Fumo
e polvere.
Voci
sommesse e tintinnio di bicchieri.
Poca
luce e pochi avventori.
In
quel posto c’era nato e cresciuto.
In
quel posto sarebbe morto.
In
quel posto aveva trovato il suo paradiso.
C’erano
sere alla taverna in cui il tempo sembrava non passare.
C’erano
sere alla taverna in cui quelli che passavano sembravano tutti uguali.
Uno
dopo l’altro, giovani o vecchi, con il capo chino e un
bicchiere di
liquore in mano, chiunque passasse era uguale a quello che
l’aveva preceduto.
Cercavano
questo in quel luogo.
Essere
senza identità, essere senza volto per una sera, essere
senza
preoccupazioni.
Cercavano
un buon bicchiere di whiskey e un compagno per il biliardo. Poche
chiacchiere, niente domande.
E
lui se ne stava li, a vedere questa gente passare, e tornare sera dopo
sera, sempre più uguali, sempre più
indistinguibili, a cercare il solito
bicchiere di whiskey e la solita partita a biliardo.
Sera
dopo sera li contava, tanto per tenersi impegnato, tanto per non
annoiarsi, servendo i soliti whiskey e pulendo il solito bancone. Erano
sempre
lo stesso numero, erano sempre più uguali.
Poi
una sera venne lui.
«
Come ti chiami? »
«
Ti importa davvero? »
«
E che ci fai qui? »
«
Quello che ci fanno tutti, cerco un buon bicchiere di whiskey e un
compagno per il biliardo. »
«
Sei troppo per un posto del genere. Gira i tacchi e torna a casa,
bambolina. »
«
Non posso. »
«
Perché? »
«
Perché penso di aver trovato quello che sto cercando.
»
Quella
sera era più fumosa del solito.
L’odore
dei sigari e il tintinnio dei bicchieri erano più forti.
Ma
il ragazzo passo attraverso tutto, la folla, il fumo e il rumore.
E
lui lo vide.
Era
strano, era affascinante. Era diverso.
La
pelle bianca pareva liscia come porcellana, lascita scoperta sulle
braccia e sulle spalle da una canotta leggera. La figura era slanciata
e
sinuosa, provocante.
Il
volto era cosparso di lentiggini, piccole macchiette scure che lo
rendevano più umano. Senza quelle avrebbe pensato che fosse
uscito direttamente
dai suoi sogni.
Con
quegli occhi felini, profondissimi.
Con
quelle labbra a cuore, pallide.
Con
quel profilo perfetto.
Smise
di contare tutti gli altri, guardò solo lui per tutta la
sera.
«
Stiamo chiudendo. »
«
Lo vedo… »
«
Vai a casa allora bambolina. »
«
Non posso. »
«
Perché? »
«
Non ho ancora avuto la mia partita. »
Era
andato via alla fine.
Senza
proteste e senza partita.
E
lui si era sentito un po’ triste.
La
sera dopo era fumosa e monotona quanto la precedente. Ma lui aveva
smesso di contare chi passava per ammazzare la noia. Guardava la porta,
solo la
porta.
L’eccitazione
che gli correva sottile sotto la pelle.
Sapeva
che sarebbe tornato.
I
sensi erano tutti tesi. Per vedere attraverso il fumo, per sentire
attraverso il tintinnio dei bicchieri.
Ma
quella sera non comparve nessun ragazzo con le lentiggini.
Forse
era uscito davvero dai suoi sogni.
Di
sere ne erano passate da quando quel ragazzo era comparso, la prima e
unica volta.
Sere
monotone, sere grigie.
L’aveva
visto solo una volta, ma da allora qualunque colore gli sembrava
scialbo, grigio. Qualsiasi tono, qualsiasi sfumatura di colore, che non
assomigliasse al rosso ramato dei suoi capelli, era insignificante.
Si
sentiva ridicolo.
Gli
aveva a mala pena parlato, non sapeva neanche il suo nome, ma lo
sognava ogni sera, sognava di rivederlo.
«
Ne è passato di tempo… »
«
Ti sono mancato? »
«
Neanche ti conosco. »
«
Comunque ho avuto da fare. Se no sarei tornato prima. »
«
Perché? Che cosa cerchi? »
«
La mia partita. »
Il
fumo era sparito, il grigio era sparito.
