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Autore: Dorin    29/06/2014    3 recensioni
Fumo e polvere.
Voci sommesse e tintinnio di bicchieri.
Poca luce e pochi avventori.
In quel posto c’era nato e cresciuto.
In quel posto sarebbe morto.
In quel posto aveva trovato il suo paradiso.
[Jongkey]
Genere: Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jonghyun, Key
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Fumo e polvere.

Voci sommesse e tintinnio di bicchieri.

Poca luce e pochi avventori.

In quel posto c’era nato e cresciuto.

In quel posto sarebbe morto.

In quel posto aveva trovato il suo paradiso.

 

 

C’erano sere alla taverna in cui il tempo sembrava non passare. C’erano sere alla taverna in cui quelli che passavano sembravano tutti uguali.

Uno dopo l’altro, giovani o vecchi, con il capo chino e un bicchiere di liquore in mano, chiunque passasse era uguale a quello che l’aveva preceduto.

Cercavano questo in quel luogo.

Essere senza identità, essere senza volto per una sera, essere senza preoccupazioni.

Cercavano un buon bicchiere di whiskey e un compagno per il biliardo. Poche chiacchiere, niente domande.

E lui se ne stava li, a vedere questa gente passare, e tornare sera dopo sera, sempre più uguali, sempre più indistinguibili, a cercare il solito bicchiere di whiskey e la solita partita a biliardo.

Sera dopo sera li contava, tanto per tenersi impegnato, tanto per non annoiarsi, servendo i soliti whiskey e pulendo il solito bancone. Erano sempre lo stesso numero, erano sempre più uguali.

 

Poi una sera venne lui.

 

 

« Come ti chiami? »

« Ti importa davvero? »

« E che ci fai qui? »

« Quello che ci fanno tutti, cerco un buon bicchiere di whiskey e un compagno per il biliardo. »

« Sei troppo per un posto del genere. Gira i tacchi e torna a casa, bambolina. »

« Non posso. »

« Perché? »

« Perché penso di aver trovato quello che sto cercando. »

 

 

Quella sera era più fumosa del solito.

L’odore dei sigari e il tintinnio dei bicchieri erano più forti.

Ma il ragazzo passo attraverso tutto, la folla, il fumo e il rumore.

E lui lo vide.

Era strano, era affascinante. Era diverso.

La pelle bianca pareva liscia come porcellana, lascita scoperta sulle braccia e sulle spalle da una canotta leggera. La figura era slanciata e sinuosa, provocante.

Il volto era cosparso di lentiggini, piccole macchiette scure che lo rendevano più umano. Senza quelle avrebbe pensato che fosse uscito direttamente dai suoi sogni.

Con quegli occhi felini, profondissimi.

Con quelle labbra a cuore, pallide.

Con quel profilo perfetto.

 

Smise di contare tutti gli altri, guardò solo lui per tutta la sera.

 

 

« Stiamo chiudendo. »

« Lo vedo… »

« Vai a casa allora bambolina. »

« Non posso. »

« Perché? »

« Non ho ancora avuto la mia partita. »

 

 

Era andato via alla fine.

Senza proteste e senza partita.

E lui si era sentito un po’ triste.

 

 

La sera dopo era fumosa e monotona quanto la precedente. Ma lui aveva smesso di contare chi passava per ammazzare la noia. Guardava la porta, solo la porta.

L’eccitazione che gli correva sottile sotto la pelle.

Sapeva che sarebbe tornato.

I sensi erano tutti tesi. Per vedere attraverso il fumo, per sentire attraverso il tintinnio dei bicchieri.

Ma quella sera non comparve nessun ragazzo con le lentiggini.

 

Forse era uscito davvero dai suoi sogni.

 

 

Di sere ne erano passate da quando quel ragazzo era comparso, la prima e unica volta.

Sere monotone, sere grigie.

L’aveva visto solo una volta, ma da allora qualunque colore gli sembrava scialbo, grigio. Qualsiasi tono, qualsiasi sfumatura di colore, che non assomigliasse al rosso ramato dei suoi capelli, era insignificante.

 

Si sentiva ridicolo.

