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Autore: Queen of Superficial    01/07/2014    3 recensioni
“Quando potrà tornare a casa?”
“Non lo so, Barbara. Anche se lo riportiamo a casa, per dichiararlo ristabilito dobbiamo attendere che sia passato un determinato lasso di tempo senza che si siano manifestati altri attacchi. Nella migliore delle ipotesi, tornerà a casa presto. Nella peggiore, dovremo metterlo in lista per un trapianto.”
Barbara ingoiò un nuovo forte singhiozzo, rifugiandosi tra le braccia di June.
Joe puntò i suoi occhi saggi in quelli della giovane dottoressa.
“Quant'è questo lasso di tempo?”
“Diciannove giorni.”, rispose June, consegnando la mamma di James alle cure del marito.
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Synyster Gates, The Rev, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tuo fratello morì giovane;
tu eri la bimba scaruffata che mi guarda
"in posa" nell'ovale di un ritratto.
Scrisse musiche inedite, inaudite
oggi sepolte in un baule, o andate al macero.
Forse le reinventa qualcuno
inconsapevole se ciò che è scritto è scritto.
L'amavo senza averlo conosciuto.
Fuori di te nessuno lo ricordava.
Non ho fatto ricerche: ora è inutile.

Dopo di te sono rimasto il solo
per cui egli è esistito. Ma è possibile,
lo sai, amare un'ombra, ombre noi stessi.


- Eugenio Montale, Tuo fratello

 

 

Sbandare tra le corsie d'ospedale non era il suo forte ma, che lei ricordasse, non era mai stato il forte di nessuno.
L'impatto secco di un lato del ginocchio contro il rinforzo in ferro di una barella le fece apparire davanti agli occhi una miriade di piccole luci bianche.
Il Paradiso?, pensò stupidamente, perché in momenti come quello, anche ammesso che tu riesca a pensare, di certo è difficile che trovi l'incognita della particella Dio o un nuovo corollario al teorema di Pitagora. Il Paradiso ce le avrà, quelle lucine bianche?
“June?”
Si guardò intorno: si trovava all'incrocio tra tre corsie, al Memorial Hospital. Una sensazione di caldo liquido dietro la testa le fece alzare istintivamente una mano: i capelli erano appiccicosi e bagnati. Si portò la mano davanti alla faccia e socchiuse gli occhi per metterla a fuoco: sudore, non sangue. Niente rosso.
“June?”
Non capiva se la sua voce trovasse davvero un varco per manifestarsi all'esterno: poteva star urlando, sussurrando o non dicendo assolutamente nulla. Ciononostante, continuava a chiamare.
“June?”
Improvvisamente sentì, in crescendo, tutti i rumori che la circondavano: un vociare indistinto, qualche timbro acuto, urla sporadiche da dietro i separé, gli altoparlanti che gracchiavano nomi di dottori desiderati urgentemente a. Bloccò un infermiere per un braccio, e questi la guardò in modo interrogativo. Lei raccolse le idee per cercare di articolare una parola, chiuse forte gli occhi, li riaprì, dischiuse le labbra, annaspò in cerca d'aria, strinse forte il braccio del giovanotto vestito di verde.
“Aria”, disse infine, con grande sforzo.
“Signorina, si sente bene?”
Mai domanda più stupida fu rivolta da un essere umano ad un altro, a memoria d'uomo.
“Aria”, ribadì lei, sofferente.
“L'accompagno fuori.”
La ragazza fece segno di no con la testa, e si piegò sulle ginocchia per riprendere fiato: nel farlo, una cascata di capelli mossi, scuri, le piombò intorno al viso come un sipario.
Due mani le afferrarono la faccia: occhi di un chiarissimo castano le scrutavano i lineamenti. Cercò di mettere a fuoco il resto del viso, ma non ci riuscì.
“Attacco di panico”, sentì dire a una voce morbida, delicata e suadente. L'aveva sempre presa in giro per quella voce da regina degli elfi, fin da quando era bambina.
“June”, disse, in un sospiro strozzato.
“Sono qui, Jan.”
Capelli scuri e mossi si rimise in posizione eretta appoggiandosi alle braccia dell'amica: si chiamava January. Tirò su il mento per guardare June: centottantuno centimetri di eterea dispersione, lunghi capelli di un indistinto castano, la bella bocca contratta in un'espressione preoccupata. Bambi, la chiamavano. Per gli occhi, per l'aria innocente, un po' per tutto quel che sembrava. January le voleva bene anche perché non le somigliava affatto.
Mise faticosamente a fuoco una figura sensibilmente più bassa che le sostava di fianco come una barca alla deriva, altrettanto preoccupata e indecisa sul da farsi.
January scoppiò a ridere, o almeno ci provò: “I was June and you were my Johnny Christ.”, canticchiò, facendo il verso a una canzone di Katy Perry che non piaceva precisamente a nessuno ma si prestava bene alle circostanze in cui June e Johnny si trovavano nella stessa stanza, nella stessa foto o nella stessa situazione.
“Molto divertente”, disse il bassista, prendendo un braccio di January e passandoselo dietro le spalle, “Andiamo a prendere un po' d'aria.”
“Oh”, gracchiò January.
June guardava un punto imprecisato alla sua destra, come una gazzella in ascolto: in una frazione di secondo prese la rincorsa in quella direzione, e sparì dal suo orizzonte.
Poi riapparve.
“Cosa sei, Flash?”, le chiese, passandosi una mano sugli occhi in cerca di lucidità.
“Vai fuori con Johnny, vi raggiungo subito.”
January sospirò e si appoggiò al bassista, che la resse senza sforzo. Gli piantò lo sguardo in quegli occhi buoni. “Che casino”, disse, “Sto meglio. Che casino.”

