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Autore: La neve di aprile    27/06/2014    1 recensioni
Chiudere gli occhi non significava trovare la pace di un buio forzato, ma rivivere con metodica, precisa sofferenza ogni singolo istante che avevano condiviso assieme. I sorrisi separati solo da una scrivania e la brutta copia di un bancone, la consistenza ruvida delle sue carezze nell'incavo del collo, il rumore dei suoi respiri mentre dormiva, la gentilezza con cui le aveva scostato i capelli fradici di pioggia la fatidica sera in cui aveva attraversato ogni confine e infranto ogni regola per avventurarsi sull'insidiosissimo terreno di una felicità precaria al punto da implodere in se stessa, lasciandosi alle spalle un cimitero di speranze e possibilità infrante.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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IV
 

Silenziosissimo, il corridoio era straordinariamente affollato: nella luce fredda di una mattinata grigia come il ferro, nugoli di studenti aspettavano più o meno coraggiosamente il loro turno per sfilare all’interno del piccolo studio annidiato accanto alle grandi porte chiuse dell’Aula magna.
Viola posò il plico di appunti sulle ginocchia, reclinando il capo fino a posare la nuca contro la parete spoglia alle sue spalle mentre Claudia continuava a consumare suole e pavimento andando avanti e indietro davanti a lei.
“Mi stai facendo venire la nausea” protestò fioca, gli occhi serrati e la fronte corrugata in un reticolo di rughe appena visibili, preoccupate.
“Tesoro, incolpa Cecchini e non me” la rimproverò Claudia caustica “è la sua materia di merda a farti salire il vomito.”
Viola tacque, soppesando silenziosamente il livello di nervosismo implicito nella voce della sua amica. La conosceva abbastanza da sapere che, quando faceva così, quando indossava la maschera della dura e si scagliava contro tutto e tutti senza distinzioni, era per non svelare come al di sotto della maschera ci fossero lacrime pronte a scorrere bollenti. Senza insistere, tornò ad abbassare lo sguardo sui suoi appunti e sospirò silenziosamente.
Era la prima volta che affrontavano l’esame ed era la prima volta che si trovavano nella condizione di dover mettere a confronto anni e anni di dicerie terribili con la loro personale esperienza.
Cristiano Cecchini, docente di Diritto internazionale dei diritti umani, vantava un curriculum notevole e non solo in ambito accademico: famoso per la sua totale e palesemente dichiarata noncuranza nei confronti dei suoi studenti, tristemente noto per le scenate che inframezzavano le sue lezioni come fossero banalissimi intercalari, conosciuto per la spietata freddezza delle sue interrogazioni al limite dell’impossibile, era da sempre considerato uno dei mostri – nel senso più letterale del termine – dell’università. Viola non aveva avuto modo di scoprirlo sulla propria pelle, aveva dovuto rinunciare a frequentare le lezioni a causa del lavoro, ma i resoconti delle sue amiche erano stati sufficienti a farle venire la pelle d’oca.
Niente a che vedere con quella che le increspava le braccia in un brivido quando incrociava Enrico per la palestra.
Non era capitato spesso, ultimamente, e quando era capitato non c’era mai stata occasione per lanciarsi oltre la consistenza appiccicosa di un’occhiata trascinata un po’ troppo a lungo, o una cortesia un po’ impostata nel rivolgersi la parola per cancellare una prenotazione o rinnovare l’abbonamento.
Aveva come l’impressione che lui si stesse trattenendo nella stessa misura in cui lei, disperatamente, cercasse di lasciarsi andare. Magari così sarebbe stato più facile trovarsi a metà strada. O magari, semplicemente stava facendo la figura della povera scema con un’infatuazione imbarazzante.
Eppure, non riusciva a scrollarsi di dosso le parole di Giada: ti guarda come si guarda un cioccolatino che non si vede l’ora di scartare.