Gli aveva a mala pena parlato, non sapeva neanche il suo nome, ma lo sognava ogni sera, sognava di rivederlo.

 

 

« Ne è passato di tempo… »

« Ti sono mancato? »

« Neanche ti conosco. »

« Comunque ho avuto da fare. Se no sarei tornato prima. »

« Perché? Che cosa cerchi? »

« La mia partita. »

 

 

Il fumo era sparito, il grigio era sparito.

C’era solo lui, i suoi occhi profondi, le sue lentiggini e i suoi capelli ramati.

Ordinò qualcosa da bere e rimase seduto al bancone tutta la sera.

Lui ogni tanto, ogni volta che poteva, si girava a guardarlo. A fissarlo per imprimersi nella memoria ogni lentiggine, ogni sfumatura, ogni curva che assumevano quelle labbra pallide.

Si sentiva perso. Si sentiva patetico.

Non si era mai sentito meglio di così.

Vivo.

 

 

« Non mi ha detto il tuo nome, bambolina. »

« Non me l’hai chiesto. »

« Era necessario? »

« Te lo dico solo se ti interessa davvero. »

« Mi interessa, o preferisci che continui a chiamarti bambolina? »

« E’ Kibum. »

« Cosa? »

« Il mio nome. »

 

 

Non si dissero altro per tutta la sera.

 

 

A volte sperava che non venisse.

Che non aprisse quella vecchia porta malandata, che non attraversasse la sala con il suo passo leggero, che non si sedesse sullo sgabello del bancone di fronte a lui.

Perché tutto in torno a lui girava. Il fumo, i suoni, la sua testa.

A volte si scopriva a desiderare la pace che gli davano quelle sere monotone, quella gente tutta uguale, la solita routine.

Ma poi si perdeva tra quelle lentiggini.

Si ritrovava a contarle una ad una, ad accarezzare con lo sguardo quella pelle candida.

Voleva sentirla, doveva essere lisca e fresca.

 

 

« Tu però non mi ha detto come ti chiami. »

« Ti interessa? »

« Quella era una mia battuta… »

« Jonghyun, mi chiamo Jonghyun. »

« E cosa ci fai qui Jonghyun? »

« Ci lavoro non vedi? »

« Mi sembri troppo per questo posto. »

« Quella invece era una mia battuta… »

« Allora, come sei finito qui? »

« Questo locale era dei miei, ora sono io il proprietario. »

 

 

Quella sera parlarono finché Kibum non andò via alla chiusura.

 

 

Adesso ogni sera era diversa.

Ogni sera c’era qualcosa di nuovo da scoprire su Kibum.

Faceva Kim di cognome.

Aveva 24 anni.

Viveva da solo.

Andava all’università.

Era un ballerino.

Gli piacevano i cani.

Aveva un cicatrice sul sopracciglio destro.

Faceva espressioni strane quando parlava.

Si sfregava il naso quando era imbarazzato.

La voce gli diventava acuta quando si alterava.

 

Lui era sempre più perso.

 

 

« Non hai niente di meglio da fare che venire qui tutte le sere? »

« Non ti piace avere clienti fissi? »

« Qua sono tutti clienti fissi, non ti sei accorto che ci sono sempre le stesse facce? »

« Non ho prestato molta attenzione alle facce degli altri. »

« Allora, perché vieni tutte le sere? »

« Sto ancora aspettando la mia partita. »

 

 

Ne parlava spesso, di questa partita a biliardo, ma non l’aveva mai visto chiedere a nessuno di giocare, ne tanto meno si era mai avvicinato alla sala con i tavoli da biliardo sul retro.

Se ne stava semplicemente, sera dopo sera, appoggiato al bancone con il suo cocktail in mano a chiacchierare con lui.

Non che gli dispiacesse.

 

Vedeva come anche gli altri, le altre facce anonime, si fossero accorti di lui.

Vedeva gli sguardi che gli lanciavano.

Sentiva cosa si sussurravano tra di loro.

Si ritrovò a sperare che Kibum non lasciasse mai il bancone, che non andasse in angoli in cui non poteva vederlo, visto che lui da dietro quel bancone non si poteva spostare.

Ma non gli sembrava che l’altro fosse interessato ad allontanarsi.