 

 

June fece irruzione nella stanza 1408 producendo nessun rumore.
“Dunque.”, disse.
Le persone presenti sobbalzarono all'unisono e si voltarono verso di lei: qualcuno abbassò anche lo sguardo sui suoi piedi, che si trovavano dentro comunissime ballerine e soprattutto, contrariamente all'impressione collettiva, ben piantati al suolo.
L'uomo nel letto sorrise dentro la mascherina dell'ossigeno, quindi se la scostò dal viso e disse: “No, non fluttua, cammina come tutti quanti. Solo che è silenziosa come un incubo.”
June gli rivolse uno sguardo tenero.
“Non ho le lenti a contatto”, disse, dolcemente, “Ma fortunatamente quei capelli si vedono anche dallo spazio.”
Brian alzò lo sguardo verso i propri aculei neri, senza parlare.
“Posso avere un minuto da sola con il nostro eroe.”, chiese senza punto interrogativo alla fine.
I tre uomini e la donna che si trovavano lì, in piedi a fissare il letto senza molto da dire, si avviarono alla porta. La mano veloce e delicata di June bloccò il polso di uno dei tre un attimo prima che uscisse. Brian chinò la testa verso la bocca di lei, in ascolto. “Fuori c'è January, ha un attacco di panico. Va' da lei.”, sussurrò June, poi rivolse un sorriso dolce all'uomo nel letto e lasciò il polso dell'altro.
Era arrivata con il primo aereo da New Orleans non appena aveva saputo: avrebbe almeno dovuto, a rigor di logica, essere stanca del viaggio.
Si diresse invece a passi leggeri verso la flebo, controllò la manopola che gestiva il flusso del medicinale e si chinò a poggiare un bacio delicato sulla mascherina dell'ossigeno. C'era una sedia, l'avvicinò al letto e ci si sedette in un unico movimento aggraziato, china sul malato per spostargli i capelli dalla fronte.
“Sei un fottuto incosciente.”
Lui salutò l'affermazione con una risata roca, e le rivolse uno sguardo azzurro e cristallino con una punta di ironica sfida.
“Non fare il cretino. È venuta, quella troia?”
L'uomo scostò la mascherina. “La mia fidanzata? Sì, è passata a trovarmi. Ci ha già litigato Brian, non è necessario che lo faccia anche tu.”
“Taci. Dov'è la cartella clinica? Rimettiti la mascherina. Hai mangiato?”
L'uomo, che si chiamava James, abbozzò una risata e allungò un braccio per indicarle una direzione.
“Cosa ne capisci tu di tossicologia?”, le chiese, scostandosi di nuovo l'odioso supporto dalla bocca.
June volteggiava per la stanza guardando monitor, aggiustando fili, tirando tendine. Localizzò la cartellina su un mobile brutto e anonimo e la prese, aprendola, poi sorrise sui fogli senza neanche guardarlo.
“Sono un medico, abbiamo fatto tutti gli stessi esami per laurearci, sai? E comunque ho un quoziente intellettivo di 164, capisco qualunque cosa.”
Qualcuno bussò alla porta.
“Dottoressa Sullivan?”
June alzò gli occhi dalla cartellina e li piantò, fermi, in quelli dell'infermiera. La donna, leggermente intimidita, fece un passo indietro.
Brian si chiedeva incessantemente, la sera sul divano con sua moglie, se fosse la straordinaria, quasi offensiva bellezza di June a paralizzare la gente oppure il netto contrasto tra la sua apparente immensa dolcezza e la sostanza di acciaio che ogni tanto tirava fuori.
“Le suona il cercapersone.”, disse l'infermiera, a mezza voce.
“Grazie, infermiera Willis. Prenda lei le chiamate, le dispiace?”
“Veramente ce ne sarebbe già una. Ha chiamato la signora Sullivan. Dice che non riesce a reperirla sul cellulare.”
Quale signora Sullivan?”
James represse una risata, il che gli provocò un paio di colpi di tosse.
L'infermiera Willis arrossì e affondò le mani nelle tasche della divisa: “La signora Kelly.”, disse, senza guardare nessuno.