Non erano parole buttate lì a caso, Enrico dava effettivamente l’impressione di non limitarsi a guardare il verde acido della polo che indossava, ma di volergliela effettivamente sfilare di dosso. Ogni tanto lo scopriva assorto a fissarla, mentre chiacchierava con i suoi amici aspettando Gian, sempre l’ultimo ad uscire dallo spogliatoio. Alzava gli occhi dalle ricevute che stava riordinando e si ritrovava i suoi occhi bui addosso, aggrappati al suo volto in una carezza disperata, accesi da una sfumatura che la lasciava senza fiato. E confusa, perché poi la volta dopo a malapena salutava, a malapena le rivolgeva la parola, a malapena dava segno di aver registrato la sua presenza.
Se era un gioco, si era lamentata con Giada, era uno di cui non conosceva le regole e palesemente non era neppure così tanto portata se continuava a fraintendere le mosse di Enrico.
Se era un gioco, le aveva fatto notare Giada, allora forse avrebbe dovuto pensare meno e divertirsi di più, senza tormentarsi sul significato che uno sguardo poteva avere: l’aveva guardata, e tanto avrebbe dovuto farsi bastare.
Con un sospiro, tornò a guardare gli appunti posati sulle gambe. Si sentiva addosso un senso di malessere che non sapeva spiegarsi, un velo d’angoscia che le rubava il fiato e che aveva sempre associato a tutta una serie di cose che non voleva fare. Rimettere a posto la stanza, le pulizie, scacciare i clienti ritardatari dalla sauna. L’esame.
Erano mesi che lo preparava, mesi di tortura, mesi passati seduta ad una scrivania con davanti dei libri più pesanti della Columbo quando era in vena di lamentele, mesi di appunti e mappe mentali con cui aveva rinnovato la tappezzeria di casa. Mesi di fatica, preoccupazioni, tensioni – e adesso stava per giocarsi più giorni di quanti potesse contare in una manciata di minuti, sulla base del giudizio di un professore che aveva letteralmente appena fatto scappare una ragazza in lacrime.
La guardò sfrecciare lungo il corridoio, inorridita quasi quanto Claudia che, dopo un istante di silenzio incredulo, esplose nella bestemmia più irripetibile che Viola avesse mai sentito pronunciare in vita sua. Non ebbe il tempo di commentare, però, perché dall’ufficio in fondo al corridoio risuonò una voce lugubre e vagamente annoiata, che chiamava il suo nome.
 
 
Viola si soffiò il naso, per l’ennesima volta, cercando di frenare l’impulso di scoppiare a piangere.
Senza guardare alla donna che le stava davanti, le porse il suo tesserino con il mese di novembre scalato e la ricevuta di pagamento.
“Dannato raffreddore!” mentì spudoratamente, sperando che l’ipotesi di una infreddatura potesse giustificare il naso e gli occhi arrossati.
“Povera stella!” cinguettò lei in tutta risposta, senza neppure guardarla, prima di scivolare verso lo spogliatoio femminile e svelare l’espressione preoccupata di Renata, in attesa.
Si sentì pizzicare gli occhi all’improvviso, e la voglia di scappare via e piagnucolare al telefono con sua madre la investì tutto d’un colpo.
“Oh, tesoro…” sospirò la donna.
“Ciao” pigolò Viola, ormai certa del tremore incontrollato delle proprie labbra e della propria voce.
“Non dire niente, Claudia mi ha raccontato tutto. Che individuo spregevole, sono davvero senza parole!”
“Purtroppo è lui ad avere il coltello dalla parte del manico…”
“Questo non lo autorizza ad umiliare le persone a cui dovrebbe insegnare qualcosa!”
Viola rise dell’indignazione della donna, concedendosi per qualche istante il lusso di lasciarsi scaldare dalle sue parole, rivivendo per la millesima volta quello che era decisamente schizzato in cima all’elenco delle cose più umilianti che le fossero mai capitate.