Ad allontanarsi da lui.

 

A volte, quando era particolarmente impegnato a stare alla cassa, a servire birre, versare liquori, pulire bicchieri, non stando fermo un attimo, Kibum addirittura lo seguiva, cambiando sgabello per essergli sempre il più vicino possibile.

 

E lui si ritrovava a sorridere sempre più spesso.

 

 

« Uno dei tavoli è libero… »

« L’ho visto. »

« Allora perché non vai a giocare? »

« Ancora nessuno mi ha chiesto di fare una partita. »

« Se non ti avvicini agli altri nessuno te lo chiederà mai. »

« Ma io non voglio giocare con gli altri. »

« Allora che aspetti? »

 

 

Kibum semplicemente sorrise.

 

 

Accadeva sempre più spesso che il ragazzo rimanesse fino alla chiusura. Spesso rimanendo da solo con i suoi pensieri quando lui era indaffarato a sistemare tutto, non avvicinandosi mai con nessun altro.

Questa cosa lo rendeva felice, sempre.

 

 

« Non mi cacci stasera? »

« Vieni. »

« Dove? »

« Non volevi fare una partita? »

 

 

Non ci andava quasi mai nella sala da biliardo. Perché era sempre piena di gente e fumo, e a lui in realtà non piacevano ne l’uno ne l’altro.

Ma ora non c’era nessuno.

 

Il locale aveva chiuso da un’ora.

Kibum si avvicino al tavolo più grosso al centro della sala.

Era sempre stato li, da quando quel posto lo gestiva suo nonno, ed era antico, elegante. Il legno scuro dei bordi era lucido, intagliato in arabeschi pretenziosi, che partivano dai piedi e correvano per tutti e due i lati corti, incontrandosi al centro di quelli lunghi.

Il tessuto del piano era rosso porpora, lucido e perfettamente tirato pareva quasi di velluto.

Il ragazzo accarezzò il panno liscio, perfetto, passandoci la mano con le dita distese, il contrasto con il bianco della sua pelle lo stordì.

E si ritrovò a respirare pesantemente.

Gli passò una stecca e lo vide soppesarla in mano con aria pensierosa, per chinarsi poi sul tavolo e provare a prendere la mira con biglie immaginarie, e poi decidere che quella stecca andava bene.

 

Era nervoso, aveva i palmi sudati e si sentiva la faccia in fiamme.

Non era bravo a quel gioco e Kibum lo distraeva.

Lo distraeva senza fare niente, solo con la sua presenza, facendogli mancare anche le buche più facili.

Con i suoi movimenti languidi, le spalle esposte da quella stessa canotta leggera che gli aveva visto in dosso la prima sera che era entrato nel locale, con i fianchi fasciati da pantaloni morbidi che sottolineavano la sua camminata da ballerino.

Era disturbante.

Lo faceva sbagliare.

E lui odiava sbagliare.

Si costrinse a non pensarci, a far finta che non ci fosse, ma nel silenzio del locale ogni minimo rumore che gli rivelava la presenza dell’altro era amplificato al massimo.

Il suo respiro leggero.

Il rumore dei passi sul pavimento.

Il frusciare dei vestiti.

Il ticchettio delle unghie sul legno della stecca.

 

Con un ringhio pestò frustrato un piede a terra. Aveva sbagliato l’ennesimo tiro, otto in buca laterale, aveva colpito la biglia di striscio con la bianca, troppo forte perché un semplice rovescio la mandasse in buca.

Mancò poco che dal nervoso strappasse con le unghie il panno rosso.

Kibum ridacchio, la voce un po’ sguaiata, genuinamente divertito dal suo comportamento infantile, ma lui non se la prese.

 

Gli si era avvicinato, con un ghigno si era chinato fluidamente sul tavolo, prendendo la mira alla stessa otto che lui non era riuscito a infilare in buca.

Un colpo ad effetto sulla bianca.

Sponda corta.

Sponda lunga.

L’otto era in buca.

Un rinterzo perfetto.

 

Era a bocca aperta.

Quando avevano iniziato a giocare Kibum non aveva dato prova di essere particolarmente più abile di lui, nonostante le distrazioni pensava di poterlo battere.