June chiuse con uno scatto la cartellina, tranquilla: “Quindi ha chiamato mia moglie, infermiera Willis. Non è complicato da dire.”
“Sua moglie...”, rispose quella, incerta.
“Di certo non è mio marito.”
“Sì, dottoressa.”
“Le ha detto perché mi cercava?”
June posò la cartellina sul letto accanto a James, che non riusciva proprio a smettere di tossire e ridere.
“Voleva sapere quali fossero gli orari di visita.”, rispose la donna, imbarazzata.
“E lei glieli ha detti?”
“Sì, dottoressa.”
“Molto brava. Mi fa piacere che la California non le stia corrispondendo uno stipendio gratis. C'è altro?”
“Nient'altro, dottoressa.”
“Bene, può andare, allora, prima che la nostra conversazione faccia venire un enfisema a mio cognato.”
L'infermiera Willis le gettò uno sguardo colpevole e uscì chiudendosi la porta alle spalle: June si girò verso James, con un sospiro.
Lui si scostò per l'ennesima volta la mascherina dal volto, rivolgendole uno sguardo carico d'affetto: “Mi sto ancora abituando al fatto che mia sorella abbia sposato te, Bambi.”
June si acciambellò eterea sulla sedia, accavallò le gambe e poggiò le mani sulla cartella clinica che aveva di nuovo in grembo.
“Anche io, in un certo senso. Ma se ci si è abituato tuo padre, c'è speranza anche per noi.”
“Mio padre non si è abituato, si è rassegnato.”
“Parli troppo, ti è collassato il cuore: è l'occasione perfetta per imparare a stare un po' zitto.”
Si sorrisero teneramente.
June alzò gli occhi verso la flebo, notò che era finita, e con movimenti rapidi e leggiadri staccò tutti i fili e la ripose nello scarico medicinali.
“Come ti senti?”
“Come se mi avessero staccato la testa dal collo.”
“Ti ho fatto mettere sotto antidolorifici a rilascio graduale, è un effetto collaterale fastidioso, ma è sempre meglio del dolore.”
Il cellulare di James squillò una, due, tre volte: June lo alzò, guardò il numero, rispose.
“Barbara?”
“Bambi? Sei tu? Nessuno degli altri risponde. Quando possiamo venire?”
“Alle sei e mezza. Sto qui io.”
“Non lo lasci?”
“Certo che non lo lascio, Barbara.”
Chiuse la conversazione.
“Sono tutti preoccupati.”, disse a James, tornando ad accarezzargli i capelli. Gli sistemò la mascherina con una sola mano, gli tirò su la coperta e gli aggiustò il cuscino.
“Il cuore di chi collassa a trentadue anni?”, soffiò James, stanco.
“Il cuore di un cardiopatico.”, rispose June, dolcemente.
Qualcuno bussò alla porta.
Brian stava appoggiato allo stipite con i bei lineamenti contratti dallo sforzo di sembrare neutro, quando invece un'orribile ombra gli oscurava ogni speranza.
“Come stai, stronzo.”
“Una favola, non si vede?”, rispose l'altro, dal letto.
Brian non dava cenno di volersi muovere a entrare.
“Hai una bella dottoressa.”
“Visto? Ho cercato di convincerla a visitarmi in biancheria e autoreggenti, ma non ha voluto saperne.”
“Non ho avuto il tempo di organizzarmi il look, domani senz'altro.”, rispose June, sorridendo delicata.
Brian sorrise a sua volta, quindi si voltò verso June: “C'è bisogno di te fuori.”
“Che succede?”, chiese James, allungando il collo per guardare in faccia il suo migliore amico. Non esisteva cosa che potesse nascondergli, se lo guardava.
“Stai fermo con quella testa di merda”, sussurrò dolcemente June, sospingendolo di nuovo sul cuscino con il palmo della mano, “Ti viene la nausea.”
“Nulla”, disse Brian, “Dobbiamo solo organizzarci con i turni per starti accanto.”
“Resti tu qui con lui?”, chiese June, chinandosi a baciare James al di sopra della mascherina.
Brian annuì e le rivolse uno sguardo carico. June chiuse gli occhi. Che altro?