Non era partita benissimo, questo era vero. La prima domanda l’aveva trovata impreparata e l’agitazione che aveva addosso non le era stata d’aiuto quando si era trattato di rielaborare tutto quello che aveva studiato per mesi e riadattarlo in una risposta che non lasciasse intendere quanto poco avesse colto il punto dell’interrogativo. Quando poi finalmente era riuscita a mettere a fuoco la questione, lo sguardo del professore non lasciava dubbi su come il colloquio si sarebbe concluso. Ma si era barcamenata con grazia, aveva risposto puntuale, e questo se possibile lo aveva fatto infuriare ancora di più, così l’esame si era trasformato rapidamente in un’agonia. Non potendola obiettivamente bocciare, l’uomo aveva optato per l’umiliazione e aveva iniziato a divagare, interrogandola su trattati che non facevano parte del programma, approfittando del fatto che, per età, non aveva modo di conoscerli. Ma il vero capolavoro era stato quando, alla fine di un balletto che aveva condotto con cattiveria inaudita, aveva indossato gli occhiali da sole e le aveva sputato addosso un numero così basso che Viola era inorridita e aveva rifiutato d’impulso, alzandosi dalla sedia e scivolando fuori dallo studio a testa alta, prima che lui potesse cacciarla.
Le lacrime erano venute dopo, esplose letteralmente nel momento in cui aveva incrociato gli occhi grigi di Claudia, ed erano continuate per tutta l’ora successiva. Aveva pianto per rabbia, per frustrazione, per impotenza. Aveva pianto perché non era giusto, perché per quanto sapesse di non meritare un trenta era anche sicura di non meritare neppure quell’umiliazione. E aveva pianto per il peso di un fallimento che le era stato imposto per capriccio, certo, ma che sotto sotto sempre un fallimento restava.
“Ah, gira voce che se ne vada, l’anno prossimo. Male che vada, rifrequenterò e darò l’esame con il nuovo professore” sorrise senza allegria, stringendosi nelle spalle. Sapeva di non aver convinto Renata, ma la donna si limitò a serrare le labbra in una smorfia prima di sospirare. E gliene fu grata, perché per quanto bene le volesse, proprio non era nelle condizioni di continuare a parlare di quello che era successo. Voleva solo dimenticarlo, almeno per un po’.
“Vuoi fermarti a cena da noi, più tardi?”
“Grazie, ma voglio solo andare a casa e fare una doccia… la prossima volta, sicuramente.”
“Va bene tesoro. Ci vediamo domani!”
Viola sorrise, guardandola allontanarsi, e sbirciò l’orologio: ancora venti minuti e avrebbe potuto scappare via, rintanandosi sotto le coperte in compagnia della borsa dell’acqua calda e di un paio di calzettoni pesanti.
Stava già pregustando la pizza che avrebbe ordinato, da mangiare rigorosamente sul divano e davanti ad una puntata di qualcosa di estremamente lacrimevole o stucchevole – o meglio ancora, entrambi -, quando la porta dello spogliatoio maschile si aprì e lasciò uscire la combriccola dello spinning al gran completo.
Li seguì con la coda dell’occhio, invidiando per un momento le loro vite adulte, apparentemente prive di tutte quelle piccole complicazioni che sentiva pesarle sulle spalle. Cercava di non dare loro più peso di quanto meritassero, di ricordarsi che era solo la bruciante sconfitta a farla sentire così smarrita e inconcludente, di tenere a mente che non aveva proprio nulla di cui vergognarsi e che, al contrario, avrebbe dovuto esser fiera dei risultati che aveva raggiunto, della maturità che aveva conquistato.
Ma quanto avrebbe voluto, anche lei, essere nella condizione di frequentare una palestra nel tempo libero e non per lavoro! Quanto avrebbe voluto potersi permettere di avere del tempo libero per fare qualcosa che effettivamente le interessasse fare, senza nessun obbligo e nessuna costrizione! Aveva sempre avuto la tendenza ad autocommiserarsi un po’, quando sentiva di aver fallito qualcosa di grosso. E per l’impegno che ci aveva messo, era giunta alla conclusione che le era anche dovuto un po’ di sano conforto e che aveva tutti i diritti del mondo di lamentarsi e piagnucolare.
Incrociò lo sguardo di Enrico un istante prima che imboccasse le scale, ma non le riuscì di sorridergli. Al contrario, sentì di nuovo la tristezza gonfiarle il petto di un sospiro che tenne per sé, chinando il capo in una resa che la portò a fissare, per l’ennesima volta, gli incassi della giornata che ancora non aveva fatto quadrare.