Ma adesso tutto gli era chiaro, gli era chiaro come avesse perso già in partenza.

 

Da quando era entrato per la prima volta nel suo locale.

 

 

« Ho vinto! »

« Ho visto... »

« Il mio premio? »

« Non avevamo stabilito un premio. »

« Ne voglio uno lo stesso. »

 

 

Non era arrabbiato. Solo sconfitto.

Kibum sorrideva felice per la vittoria, e gli faceva richieste infantili sbattendo gli occhioni e provocandolo.

Aveva tentato di fare il superiore.

Aveva tentato…

Ma in fondo aveva già perso, su tutta la linea.

 

Non se l’era aspettato, neanche lui che effettivamente era stato quello che si era mosso, non si era aspettato di ritrovarsi a premere le sue labbra su quelle pallide dell’altro.

Ma le trovò esattamente come le aveva immaginate.

Fresche.

Morbide.

Leggermente umide.

Tremanti.

Si allontanò di poco ma tenne gli occhi serrati, temeva di aprirli e trovarsi davanti l’espressione scioccata di Kibum.

O peggio, disgustata.

Così tenne gli occhi chiusi, ma quando senti ancora il fiato caldo del ragazzo contro il suo viso, segno che l’altro non si era allontanato, trovò coraggio e dischiuse le palpebre.

Kibum era ancora li, ora aveva le labbra lucide, un leggero rossore che gli incorniciava le lentiggini sulle guance, e gli occhi…

Gli occhi…

 

 

Non avrebbe saputo dire come si erano poi ritrovati così, stretti l’uno all’altro, nessuna barriera tra di loro, solo le loro pelli roventi che sfregavano l’una contro l’altra, a proteggerli dal freddo del locale vuoto.

Kibum era seduto sul bordo del tavolo da biliardo, il velluto che scivolava dolce sotto la sua pelle, e lui  tra le sue gambe spalancate.

Le bocche si stavano divorando. Labbra, denti, lingue.

E gemiti, tanti deliziosi gemiti che uscivano da quella bocca dolce che si stava mangiando di baci mentre lo accarezzava ovunque.

Ovunque arrivasse con le mani, ovunque gli fosse possibile.

Gli girava la testa.

 

La pelle di Kibum, al contrario delle labbra, non era come se l’era immaginata.

Non era liscia al tatto, fresca contro i polpastrelli. Come il velluto del tavolo.

Le braccia e le gambe erano coperti da un piccolo strato di peli chiari, e con sua somma gioia, anche il ventre morbido. Le spalle, i gomiti e le ginocchia erano ossuti. La schiena cosparsa di nei, piccoli e grandi, un paio in rilievo. In qualche punto, che non era riuscito a mappare, sentiva con le dita piccoli rilievi, rugosità, di qualche vecchia ferita infantile.

E poi era caldo, era rovente. Ovunque.

Mille volte meglio che nei suoi sogni.

Mille volte meglio del velluto.

Era imperfetto, era reale, era lì.

E stava per diventare suo.

 

Gli passo le labbra delicatamente su tutto il volto, baciando ogni lentiggine, arrivando alla guancia e poi sulla linea della mascella. Lì lo mordicchiò, per fargli cambiare gli ansimi in gemiti, e sentendo che faceva effetto scese ancora di più, sul collo pallido, dove fece fiorire tante macchiette rosse, deliziose alla vista quanto il sapore della sua pelle sulla sua lingua.

Con le mani gli accarezzava le cosce, sempre meno delicatamente, arrossandogli la pelle semplicemente sfregandola. Arrivò al sedere, lo strinse nei palmi sudati, lo palpò, lo massaggiò con gusto, tutta la dolcezza totalmente sparita. La sua come quella di Kibum, che gli stava martoriando la schiena con le unghia, e che gli stava leccando e succhiando il lobo dell’orecchio.

Avevano fame, entrambi, l’uno dell’altro.

Senza preavviso gli strinse di più le natiche, facendolo strisciare sul bordo del biliardo per premerselo di più addosso. I membri tesi si toccarono, scariche di piacere attraversarono implacabili i loro corpi bollenti e sudati, che scivolavano l’uno sull’altro. Un incastro perfetto.

