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Autore: Skizzata98    27/06/2014    1 recensioni
Ormai Niketas non poteva più sentire le urla dei persiani, né le urla dei suoi compagni, né quelle del re.
Tutto era compiuto.
Chiusi gli occhi e spalancò le braccia, mentre una nube di frecce gli volava addosso.
Il suo ultimo pensiero fu per Helene.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Questo qui è un racconto scritto a 8 mani con tre miei compagni di classi.



GUERRA NEL SANGUE


Dopo una lunga marcia, i 300 arrivarono al Passo delle Termopili. 

Lì, re Leonida, piantò  la lancia a terra, segno che il cammino era terminato e i soldati poterono organizzare lʼaccampamento.

Era già buio e, per quanto gli spartani fossero addestrati a sopportare dolore e fatica, erano sfiancati da una marcia del genere e, salvo alcuni volontari rimasti di vedetta, gran parte dei soldati si ritirò  per coricarsi.

Ma non Niketas.

Non riusciva a dormire.

Come poteva?

Provava una sensazione strana... forse paura.

Una sensazione così sconosciuta a lui, duro e disciplinato guerriero, nato per la battaglia e pronto a morire per la sua causa. 

Ora era diverso.

Aveva conosciuto Helena, aveva qualcosa per cui vivere.

Tutto ciò  che desiderava era tornare a Paestum e passare del tempo con lei, ma non poteva. 

Era a miglia di distanza, a combattere una guerra per il suo Paese, un eroico suicidio per guadagnare tempo.

Guardò  unʼultima volta la collana di Helena, poi la ripose di nuovo. 

Quel piccolo oggetto gli diede speranza e coraggio.

Si ripromise che non sarebbe morto.

Si sdraiò  nella tenda e cercò  di dormire, ma venne svegliato di soprassalto da un soldato che urlava di svegliarsi e prepararsi a dovere.

I persiani erano arrivati.

Niketas uscì di corsa dalla sua tenda e guardò  il mare. Decine di navi erano approdate sulla costa e continuavano ad arrivare a perdita dʼocchio.

In pochissimo tempo i 300 furono pronti e si disposero in formazione coprendo lʼintero valico.

I persiani erano sbarcati e pronti ad attaccare.

La fanteria avanzava , mentre gli arcieri rimasero dietro, erano pronti a scoccare le frecce al momento opportuno.

La fanteria persiana iniziò  a marciare contro la falange.

Si facevano sempre più vicini.

La tensione era palpabile.

 

Niketas respirava affannosamente.

Era teso, nervoso, si teneva perfettamente in posizione aspettando il momento giusto. I Persiani erano vicini, iniziarono a correre per coprire quei pochi metri che li separavano dalla falange.

Per un attimo silenzio e poi... il fragore dei corpi che si schiantavano sui grossi scudi rimbombò  nel passo come un suono di campana, accompagnato dalle urla dei Persiani trafitti dalla moltitudine di lance, dal clangore delle spade di metallo che cozzavano contro gli scudi, dal rumore di ossa spezzate e di corazze trafitte.

Ma da quel fragore si levò  un grido: -Avanti!

Il re diede lʼordine di avanzare, costringere il nemico a ripiegare e a disperdersi.

Entrarono in gioco le  retrovie.

Con le lance trafiggevano i nemici in prima linea, mentre i persiani davanti tenevano alti gli scudi. ??

Ben presto il piccolo esercito nemico si disperse totalmente.                                                

Niketas avanzò  con sicurezza, lo scudo alzato dalla coscia al collo, come gli era stato insegnato, la lancia in alto pronta a trafiggere chiunque gli fosse passato davanti.

Si lanciò contro un gruppo di persiani, insieme a suo fratello e a un pugno di compagni. 

Con un colpo di scudo rompe la guardia del nemico, con la lancia gli trafigge il ventre, la estrae, per poi lanciarla contro un soldato nemico che lo carica. 

Mentre si fa avanti per recuperarla alza lo scudo, per proteggersi da un colpo in arrivo. Raccolta l'arma la usa per infilzare un altro soldato, ed estraendo la spada taglia la gola al suo avversario dietro di lui.