 
 
Erano le nove e mezza passate, quando finalmente si lasciò alle spalle l’edificio ancora illuminato della piscina. Non era riuscita a far quadrare gli incassi e aveva dovuto andare a controllare quelli del turno precedente, per poi scoprire che era stata Paola, la responsabile, a prelevare i venti euro mancanti, senza degnarsi di avvisarla se non quanto, sentendosi uno straccio, l’aveva chiamata per informarla dei contanti scomparsi.
Erano le nove e mezza passate e pioveva così forte che aveva l’impressione di correre alla cieca lungo il marciapiede, verso la fermata dell’autobus. Nel buio della sera poteva ancora scorgerne le luci, ma sapeva di non avere più di una manciata di secondi prima che partisse, lasciandola lì ad aspettare per una mezz’ora abbondante o costringendola ad una camminata infinita attraverso la città.
Viola non ebbe il tempo neppure di gridare quando, ad un metro dalla fermata, vide le porte che si chiudevano. L’autobus si allontanò, nello scroscio assordante della pioggia, lasciandola ammutolita e senza forze. E prima che potesse scansarsi, la macchina che lo seguiva accelerò all’improvviso, investendola con un’ondata d’acqua gelida e sporca che le mozzò il fiato in gola. Completamente imbambolata, sconvolta, non ebbe neppure la prontezza di spirito di urlare qualcosa e si avviò mogia verso il riparo del gabbiotto malandato poco più in là, stringendosi addosso il cappotto completamente zuppo e guardando sconsolata alle ballerine – quella mattina di un bel rosa cipria – che per quanto carine potessero mai esser state, decisamente non erano adatte al nubifragio che cercava di affogare la città. Se non altro il raffreddore se lo sarebbe preso per davvero, questa volta.
Sconsolata, annichilita dalla piega spaventosa che la giornata aveva preso, si chiese perché la merda cercasse di inghiottire sempre le persone che meno le meritano. E tanto per esser sicura di trovare una risposta, inviò la stessa domanda alle sue amiche, digitando rabbiosamente un sms. Che le scivolò dalle dita umide, schizzando verso una pozzanghera poco distante.
Viola sentì di aver toccato il fondo, mentre si chinava per raccoglierlo e lo vedeva spegnersi con un pigolio di protesta. Non ne poteva più. Voleva andare a casa. Voleva la mamma. Voleva persino ascoltare i rimproveri burberi di suo padre e litigare con sua sorella per le cose più stupide. Ma sopra ogni altra cosa voleva togliersi di dosso i vestiti bagnati, e ripulirsi dalla tristezza di una giornata che non avrebbe dovuto essere così. Voleva rannicchiarsi sotto le coperte e piangere senza dover spiegare a nessuno del perché piangeva, ecco cosa voleva.
Sobbalzò quando la macchina le si fermo accanto, e l’autista si sporse verso di lei con un sorriso che le fece male.
 “Ti serve un passaggio?”
Enrico.
Sentì gli occhi pizzicarne e si morse le labbra, incapace di rispondergli. Lo guardò aggrottare la fronte, seguì il lampo di vaga preoccupazione che gli attraversò lo sguardo scuro e, prima di rendersene conto, gli chiese cosa ci facesse ancora lì.
“Ci siamo fermati a mangiare un boccone alla Bettola”, spiegò lui disinvolto, senza accennare a liberarla dal peso insistente del suo sguardo “nessuno di noi aveva una gran voglia di tornare a casa.”
“Io invece muoio dalla voglia di arrivarci…” si lasciò sfuggire Viola, lo sguardo basso e le mani strette attorno alla tracolla della borsa. Aveva come la netta sensazione che se lo avesse guardato per un altro po’, semplicemente si sarebbe rotta in un’infinità di pezzettini che nessuno avrebbe più saputo ricomporre. Avere l’esatta percezione della propria fragilità, se non altro, le aveva permesso di conoscere con precisione i propri limiti. Era una granata, pronta ad esplodere, i secondi che le rimanevano ticchettavano via assieme ai battiti del suo cuore.
“Dai, ti do un passaggio, sali… di autobus non ne arriveranno per un bel po’ e hai tutta l’aria di una che ha avuto una gran giornata di merda.”