Kibum sembrava sfinito, staccò le mani dalle sue spalle forti, accarezzandogli leggero le braccia, per scivolare disteso di schiena sul velluto rosso.

Le labbra ora erano arrossate, così come le guance e parte della pelle del collo e delle spalle. Teneva gli occhi aperti, liquidi di piacere, fissi nei suoi. Tentava di riprendere fiato. E lui sentì di aver perso per l’ennesima volta.

La mente e la ragione.

Con un verso gutturale gli si buttò di nuovo addosso, prendendogli le gambe da dietro le ginocchia e spalancandogliele ancora di più, e premendo il suo sesso duro e gocciolante contro l’apertura del ragazzo, mozzandogli il respiro.

 

Era caldo, stretto,  fantastico.

Quando si era spinto tra le sue carni bollenti aveva visto gli occhi di Kibum spalancarsi per lo shock. Era stato troppo brusco? Troppo avventato?

Si era costretto a rimanere immobile, con l’altro che lo guardava teso, con il petto scocco da singhiozzi trattenuti, le braccia abbandonate sul panno rosso ai lati della testa, che non osavano stringerlo. Così si era chinato su di lui, premendo le loro labbra insieme in un bacio dolce, avvolgente, quanto avvolgenti erano l’odore di sesso e di desiderio che il circondavano.

Questa volta a Kibum un singhiozzo scappò davvero, ma avvolse le braccia al suo collo e rilassò le membra.

Allora si mosse, all’inizio piano. Poi sempre più forte, sempre più implacabile.

E Kibum ad ogni spinta gemeva sempre più forte, diventava sempre più bello.

Con gli occhi liquidi di piacere, con la bocca semi aperta per catturare aria, con la pelle bianca a contrasto con il velluto rosso.

E la vista era tanto idilliaca quanto le sensazioni e i suoni erano dolorosamente reali.

I rumori umidi dei baci, lo sfregare incessante dei corpi contro il tavolo da biliardo, pelle su pelle. E gemiti, grida, ringhi gutturali, mezze parole trattenute, di una voce forse troppo acuta ma ipnotizzante.

Era imperfetto, era reale, era bello.

Ed ora era suo.

 

 

« Jonghyun? »

« Dimmi. »

« Grazie… per la partita. »

« Ora che hai avuto ciò che volevi tornerai qui le prossime sere? »

« No, non credo. »

 

 

« Jonghyun? »

« Dimmi. »

« Non voglio tornare qui… voglio che vieni con me, fuori, alla luce del sole. »

 

 

***

 

 

Note Inutili

 

- Il rinterzo, così come il rovescio, è un colpo del biliardo. Niente significati nascosti tranquilli!

 

- Se pensate che il finale sia orribile è perché… lo è! Non sapevo come concludere LOL

 

- Il banner fa SCHIFO. Abbiate pazienza, è stato un esperimento al buio, l’ho fatto totalmente a caso senza sapere dove mettere la mani e usando programmi casuali che neanche sapevo di avere sul pc… però è divertente farli! Comunque le due foto di Kibum le ho prese dal servizio di Nylon ;)

 

 

Dovute Spiegazioni

 

Dopo il video del sopracitato Nylon - che più che un photoshoot sembra un porno d’autore - dopo il concerto a Jakarta, dove i due pisquani non hanno fatto altro che mettersi le mani addosso tutto il tempo, e dopo la vista di un Kibum di bianco vestito spalmato su un tavolo da biliardo, la mia mente non poteva non viaggiare veloce verso

gaieggianti lidi di beatitudine… così ho partorito questa roba…

 

Senza contare il fatto che con il look che ha su ultimamente per me Kibum è la morte dell’anima. Aggiungeteci in più un Jong che sempre e a prescindere è la morte dei neuroni, avrete una perfetta coppia di assassini che chiede a gran voce di essere shippata. Perché non accontentarli?

 

Giustificazioni a parte… recensite se vi va, anche solo per insultarmi (non so perché ma sento di meritarmelo). Vi lovvero anyway, dont vorri.

 

Stay tuned.

 

Dorin

  
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