C’era
solo lui, i suoi occhi profondi, le sue lentiggini e i suoi capelli
ramati.
Ordinò
qualcosa da bere e rimase seduto al bancone tutta la sera.
Lui
ogni tanto, ogni volta che poteva, si girava a guardarlo. A fissarlo
per imprimersi nella memoria ogni lentiggine, ogni sfumatura, ogni
curva che
assumevano quelle labbra pallide.
Si
sentiva perso. Si sentiva patetico.
Non
si era mai sentito meglio di così.
Vivo.
«
Non mi ha detto il tuo nome, bambolina. »
«
Non me l’hai chiesto. »
«
Era necessario? »
«
Te lo dico solo se ti interessa davvero. »
«
Mi interessa, o preferisci che continui a chiamarti bambolina?
»
«
E’ Kibum. »
«
Cosa? »
«
Il mio nome. »
Non
si dissero altro per tutta la sera.
A
volte sperava che non venisse.
Che
non aprisse quella vecchia porta malandata, che non attraversasse la
sala con il suo passo leggero, che non si sedesse sullo sgabello del
bancone di
fronte a lui.
Perché
tutto in torno a lui girava. Il fumo, i suoni, la sua testa.
A
volte si scopriva a desiderare la pace che gli davano quelle sere
monotone, quella gente tutta uguale, la solita routine.
Ma
poi si perdeva tra quelle lentiggini.
Si
ritrovava a contarle una ad una, ad accarezzare con lo sguardo quella
pelle candida.
Voleva
sentirla, doveva essere lisca e fresca.
«
Tu però non mi ha detto come ti chiami. »
«
Ti interessa? »
«
Quella era una mia battuta… »
«
Jonghyun, mi chiamo Jonghyun. »
«
E cosa ci fai qui Jonghyun? »
«
Ci lavoro non vedi? »
«
Mi sembri troppo per questo posto. »
«
Quella invece era una mia battuta… »
«
Allora, come sei finito qui? »
«
Questo locale era dei miei, ora sono io il proprietario. »
Quella
sera parlarono finché Kibum non andò via alla
chiusura.
Adesso
ogni sera era diversa.
Ogni
sera c’era qualcosa di nuovo da scoprire su Kibum.
Faceva
Kim di cognome.
Aveva
24 anni.
Viveva
da solo.
Andava
all’università.
Era
un ballerino.
Gli
piacevano i cani.
Aveva
un cicatrice sul sopracciglio destro.
Faceva
espressioni strane quando parlava.
Si
sfregava il naso quando era imbarazzato.
La
voce gli diventava acuta quando si alterava.
Lui
era sempre più perso.
«
Non hai niente di meglio da fare che venire qui tutte le sere?
»
«
Non ti piace avere clienti fissi? »
«
Qua sono tutti clienti fissi, non ti sei accorto che ci sono sempre le
stesse facce? »
«
Non ho prestato molta attenzione alle facce degli altri. »
«
Allora, perché vieni tutte le sere? »
«
Sto ancora aspettando la mia partita. »
Ne
parlava spesso, di questa partita a biliardo, ma non l’aveva
mai visto
chiedere a nessuno di giocare, ne tanto meno si era mai avvicinato alla
sala
con i tavoli da biliardo sul retro.
Se
ne stava semplicemente, sera dopo sera, appoggiato al bancone con il
suo
cocktail in mano a chiacchierare con lui.
Non
che gli dispiacesse.
Vedeva
come anche gli altri, le altre facce anonime, si fossero accorti di
lui.
Vedeva
gli sguardi che gli lanciavano.
Sentiva
cosa si sussurravano tra di loro.
Si
ritrovò a sperare che Kibum non lasciasse mai il bancone,
che non
andasse in angoli in cui non poteva vederlo, visto che lui da dietro
quel
bancone non si poteva spostare.
Ma
non gli sembrava che l’altro fosse interessato ad
allontanarsi.
Ad
allontanarsi da lui.
A
volte, quando era particolarmente impegnato a stare alla cassa, a
servire
birre, versare liquori, pulire bicchieri, non stando fermo un attimo,
Kibum
addirittura lo seguiva, cambiando sgabello per essergli sempre il
più vicino
possibile.