Trattenne un singulto, sbattendo le ciglia come a voler arginare le lacrime che premevano per rotolarle lungo le guance. Si chiese se sarebbe stato capace di accorgersi che stava piangendo; con tutta l’acqua che aveva preso era probabile che la sua faccia fosse ormai ridotta ad una maschera di trucco sciolto.  
“Giuro, giuro che non ti chiederò mai uno sconto per questo!” insistette lui, quasi avesse intuito il suo sprofondare in una palude di tristezza e cercasse, con determinazione, di aiutarla a liberarsi dalle sabbie mobili. Suo malgrado, Viola rise. Fu una risata breve, però, presto soffocata dal singhiozzo che le risalì a tradimento la gola. Enrico, di nuovo, non diede segno di averci fatto caso, e spinse leggermente la portiera aperta verso di lei.
“Dai, Viola, andiamo. Non mi sento proprio di lasciarti qui così…”
Senza rendersene conto, lei si alzò dalla panchina umida e scivolò sul posto del passeggero. Richiuse la portiera con delicatezza, lasciando che il profumo sconosciuto della macchina e quello dell’uomo seduto a una manciata di centimetri di distanza l’avvolgessero in un bozzolo di calore. La pioggia ringhiò con più cattiveria, quasi il fatto che le fosse momentaneamente sfuggita l’avesse fatta inferocire. Sbirciò Enrico, che le chiese dove dovesse accompagnarla, e mentre gli bisbigliava il suo indirizzo con voce flebile si chiese se non stesse facendo qualcosa di estremamente stupido.
Non era una sprovveduta, non lo era mai stata, e sapeva che infilarsi nella macchina di un cliente, non solo suonava peggio di quel che realmente era, ma non era una grande idea e basta. C’era qualcosa, però, nella voce di lui – una nota di così tiepida preoccupazione – che le riusciva impossibile pensare che potesse davvero, intenzionalmente, farle del male. Che le sue intenzioni fossero meno che buone.
Poteva già sentire la voce acuta di Mia strillare in preda al panico, e immaginare lo sguardo allibito di Lucrezia. Giada probabilmente l’avrebbe abbracciata forte e fatto finta di niente, dando la colpa alla giornata orrenda, mentre Claudia… Claudia l’avrebbe schiaffeggiata. Senza dirle nulla, le avrebbe rivoltato il capo sul collo e tanto sarebbe bastato.
E avrebbe pure ragione, ammise Viola, rannicchiandosi sul sedile scuro di una Lancia Y straordinariamente simile a quella che aveva guidato il giorno in cui aveva preso la patente. Era una macchina sconosciuta, ordinata, senza pupazzetti sul cruscotto. Era la macchina di una persona che non conosceva, dove risuonava a basso volume un cd di Cremonini. Claudia avrebbe fatto più che bene, a schiaffeggiarla, ma proprio non riusciva ad identificare Enrico con una minaccia.
Il suo sguardo era buono, intriso di un’oscurità che non le faceva paura ma la invitava ad abbandonarsi ad un sogno ad occhi aperti, trapunto delle stelle del sorriso che gli curvava le labbra mentre commentava qualcosa sul mal tempo e sull’acqua che si schiantava a terra.
“Scusami, ti sto affogando la macchina” squittì in preda al panico, assordata dal picchiettare violento della pioggia sulla vettura, interrompendolo di punto in bianco.
“Ma per l’amor del cielo, preferiresti affogare tu, standotene li fuori tutta sola?” Enrico scosse il capo, passandosi una mano tra i capelli ancora umidi. Incerta, Viola tentennò appena. Lui mise in moto, e una carezza d’aria calda abbandonò il riparo sicuro di un bocchettone per blandirle i piedi.
“Beh, grazie allora…” sussurrò, afflosciandosi nuovamente contro lo schienale e chiudendo gli occhi. La macchina si immise nel traffico, sostanzialmente inesistente, della sera. Era così stanca che, francamente, le sarebbe importato ben poco del morire sotto tutta quella pioggia. Le sarebbe importato poco persino se fosse stato lui ad ucciderla – doveva ricordarsi di dire a Claudia che uno schiaffo non era abbastanza per inculcarle in testa che in macchina con gli sconosciuti non si va. Soprattutto quando gli sconosciuti hanno occhi che sembrano volerti mangiare dentro.