June valicò un numero imprecisato di corridoi a passo leggero, svelto e deciso, acclusa in un maglione troppo largo e troppo caldo, con i capelli che le fluttuavano intorno come sottilissime fruste inquiete. Spuntò nel giardino prospiciente il pronto soccorso, scavalcò tre infermieri e una barella, localizzò un cespuglio accanto al quale January era china a vomitare, con Johnny che le reggeva la testa.
La tirò su delicatamente: era di una splendida sfumatura di verde.
“Cosa gli ha fatto”, articolò a fatica, prima di essere colta da un nuovo conato.
June guardò Johnny.
“Chi?”
Quella.”
A June vennero in mente una valanga di cose. In cima a tutte le altre, l'immagine distinta di James in quel letto di ospedale: massacrato, stordito, imballato, così sputtanato. Chiuse gli occhi per ingoiare la rabbia.
“Non gli ha fatto niente, quell'imbecille. Proprio niente. Neanche se discendesse dalle streghe di Salem avrebbe potuto causargli una cosa del genere. Ora sta bene, e tu devi stare tranquilla.”
La tirò su con una forza che non si direbbe adatta a una donna così esile, la mise su una panchina e le alzò la testa per guardarle le pupille con la torcia dell'iPhone.
“Lei... lei non...”
Un dito sulle labbra e lo sguardo concentrato di June nei suoi occhi fecero capire a January che, qualunque cosa avesse avuto da dire, avrebbe fatto bene a dirla poi.
June le porse una pillola.
“E' solo un tracollo nervoso: andrà via com'è venuto. Lui sta bene. Me ne occupo io.”
Johnny, che fino a quel momento era rimasto in silenzio a rendersi utile e ora frizionava la spalla di January sulla panchina, alzò uno sguardo significativo verso June.
“Tu come stai?”, le chiese.
“Portala a casa. Torno da lui.”, rispose la giovane donna, gettando un'occhiata all'enorme orologio che torreggiava sopra l'insegna del Memorial Hospital.
January protestò: “Voglio vederlo.”
“Lo vedrai domani. Non devi agitarti, e non devi agitarlo. Vai a casa con Johnny.”