E
lui si ritrovava a sorridere sempre più spesso.
«
Uno dei tavoli è libero… »
«
L’ho visto. »
«
Allora perché non vai a giocare? »
«
Ancora nessuno mi ha chiesto di fare una partita. »
«
Se non ti avvicini agli altri nessuno te lo chiederà mai.
»
«
Ma io non voglio giocare con gli altri. »
«
Allora che aspetti? »
Kibum
semplicemente sorrise.
Accadeva
sempre più spesso che il ragazzo rimanesse fino alla
chiusura.
Spesso rimanendo da solo con i suoi pensieri quando lui era indaffarato
a
sistemare tutto, non avvicinandosi mai con nessun altro.
Questa
cosa lo rendeva felice, sempre.
«
Non mi cacci stasera? »
«
Vieni. »
«
Dove? »
«
Non volevi fare una partita? »
Non
ci andava quasi mai nella sala da biliardo. Perché era
sempre piena di
gente e fumo, e a lui in realtà non piacevano ne
l’uno ne l’altro.
Ma
ora non c’era nessuno.
Il
locale aveva chiuso da un’ora.
Kibum
si avvicino al tavolo più grosso al centro della sala.
Era
sempre stato li, da quando quel posto lo gestiva suo nonno, ed era
antico, elegante. Il legno scuro dei bordi era lucido, intagliato in
arabeschi
pretenziosi, che partivano dai piedi e correvano per tutti e due i lati
corti,
incontrandosi al centro di quelli lunghi.
Il
tessuto del piano era rosso porpora, lucido e perfettamente tirato
pareva quasi di velluto.
Il
ragazzo accarezzò il panno liscio, perfetto, passandoci la
mano con le
dita distese, il contrasto con il bianco della sua pelle lo
stordì.
E
si ritrovò a respirare pesantemente.
Gli
passò una stecca e lo vide soppesarla in mano con aria
pensierosa, per
chinarsi poi sul tavolo e provare a prendere la mira con biglie
immaginarie, e
poi decidere che quella stecca andava bene.
Era
nervoso, aveva i palmi sudati e si sentiva la faccia in fiamme.
Non
era bravo a quel gioco e Kibum lo distraeva.
Lo
distraeva senza fare niente, solo con la sua presenza, facendogli
mancare anche le buche più facili.
Con
i suoi movimenti languidi, le spalle esposte da quella stessa canotta
leggera che gli aveva visto in dosso la prima sera che era entrato nel
locale,
con i fianchi fasciati da pantaloni morbidi che sottolineavano la sua
camminata
da ballerino.
Era
disturbante.
Lo
faceva sbagliare.
E
lui odiava sbagliare.
Si
costrinse a non pensarci, a far finta che non ci fosse, ma nel silenzio
del locale ogni minimo rumore che gli rivelava la presenza
dell’altro era
amplificato al massimo.
Il
suo respiro leggero.
Il
rumore dei passi sul pavimento.
Il
frusciare dei vestiti.
Il
ticchettio delle unghie sul legno della stecca.
Con
un ringhio pestò frustrato un piede a terra. Aveva sbagliato
l’ennesimo
tiro, otto in buca laterale, aveva colpito la biglia di striscio con la
bianca,
troppo forte perché un semplice rovescio la mandasse in buca.
Mancò
poco che dal nervoso strappasse con le unghie il panno rosso.
Kibum
ridacchio, la voce un po’ sguaiata, genuinamente divertito
dal suo
comportamento infantile, ma lui non se la prese.
Gli
si era avvicinato, con un ghigno si era chinato fluidamente sul tavolo,
prendendo la mira alla stessa otto che lui non era riuscito a infilare
in buca.
Un
colpo ad effetto sulla bianca.
Sponda
corta.
Sponda
lunga.
L’otto
era in buca.
Un
rinterzo perfetto.
Era
a bocca aperta.
Quando
avevano iniziato a giocare Kibum non aveva dato prova di essere
particolarmente più abile di lui, nonostante le distrazioni
pensava di poterlo
battere.
Ma
adesso tutto gli era chiaro, gli era chiaro come avesse perso
già in
partenza.
Da
quando era entrato per la prima volta nel suo locale.