Presi dalla foga della battaglia lui e i suoi commilitoni trucidarono quasi tutti i persiani rimasti, prima di ritirarsi per ordine di Leonida. 

-Coprirsi!- urlò, e così fecero. 

Niketas sbirciò  da sotto lo scudo che usava per proteggersi. 

Dunque era vero. 

Gli arcieri di Serse erano veramente in grado di oscurare il sole con le frecce. 

Ma per NIketas quelli non erano soldati. 

Erano mercenari, poco più che carne da macello, e ora vedeva quanto ciò  che aveva detto corrispondeva a verità. 

La battaglia imperversò  per tutta la giornata, con un alternarsi di assalti di truppe di fanteria e frecce scagliate dagli arcieri. 

Quella sera festeggiarono tutti, compresi i feriti, ma sia Niketas che il re sapevano che sarebbe stato solo l'inizio. 

Resistettero per giorni, instancabili, respinsero ogni uomo che il re Serse inviava loro contro, ma soli non potevano nulla contro l'immensità dell'esercito persiano. Gli spartani divennero sempre meno, e le loro fila si assottigliavano giorno dopo giorno. Erano poco più di 50 quella mattina, l'ultima, nella quale si schierarono a falange per l'ennesima volta per coprire il varco. 

I persiani corsero un'altra volta contro la falange, e un'altra volta morirono massacrati. 

Una nube di frecce fu scoccata un'altra volta e un'atra volta fu respinta. 

Ma gli spartani erano stremati dai tanti giorni di logorante combattimento, qualcuno riusciva a stento a tenere alto lo scudo, ma non Niketas. 

Lui più di tutti era determinato a rimanere in vita. 

Un altro gruppo di persiani si scagliò  contro la falange. 

Questa volta, la prima linea si ruppe come vetro e il nemico fece breccia. 

Niketas si lanciò  contro i nemici con lo scudo alto trafiggendo i soldati e respingendoli allʼindietro allo stesso tempo. 

Dopo poco la lancia si spezzò, nel torace di un persiano. 

Niketas la lasciò  lì ed estrasse la spada.

Con la sinistra parava colpi così forti che quasi non sentiva più il braccio, mentre con la destra affondava la spada nella carne dei soldati nemici, recideva tendini, nervi, vene e arti. 

Poi, in un istante sentì una fitta alla spalla. 

Un soldato persiano aveva approfittato della sua guardia scoperta per piantargli una lancia vicino al collo. 

Cieco dal furore Niketas lo colpì con la spada trafiggendogli il petto. 

Tenne duro più che poté, ma il dolore era lancinante e la perdita di sangue era copiosa, così dovette abbandonare lo scudo.

Senza darsi per vinto corse più che poteva tra i persiani, tagliando gole, fianchi, e tutto ciò  che poteva colpire. 

Parò  un potente colpo di spada, lo parò  due volte, lo parò  tre volte, ma alla quarta stramazzò  al suolo, in ginocchio. 

Con le ultime forze che aveva, Niketas si erse nuovamente sulle ginocchia. Col braccio sano prese il ciondolo di Helena, e lo strinse forte nella mano. Per un istante gli sembrò di stringere ancora la mano di Helene…

Niketas finì di prepararsi, infilò  il pugnale nel fodero, indossò  il mantello e uscì dalla sua spoglia stanza, pronto ad incontrare suo fratello maggiore al porto di Corinto.

Dovevano raggiungere una delle colonie greche per chiedere aiuto per lʼimminente guerra contro i persiani.

Con qualche giorno di viaggio raggiunsero Poseidonia senza troppi intoppi e difficoltà.

Cʼera movimento in quella modesta colonia.

Tutti i cittadini erano intenti a fare qualcosa.

Cʼera chi scambiava, chi vendeva, chi parlava e chi si limitava a guardare.

Poi cʼera lei, seduta su una roccia, intenta a intrecciare, con movimenti aggraziati, dei fiori di campo nella sua treccia corvina.

Era una donna dalla bellezza raffinata ed elegante. La pelle olivastra faceva risaltare i suoi occhi azzurri che tendevano al verde quando un raggio di sole li colpiva. Il suo naso era dritto, ma piccolo e delicato, la sua bocca era perfettamente definita, così piena e carnosa che solo la Dea Afrodite poteva uguagliarla. 