 

June sedeva alla finestra della stanza 1408. Erano le due del mattino.
Uno sciame di amici e parenti si era avvicendato incessantemente al capezzale di James da quando avevano aperto le visite: la sua Kelly le aveva dato un bacio sulla punta della clavicola, come faceva da due anni nei momenti di sconforto.
Quando si erano conosciute, June aveva ventitré anni e di lì a un anno sarebbe diventata il più giovane neurologo della California. Si erano sposate poco dopo la sua laurea: James e January avevano fatto loro da testimoni. A quel tempo, Kelly era una ragazzina insipida e rotondetta, di poco più grande di June, piuttosto indecisa sulla vita in generale: June credette di essersi innamorata proprio della goffaggine con cui le prendeva la mano quando camminavano sulla spiaggia, o del modo in cui i loro occhi si incrociavano a un tavolo pieno di persone.
“Sei sempre stata lesbica?”, le aveva chiesto James una sera che se ne stavano a bere birra sul portico. Era così singolare, June. Singolare perfino per uno i cui standard di normalità erano decisamente sballati.
“No, lo sono diventata dopo che ho saputo che tu eri ufficialmente fidanzato. Non aveva senso continuare ad essere eterosessuale.”
James aveva riso.
“Beh, è un peccato.”, aveva detto, dando un sorso alla Heineken.
June aveva rivolto uno sguardo enigmatico all'orizzonte, aggiustandosi i capelli dietro l'orecchio. Indecentemente bella, aveva pensato Jimmy.
“Puoi dirlo forte, un vero peccato, perché la trovo assolutamente insopportabile.”
Lui la guardò interdetto.
“Non stavamo parlando del fatto che ti sei fidanzato ufficialmente?”
June si riscosse da quei ricordi e si voltò verso Jimmy, attratta dalla sua voce.
“Come?”
Lo guardò: si era di nuovo tirato giù la mascherina. Si mosse per sistemargliela di nuovo e lui le fece cenno, con gli occhi, di sedersi.
“Ti ho chiesto se sei mai stata a letto con un uomo.”
“No. Tu?”, gli rispose dolcemente, sistemandogli l'ago della flebo.
Jimmy scoppiò a ridere.
“Smettila, mi fa male il petto.”
June gli sorrise, e gli tenne la mano nella propria.
“Non ti è mai venuta neanche la curiosità?”
“Non sono mai stata attratta dagli uomini, se è questo che mi stai chiedendo.”
“Mai?”
“Non hai altro da chiedermi che non riguardi la mia sessualità?”
“Sono curioso, scusa.”
June lo guardò dolcemente.
“Fin da quando ero bambina mi piacevano le mie compagne di classe. È sempre stato così e non ci ho mai troppo perso la testa a capire perché.”
“Qualcuno ha detto che sei troppo femminile per essere lesbica.”
“Di' a Brian di farsi gli affari suoi.”
Jimmy voltò il viso verso June.
“Gli altri sanno del nostro piccolo segreto?”
Lei scosse la testa, facendo una smorfia dolce.
“Non ho detto nulla a nessuno.”
“Sarei morto, se non fosse stato per te.”
“Non dire sciocchezze, James.”, gli rispose June, togliendogli la mascherina per posargli un bacio dolce e umido all'angolo della bocca.
“Sei disidratato”, disse, tirandosi su quel poco che bastava per parlare, “Bisogna che ti dia qualcosa. Vado a cercare una flebo. Tu stai qui.”
“Non preoccuparti, qui mi trovi.”
La guardò voltarsi a sorridergli prima di uscire, rapito.

 

Il giorno di Natale di un anno prima.

 

La famiglia Sullivan, nel senso allargato del termine, era un nugolo interminabile di persone variopinte. Barbara sedeva a un lato del tavolo, i capelli grigi in contrasto con gli occhi vivaci, e osservava la conversazione che si stava tenendo a pochi metri da lei.
“Sì, ma in cosa crede chi non crede?”
Joe si sporse in avanti verso il suo interlocutore, versandosi un altro bicchiere.
“Un letterato italiano di nome Umberto Eco sosteneva che oggi l'universo elettronico ci suggerisce che possano esistere delle sequenze di messaggi che si trasferiscono da un supporto fisico all'altro senza perdere le loro caratteristiche irripetibili, e sembrano perfino sopravvivere come puro immateriale algoritmo nell'istante in cui, abbandonando un supporto, non si sono ancora impressi in un altro; e chissà che la morte, anziché implosione, sia esplosione e stampo da qualche parte tra i vortici dell'Universo, del software (che altri chiamano anima) che noi abbiamo elaborato vivendo, fatto anche di ricordi e rimorsi personali, e dunque sofferenza insanabile o senso di pace e amore.”
“Cosa vuol dire questa roba?”
Joe sorrise, levando il calice verso sua nuora che lo guardava dall'altro capo del tavolo. June rispose al sorriso, imperturbabile.
“Oh, tutta una teoria complicata che significa soltanto una cosa: non esiste chi non crede. Tutti crediamo in qualcosa.”