«
Ho vinto! »
«
Ho visto... »
«
Il mio premio? »
«
Non avevamo stabilito un premio. »
«
Ne voglio uno lo stesso. »
Non
era arrabbiato. Solo sconfitto.
Kibum
sorrideva felice per la vittoria, e gli faceva richieste infantili
sbattendo gli occhioni e provocandolo.
Aveva
tentato di fare il superiore.
Aveva
tentato…
Ma
in fondo aveva già perso, su tutta la linea.
Non
se l’era aspettato, neanche lui che effettivamente era stato
quello che
si era mosso, non si era aspettato di ritrovarsi a premere le sue
labbra su
quelle pallide dell’altro.
Ma
le trovò esattamente come le aveva immaginate.
Fresche.
Morbide.
Leggermente
umide.
Tremanti.
Si
allontanò di poco ma tenne gli occhi serrati, temeva di
aprirli e
trovarsi davanti l’espressione scioccata di Kibum.
O
peggio, disgustata.
Così
tenne gli occhi chiusi, ma quando senti ancora il fiato caldo del
ragazzo contro il suo viso, segno che l’altro non si era
allontanato, trovò
coraggio e dischiuse le palpebre.
Kibum
era ancora li, ora aveva le labbra lucide, un leggero rossore che gli
incorniciava le lentiggini sulle guance, e gli occhi…
Gli
occhi…
Non
avrebbe saputo dire come si erano poi ritrovati così,
stretti l’uno
all’altro, nessuna barriera tra di loro, solo le loro pelli
roventi che
sfregavano l’una contro l’altra, a proteggerli dal
freddo del locale vuoto.
Kibum
era seduto sul bordo del tavolo da biliardo, il velluto che scivolava
dolce sotto la sua pelle, e lui tra le sue gambe spalancate.
Le
bocche si stavano divorando. Labbra, denti, lingue.
E
gemiti, tanti deliziosi gemiti che uscivano da quella bocca dolce che
si
stava mangiando di baci mentre lo accarezzava ovunque.
Ovunque
arrivasse con le mani, ovunque gli fosse possibile.
Gli
girava la testa.
La
pelle di Kibum, al contrario delle labbra, non era come se
l’era
immaginata.
Non
era liscia al tatto, fresca contro i polpastrelli. Come il velluto del
tavolo.
Le
braccia e le gambe erano coperti da un piccolo strato di peli chiari, e
con sua somma gioia, anche il ventre morbido. Le spalle, i gomiti e le
ginocchia erano ossuti. La schiena cosparsa di nei, piccoli e grandi,
un paio
in rilievo. In qualche punto, che non era riuscito a mappare, sentiva
con le
dita piccoli rilievi, rugosità, di qualche vecchia ferita
infantile.
E
poi era caldo, era rovente. Ovunque.
Mille
volte meglio che nei suoi sogni.
Mille
volte meglio del velluto.
Era
imperfetto, era reale, era lì.
E
stava per diventare suo.
Gli
passo le labbra delicatamente su tutto il volto, baciando ogni
lentiggine, arrivando alla guancia e poi sulla linea della mascella.
Lì lo
mordicchiò, per fargli cambiare gli ansimi in gemiti, e
sentendo che faceva
effetto scese ancora di più, sul collo pallido, dove fece
fiorire tante
macchiette rosse, deliziose alla vista quanto il sapore della sua pelle
sulla
sua lingua.
Con
le mani gli accarezzava le cosce, sempre meno delicatamente,
arrossandogli la pelle semplicemente sfregandola. Arrivò al
sedere, lo strinse
nei palmi sudati, lo palpò, lo massaggiò con
gusto, tutta la dolcezza
totalmente sparita. La sua come quella di Kibum, che gli stava
martoriando la
schiena con le unghia, e che gli stava leccando e succhiando il lobo
dell’orecchio.
Avevano
fame, entrambi, l’uno dell’altro.
Senza
preavviso gli strinse di più le natiche, facendolo
strisciare sul
bordo del biliardo per premerselo di più addosso. I membri
tesi si toccarono,
scariche di piacere attraversarono implacabili i loro corpi bollenti e
sudati,
che scivolavano l’uno sull’altro. Un incastro
perfetto.
