era la vera sorgente della sua forza, oltre che della sua incrollabile fede.

Una giovane donna, vestita come lei, ma con in più un’elegante coroncina poggiata sul capo cui era legato un velo che discendeva elegantemente lungo la schiena fino ai glutei, bussò due volte alla porta della stanza, aprendola leggermente.

«Sorella» disse con un filo di voce. «È tutto pronto.»

«Arrivo» rispose lei con un sorriso.

 

La grande cattedrale del monastero era arricchita dei suoi più scintillanti paramenti di festa, e tantissima gente si era riunita per assistere alla cerimonia.

Tutti coloro che quell’angelo disceso in terra aveva aiutato nel corso della sua vita erano voluti essere presenti, ed erano talmente tanti che la chiesa, per quanto grande, non era riuscita ad accoglierli tutti.

L’organo e gli archi presero a suonare, le porte si aprirono, e Sorella Hilda, come sarebbe stata chiamata ancora per poco dai molti che vedevano in lei un incrollabile baluardo nei momenti difficili, avanzò lentamente attraverso la navata, il capo chino, gli occhi chiusi e le mani giunta alla base del ventre.

Giunta ai piedi dell’altare, dinnanzi alla grande statua dell’angelo dalle ali spiegate, si inginocchiò sul cuscino preparato per lei, gettando un rapido sguardo prima alla giovane donna seduta in prima fila, con la quale si scambiò in rapido sorriso, poi alle otto fotografie disposte l’una accanto all’altra sopra dei piccoli treppiedi, lasciandosi sfuggire una lacrima di commozione.

Sua santità Ruggero Luini, supremo vicario della Santa Croce, primo pontefice della storia della Chiesa, le si avvicinò con indosso i paramenti sacri e il bastone d’argento stretto in una mano, che con un delicato cenno della mano poggiò leggermente sul capo della giovane.

«Nel nome di Dio e della Santa Croce, in nome del potere conferitomi dal mio sacro uffizio, io ti riconosco ufficialmente come membro del nostro ordine.

Da questo momento, sei una serva del nostro Grande Padre Celeste. Dedicherai la tua vita al bene del prossimo, e non avrai altro scopo nella vita che servire Nostro Signore, nell’attesa che giunga per te il momento di tornare al Grande Ciclo.

Qual è il nome che hai scelto per la tua rinascita, sorella?».

La giovane si pensò un momento, chinando di più il capo, poi, con un filo di voce, disse:

«Johanna, vostra santità. Johanna sarà il mio nome da oggi in avanti».

A quel punto, il Santo Padre posò il bastone, e chiamato a sé un altro sacerdote prese una boccetta di vetro dal contenitore ligneo che questi teneva, aperto, tra le mani.

La tradizione diceva trattarsi di magia condensata e portata allo stato liquido, una cosa assolutamente impossibile secondo le attuali conoscenze scientifiche, tanto che secondo i laici si trattava probabilmente solo di un qualche intruglio frutto del ciarlatano di turno.

«Come la pioggia cadiamo» disse Sua Santità passando il contenitore, sigillato, sulla fronte della giovane. «Come la rugiada scompariamo. Come l’acqua scorriamo. Che la tua anima ed il tuo spirito siano illuminati dalla luce divina, e che il destino ti sia propizio, nell’attesa che ogni cosa torni al Grande Ciclo».

Un’altra sorella giunse alle spalle della ragazza, ponendo sulla sua testa la coroncina con il velo; Hilda sentì uno strano tremore sentendone la pressione sul capo, una sensazione bellissima che le fece vibrare il cuore.

«Alzati, Sorella Johanna».

 

  
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