Smise di guardarlo, e finse che lui facesse lo stesso, ignorando il peso del suo sguardo che di tanto in tanto tornava a frugarla come a volersi accertare che fosse ancora tutta intera. Posò la testa contro il finestrino, premendo la pelle contro il vetro freddo, e chiuse gli occhi.
Il tempo si trascinava lento, infinitamente lento, e man mano che i minuti scorrevano sfocati oltre la pioggia e i confini sicuri della macchina, Viola aveva l’impressione che il suo non riuscire a parlare con Enrico, così tranquillo accanto a lei, fosse l’ennesimo segno del suo totale fallimento.
Aveva sperato in un’occasione come quella, ci aveva fantasticato sopra, ricamando dettagli e particolari così realistici che crederli inventati non sembrava possibile, sin dal primo giorno in cui l’aveva visto comparire in cima alle scale in un pomeriggio di inizio settembre. Era approdato al bancone con un sorriso sfrontato, da solo, e aveva bisogno di tredici secondi per ricordarsi di essere in grado di parlare. Lo sapeva perché li aveva contati e li aveva visti crescere con un panico sempre crescente mentre lui aspettava, senza metterle fretta, limitandosi a ridere con gli occhi.
Solo qualche settimana prima si era ritrovata a sognare ad occhi aperti, pigiata in un autobus troppo pieno, su come sarebbe stato farsi accompagnare da lui. E adesso che ne aveva l’occasione, non riusciva a trovare nulla da dire. Le parole, che da sempre le erano state ostili e non avevano mai esitato a farsi complici della sua timidezza, l’avevano tradita definitivamente.
Strofinò rapidamente una mano sul volto, premendola poi sulle labbra in un tentativo estremo di arginare le crepe che avevano quasi completamente sbriciolato il suo auto-controllo. Mancava poco, realizzò, ancora qualche minuto di strada e avrebbe potuto rintanarsi in casa a celebrare la sconfitta totale che si era rivelata la giornata. Poteva farcela, poteva riuscire a trattenersi ancora per un po’, poteva…
“Ehi…”
Il nodo alla gola si fece più grande, e una lacrima rotolò oltre il precipizio della ciglia serrate, rovesciandosi sul palmo chiuso della sua mano.
No, non poteva.
Non se lui le parlava con una tale gentilezza, decisamente non poteva.
Non se lui la guardava così. Non se lui la guardava e basta.
Viola singhiozzò come una bambina, e nascose il viso tra le mani. Si chinò in avanti, premendo la fronte sulle ginocchia. Dopo un po’, sentì il ticchettio delicato della freccia inserita, e subito dopo la macchina rallentare, mentre accostava al marciapiede. Un istante più tardi, Enrico le stava posando una mano sulla nuca, accarezzandole i capelli bagnati con gentilezza.
Si raddrizzò di scatto, come avesse preso la scossa, e le parole esplosero come un fiume un piena.
“Vuoi sapere quanto di merda è stata la mia giornata? Perché lo è stata davvero tanto, davvero troppo, e sono stanca di dover far finta che non mi importi così tanto se ho buttato gli ultimi tre mesi della mia vita dietro ad un esame che non è andato male, è andato peggio, e che decisamente non avrebbe dovuto andare così. Ma del resto c’è poco da fare, quando un professore è uno stronzo lo è fino in fondo, ha deciso che non l’avrei passato e ha fatto in modo che andasse proprio così. E non contento, ha pure voluto farmi passare per la povera ignorante che non sono, chiedendomi di un trattato del cazzo che è stato firmato quarant’anni fa, troppo recente per essere incluso nel manuale e troppo vecchio perché io potessi conoscerlo, e lo sai cosa ha fatto quando gli ho detto che non lo sapevo? Mi ha guardata come se fossi un abominio, uno scherzo della natura, e se ne è uscito con questa frasetta del cazzo, ma lei dove vive?, come se fosse uno scandalo, come se fossi la classica ragazzetta idiota che non si informa, che non ha interesse per il mondo che la circonda. Dio, che nervoso. Che nervoso! E non gli puoi mica dire niente, alla fine, perché comunque l’esame lo devi ridare e lui è uno di quegli individui frustrati dalla vita, dal cosmo, dal karma che per rimediare alla pochezza delle loro vite se la prendono con quelli che non possono aprir bocca e contestare, gli stessi poveri stronzi che se lo sono sciroppato per un semestre intero ascoltandolo vaneggiare su Israele, i palestinesi e tutte le sue idee assolutamente fasciste, che – da bravo figlio ingrato di partigiano – ha abbracciato come fossero una religione perché da qualche parte nel mondo c’è un foglio dove sta scritto che le cose stanno così e quindi no, assolutamente pensare con la propria testa è fuori discussione, perché fare lo sforzo se qualcun altro o qualcos’altro possono decidere per te?”