Kibum
sembrava sfinito, staccò le mani dalle sue spalle forti,
accarezzandogli leggero le braccia, per scivolare disteso di schiena
sul
velluto rosso.
Le
labbra ora erano arrossate, così come le guance e parte
della pelle del
collo e delle spalle. Teneva gli occhi aperti, liquidi di piacere,
fissi nei
suoi. Tentava di riprendere fiato. E lui sentì di aver perso
per l’ennesima
volta.
La
mente e la ragione.
Con
un verso gutturale gli si buttò di nuovo addosso,
prendendogli le gambe
da dietro le ginocchia e spalancandogliele ancora di più, e
premendo il suo
sesso duro e gocciolante contro l’apertura del ragazzo,
mozzandogli il respiro.
Era
caldo, stretto, fantastico.
Quando
si era spinto tra le sue carni bollenti aveva visto gli occhi di
Kibum spalancarsi per lo shock. Era stato troppo brusco? Troppo
avventato?
Si
era costretto a rimanere immobile, con l’altro che lo
guardava teso, con
il petto scocco da singhiozzi trattenuti, le braccia abbandonate sul
panno
rosso ai lati della testa, che non osavano stringerlo. Così
si era chinato su
di lui, premendo le loro labbra insieme in un bacio dolce, avvolgente,
quanto
avvolgenti erano l’odore di sesso e di desiderio che il
circondavano.
Questa
volta a Kibum un singhiozzo scappò davvero, ma avvolse le
braccia al
suo collo e rilassò le membra.
Allora
si mosse, all’inizio piano. Poi sempre più forte,
sempre più
implacabile.
E
Kibum ad ogni spinta gemeva sempre più forte, diventava
sempre più bello.
Con
gli occhi liquidi di piacere, con la bocca semi aperta per catturare
aria, con la pelle bianca a contrasto con il velluto rosso.
E
la vista era tanto idilliaca quanto le sensazioni e i suoni erano
dolorosamente reali.
I
rumori umidi dei baci, lo sfregare incessante dei corpi contro il
tavolo
da biliardo, pelle su pelle. E gemiti, grida, ringhi gutturali, mezze
parole
trattenute, di una voce forse troppo acuta ma ipnotizzante.
Era
imperfetto, era reale, era bello.
Ed
ora era suo.
«
Jonghyun? »
«
Dimmi. »
«
Grazie… per la partita. »
«
Ora che hai avuto ciò che volevi tornerai qui le prossime
sere? »
«
No, non credo. »
«
Jonghyun? »
«
Dimmi. »
«
Non voglio tornare qui… voglio che vieni con me, fuori, alla
luce del
sole. »
***
Note
Inutili
-
Il rinterzo, così come il rovescio, è un colpo
del biliardo. Niente
significati nascosti tranquilli!
-
Se pensate che il finale sia orribile è
perché… lo è! Non sapevo come
concludere LOL
-
Il banner fa SCHIFO. Abbiate pazienza, è stato un
esperimento al buio,
l’ho fatto totalmente a caso senza sapere dove mettere la
mani e usando
programmi casuali che neanche sapevo di avere sul pc…
però è divertente farli!
Comunque le due foto di Kibum le ho prese dal servizio di Nylon ;)
Dovute
Spiegazioni
Dopo
il video del sopracitato Nylon - che più che un photoshoot
sembra un
porno d’autore - dopo il concerto a Jakarta, dove i due
pisquani non hanno
fatto altro che mettersi le mani addosso tutto il tempo, e dopo la
vista di un
Kibum di bianco vestito spalmato su un tavolo da biliardo, la mia mente
non
poteva non viaggiare veloce verso
gaieggianti
lidi di beatitudine… così ho partorito questa
roba…
Senza
contare il fatto che con il look che ha su ultimamente per me Kibum
è
la morte dell’anima. Aggiungeteci in più un Jong
che sempre e a prescindere è
la morte dei neuroni, avrete una perfetta coppia di assassini che
chiede a gran
voce di essere shippata. Perché non accontentarli?
Giustificazioni
a parte… recensite se vi va, anche solo per insultarmi (non
so perché ma sento di meritarmelo). Vi lovvero anyway, dont
vorri.
Stay
tuned.
Dorin