Il suo corpo era minuto, ma il suo sguardo era fiero e sicuro di sé.

I suoi movimenti erano resi ancora più morbidi dalla stoffa leggera che fasciava in modo gentile i suoi fianchi.

-Bella, vero?- la voce di mio fratello, Filottete, ruppe il filo dei miei pensieri.

-È la figlia minore dell’Arconte. Perché non le chiedi di condurci da suo padre?- mi domandò,  e così feci.

Mi diressi verso la donna e la salutai con un inchino appena accennato.

-Chi siete?- mi chiese.

La sua voce era soave, musica per le orecchie di un guerriero abituato al frastuono della battaglia.

-Sono Niketas, vengo da Sparta...- cominciai, ma lei mi interruppe 

Niketas, uno dei più valorosi guerrieri dell’esercito spartano, so chi siete, il vostro nome è noto anche a Poseidonia…

-Sono qui con mio fratello, Filottete e vorremmo parlare con vostro padre.

Il suo sguardo era serio, sembrava non fidarsi di me, però  accolse la mia richiesta senza replicare e mi condusse da suo padre.

-Mia figlia mi ha detto che avete urgenza di parlare con me, per quale motivo?- disse l’Arconte  con la sua voce grave e profonda.

- Il re Leonida ci ha inviato a Poseidonia per chiedere aiuto nellʼimminente guerra contro i Persiani. Non abbiamo timore del loro enorme esercito, ma qualche uomo in più ci farebbe comodo- disse mio fratello parlando con tono rispettoso. 

Lʼuomo si lisciò  la barba con gesti lenti e misurati, intento a riflettere, guardando un punto indefinito del pavimento ai nostri piedi.

-Ne parlerò  con i magistrati. Nel frattempo sarete miei ospiti.

Detto questo ci congedò  e la sua bellissima figlia ci precedette senza proferir parola.

Di tanto in tanto spostavo lo sguardo su di lei.

Il suo corpo e le sue movenze erano come una calamita per i miei occhi e spesso e volentieri mi ritrovai a fissarla, tantʼè che nemmeno mi accorsi dellʼassenza di mio fratello.

Mi guardai attorno cercandolo con lo sguardo..

-Si è diretto dai sacerdoti. Mi ha detto di portarti a fare un giro nella città. - ripose Helene alla mia muta domanda.

Acconsentii rivolgendole un sorriso.

O almeno era quello il mio intento.

Da vero spartano non sorridevo da tanto tempo, era più facile arrabbiarsi e provare dolore che sorridere.

La seguii per le strade di terra battuta che si snodavano per tutta la cittadina finché non raggiungemmo la periferia.

Campi fioriti con lo sfondo del mare si stendevano di fronte ai miei occhi, ma a interrompere quella meraviglia naturale vidi due imponenti templi.

Lo stupendo tempio di Athena si ergeva esattamente di fronte al possente tempio di Hera.

Entrambi testimoniavano la grandezza degli artisti che li avevano costruiti e la loro maniacale precisione per ogni singolo dettaglio.

Saranno stati anche inferiori, rispetto a noi spartani, ma riguardo allʼarte sono superiori, non li batte nessuno.

Tutto veniva valorizzato da un gioco di ombre o da piccole incisioni oppure da decorazioni talmente minuziose da sembrare opera degli Dei. Mi costava ammetterlo, ma era tutto quanto magnifico.

Avevo sottovalutato le loro doti artistiche, ma di una cosa ero sicuro al cento per cento, non lo avrei mai ammesso con Helena.

Non potevo mostrare una simile debolezza a una donna.

Era rimasto colpito dalla nobile arte della scultura.

Lo si vedeva anche se tentava di nasconderlo in tutti i modi e questo mi fece sorridere involontariamente.

-Ecco il tempio dedicato alla magnifica dea Hera, moglie del potente Zeus, guarda, si innalza sul terreno erboso e ricco di vita e di colori. Vedi come sono imponenti le 9 colonne sulle quali poggia, con gli spigoli vivi perfettamente scolpiti e allineati?-

Ero fiera di mostrare il frutto del talento dei migliori scultori e decoratori della mia città a Niketas.