Non lo guardò, mentre inspirava per riprendere fiato, lottando contro il tremore che dalla voce era scivolato nel corpo, irrigidendole i muscoli in uno spasmo di nervosismo doloroso. Sentiva però la sua mano ferma sulla nuca, i polpastrelli nascosti sotto le ciocche umide, premuti contro la pelle.
Rabbrividì, e per non pensare riprese a vomitare parole.
“Tre mesi buttati nel cesso per colpa di un arrogante pezzo di merda, indegno del lavoro che fa, e Dio! Solo al pensiero di doverci tornare, di doverlo affrontare di nuovo mi sento male, mi viene da vomitare, mi viene voglia di cambiare facoltà, perché lui è il grande Cristiano Cecchini, testa di cazzo certificata, che può decidere di non farti laureare se ne ha voglia e di laurearmi invece io ho voglia, perché non ne posso più di passare i miei pomeriggi a mollo nel cloro, con un caldo bestiale e una responsabile a cui pesa il culo a dirmi le cose e poco importa se per questo mi tocca restare dietro a quella maledetta scrivania per quasi un’ora più del dovuto a cercare di far quadrare qualcosa che sarebbe quadrato perfettamente se solo lei si fosse presa la briga di dirmelo? Tanto Viola c’è sempre, Viola sostituisce sempre tutti, Viola è la povera scema che si fa il mazzo e per cosa? Per uno stipendio da fame con cui arrivo a malapena alla fine del mese? Perché sicuramente non lo faccio per la gloria, e il giorno in cui potrò entrare lì dentro come una cliente e non come la tuttofare di turno non arriverà mai troppo presto, il giorno in cui le persone la smetteranno di cagarmi in testa solo perché possono permettersi di farlo e io non posso permettermi di rispondere… Dio, che gran giorno sarà quello!” le scappò una risata amara, soffocata da un singhiozzo, e lasciò trascorrere una manciata di istanti durante i quali si rese conto che la radio si era zittita, così come il tocco che fino ad un attimo prima avvertiva caldo sulla nuca. Represse un gemito, sentendosi infinitamente piccola e stupida, ma soprattutto incapace di fermarsi. Non volse il capo a cercarlo, non aveva voglia di affrontare un ennesimo fallimento. Tantomeno la consapevolezza che l’essersi comportata come una pazza isterica aveva definitivamente chiuso i giochi tra di loro, imponendo una battuta d’arresto così violenta che, nello shock, probabilmente non avrebbe avuto modo di accorgersi della sofferenza che sarebbe arrivata, puntualmente, a reclamare il conto delle sue fantasie.
“E io non volevo che fosse così, la nostra prima vera conversazione. Non volevo starmene nella tua macchina, sfatta come una tossica, in preda ad un delirio di autocommiserazione e ad una diarrea verbale che davvero, sono timida io, le mie cose sono mie e in quanto tali me le tengo per me, non è che me ne vado a spiattellarle in giro, ma a quanto pare basta una giornata di merda per trasformarmi nella protagonista di quel libro della Kinsella, quella che ha paura di volare e nel momento in cui si trova su un aereo in un tratto turbolento si ritrova a raccontare tutto quanto al tizio, strafigo per inciso, che le sta seduto vicino. A quanto pare non sono capace di trattenermi dallo sputtanarmi completamente neanche io e davvero non avrei voluto, perché non sono una creaturina senza spina dorsale che passa la vita a piangersi addosso, non lo sono proprio, né tantomeno avrei voluto che questo succedesse con te, e questo perché sei una di quelle persone che mi piacciono al punto da mettermi in soggezione e non avrei mai, mai, mai voluto ritrovarmi nella tua macchina in preda ad una crisi di nervi come una bimbetta isterica, a piagnucolare di quanto sembri far schifo la mia vita in questo momento quando non è così, mi piace la mia vita, mi piace lavorare in palestra ma soprattutto mi piaci tu e Dio, ma cosa ci faccio io nella tua macchina? Non ti conosco, non abbiamo mai parlato, per quel che ne so potresti essere uno psicopatico pronto a strangolarmi o qualcosa del genere, e non era così che volevo che andassero le cose, non era così che le avevo immagina---”
Non ebbe modo di concludere.
Si sentì strattonare con fermezza il volto, poi la pressione delle labbra di Enrico sulle sue eliminò il resto del mondo dalle sue percezioni con uno strappo brusco, improvviso, inaspettato. E un istante più tardi era tutto finito, così veloce che temette di esserselo immaginata, così veloce che neppure aveva avuto il tempo di chiudere gli occhi né di mettere a fuoco il volto dell’uomo che, da vicinissimo, si scostava appena.
Sulle labbra, però, conservava ancora l’eco del suo sapore, e le mani strette al suo volto come fosse una coppa da cui bere, e la sete che sentiva ardere in fondo alla gola, e la fame che vedeva accendergli gli occhi.
“Scusami” bisbigliò, senza sapere cosa dire, o cosa pensare, una reazione puramente istintiva che non avrebbe saputo in un alcun modo giustificare? Di che cosa doveva esser scusata, di preciso?
L’aveva baciata. Lui, l’aveva baciata.
Avrebbe potuto interromperla in qualsiasi altro modo. Avrebbe potuto parlarle, avrebbe potuto scompigliarle i capelli, avrebbe potuto… Si erano baciati. Esisteva davvero qualcosa che contasse davvero, al di fuori di quello? Viola non ne era sicura, così come non era sicura di cosa fare. Un lampo esplose nel cielo, violento e improvviso, illuminandoli entrambi mentre ancora si fissavano, vicinissimi. Il tuono si fece attendere, ma lo sentì a malapena. Nelle orecchie, il cuore le batteva così forte che temeva potesse esplodere da un momento all’altro.
Enrico, però, non le concesse altri margini d’interpretazione, né il tempo per poter aggiungere altro – soffocò un nuovo rigurgito di parole serrandole la bocca una seconda volta, questa volta senza delicatezza.
Viola smise di porsi domande, semplicemente. Una volta poteva essere un caso, la seconda era un desiderio – e lei amava esaudire i desideri, tanto più quando si accordavano ai suoi. Schiuse le labbra in risposta alla sua insistenza, accogliendo la sua lingua contro il palato, i denti, le labbra. Si fece baciare, in un modo che le fece pensare di non esser mai stata baciata davvero.
Quando poi Enrico mugolò qualcosa di incomprensibile, stringendole il labbro inferiore tra i denti e strappandole un singulto che aveva ben poco a che fare con il pianto frettolosamente arginato dalla sorpresa, lei sbatté le ciglia impastate di mascara sciolto e inspirò bruscamente.
“Resta con me” lo pregò, vittima del suo stesso desiderio, di un impulso così violento da toglierle il fiato. Si sentiva febbricitante, e lui era l’unica cosa che avrebbe potuto portarle un po’ di sollievo – non le importava di quello che sarebbe successo l’indomani, era tutto così distante e sfocato dalla brama che la consumava da risultare irrilevante. Ci avrebbe pensato poi, o forse non ci avrebbe pensato affatto. Non era importante, non quanto tornare a subire la pressione delle sue labbra, non quanto reclamare quella del suo corpo.
“Ti prego, resta con me.”
Enrico non rispose. Ma dopo un tempo che a Viola parve infinito, speso a scrutarla come se la vedesse per la prima volta, si slacciò la cintura e sfilò le chiavi dal quadro.
“Andiamo.”

 
 


 


Ve lo cuccate così come è, perché probabilmente meglio di così non riuscirei a fare. 
Niente, ho avuto nostalgia di questi due.

   
 
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