-È la scelta della pietra calcarea che conferisce a questo tempio il suo fascino unico, perché quando i bassi raggi del sole al tramonto lo colpiscono lo fanno brillare di una luce dorata. Eʼ pura poesia per gli occhi di unʼartista! Sul fregio, infatti, ci sono poche scene dipinte poiché tutto è basato su un gioco di luci incredibilmente armonioso.-

Ero sicura che, sebbene Niketas non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura, anche lui era rimasto colpito dalla grandiosità di quei luoghi di culto. 

E con un poʼ di supponenza aggiunsi: -Noi sì che sappiamo fare le cose in grande e le facciamo con unʼeleganza divina e con una cura nei dettagli che oserei dire maniacale, ma perfetta. 

Niketas mi rivolse un altro sorriso, il secondo.

Era un vero peccato che sorridesse così poco.

Lo guardai. Possedeva un corpo possente, dal fisico asciutto e forte.

La pelle era olivastra, resa più scura dai duri allenamenti sotto il caldo sole greco.

Era riconosciuto e temuto da tutti per la sua ferocia nel combattimento e non stentavo a crederlo poiché i suoi occhi grigi sembravano un cielo in tempesta ed ero sicura che in battaglia erano quelli a spaventare il nemico.

Tutto in lui, sia gesti sia sguardi, trasudavano fierezza e coraggio.

La sua voce era calda e profonda.

Aveva sicuramente tante cose da raccontare e io avrei voluto tanto ascoltarle.

Sentire la storia di ogni cicatrice del sul corpo, ma anche del suo cuore.

Solo perché un uomo è abituato alle sofferenze non significa che sia invincibile.

Niketas non era consapevole della sua bellezza e forse era proprio questa sua umiltà a farmi desiderare di conoscerlo meglio.

-Sembri non essere consapevole della tua bellezza, ma la tua umiltà è la vera meraviglia che ti fa risplendere- disse Niketas interrompendo il filo dei miei pensieri.

Ero rimasta stupita.

Spostai lo sguardo verso di lui e in quel momento eravamo verde contro grigio.

Si avvicinò e mi baciò.

Poi sorrise e mi accarezzò la guancia.

Quindi è questo il vero Niketas?

Il feroce guerriero è solo una maschera?

Domande a cui forse sarei riuscita a trovare una risposta.

Fu così che passammo le due giornate successive. Contro tutte le leggi del nostro popolo.

Ma fummo felici.

Il re mi convocò  per riferirmi lʼesito della sua decisione con i magistrati.

Era accaduto ciò  che aveva previsto il Re Leonida: avevano rifiutato.

Mi si strinse il cuore all’idea di abbandonare Helena ma non potevo dimenticare di essere un guerriero.

La trovai seduta sulla roccia di fronte al porto, proprio come il primo giorno in cui la vidi.

Mi sedetti accanto a lei stringendola tra le mie braccia.

-Tuo padre ha rifiutato di aiutarci nella battaglia. Domani allʼalba dovrò  partire per Sparta- dissi cercando di nascondere il dolore di doverla lasciare.

Non rispose, non ce nʼera bisogno, ma sentii le sue lacrime che mi bagnavano il braccio.

-Combatterai anche tu- disse.

La sua non era una domanda, sapeva che non mi sarei tirato indietro.

La strinsi di più a me facendole nascondere il volto nellʼincavo tra il mio collo e la spalla. Restammo così per qualche istante poi lei si sfilò il medaglione dal collo e me lo fece indossare.

-Ti porterà fortuna- sorrise, posandovi un bacio.

-Tornerò  te lo prometto- la rassicurai, ma in realtà sapevo che quella guerra era un vero e proprio suicidio.

Oramai Niketas non poteva più sentire le urla dei persiani, nè le urla dei suoi compagni, nè quelle del re. Tutto era compiuto.

Chiuse gli occhi e spalancò  le braccia, mentre una nube di frecce gli volava addosso.

Il suo ultimo pensiero fu per Helena.

   
 
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