 

June e Jimmy scrutavano l'orizzonte oltre il patio. Lei gli porse un pacchetto blu dall'aria sofisticata.
“Cos'è?”
“Il tuo regalo di Natale, cognatino.”
Jimmy si passò una mano tra i capelli disordinati, sorridendo.
“Cos'è?”
“Apri.”
Sotto la carta, all'interno di una scatola c'era qualcosa che somigliava a un curioso braccialetto elettronico. O forse un orologio.
“Cos'è? Un orologio?”
June accese un'elegante sigaretta bianca e si accomodò sul muretto: il tramonto le illuminò un lato del viso, facendola sembrare una statua d'oro.
“E' un misuratore di pulsazioni, Jimmy.”
Lui sorrise, avvicinandosi alla ragazza.
“Beh, grazie... Ma a che serve un misuratore di pulsazioni?”
“Ha le batterie al litio, vanno cambiate una volta all'anno. Te le cambierò io. Misura la pressione sistolica e diastolica e i battiti al minuto.”
Jim chiuse gli occhi e li riaprì, guardando il sottile polsino nero che June gli porgeva.
“Puoi metterlo dentro questo, così non dovrebbe darti fastidio quando dormi.”
“Perché pensi che io abbia bisogno di un misuratore di pulsazioni?”
“Perché sei cardiopatico, Jimmy. Non so neanche quanto grave. E lo sai.”
L'uomo non rispose. Le rivolse un lungo, muto sguardo che lei resse senza problemi.
“Cosa fa, esattamente?”
“E' un prototipo del Caltech. Se le pulsazioni e i valori si alzano o si abbassano oltre quella che è considerata la soglia di confine, arriva un'ambulanza.”
“Come fanno a sapere dove...”
“C'è un localizzatore con un margine di errore di cinque metri. Per rispondere alla tua domanda originaria sì, il resto del tempo è un banale orologio. Tienilo sempre allo stesso polso. E' idrorepellente, non toglierlo mai.”
“Posso chiederti di non...”
June gli sorrise, accarezzandogli una guancia. “Non preoccuparti. Non dirò nulla a nessuno.”

 

Un anno dopo, Memorial Hospital.

 

Barbara si premeva una mano sulla bocca come se dovesse evitare agli organi di schizzarne fuori.
“Ha chiamato l'ambulanza da solo!”, disse, incredula, offuscata dalle lacrime.
June le accarezzava un braccio.
“E' fuori pericolo, ora.”
“Quando potrà tornare a casa?”
“Non lo so, Barbara. Anche se lo riportiamo a casa, per dichiararlo ristabilito dobbiamo attendere che sia passato un determinato lasso di tempo senza che si siano manifestati altri attacchi. Nella migliore delle ipotesi, tornerà a casa presto. Nella peggiore, dovremo metterlo in lista per un trapianto.”
Barbara ingoiò un nuovo forte singhiozzo, rifugiandosi tra le braccia di June.
Joe puntò i suoi occhi saggi in quelli della giovane dottoressa.
“Quant'è questo lasso di tempo?”
“Diciannove giorni.”, rispose June, consegnando la mamma di James alle cure del marito.

 

“Stai facendo doppi turni. Tripli. Quadrupli. Non ti muovi mai da quel capezzale. Ti verrà qualcosa.”
“Non è neanche del tutto umana, non le verrà niente.”
June si massaggiò le tempie appoggiando la schiena alla porta a vetri del cortile del Memorial: era fredda e le diede sollievo. Una sigaretta le fumava, dimenticata, tra le dita.
Zachary si faceva un vanto di essere in grado di star seduto su qualsiasi superficie: aveva il culo appoggiato a uno scomodo pilone di cemento la cui funzione non era chiara, e teneva le mani in tasca. I suoi occhi verdi scansionavano tranquilli il viso di June.
“Saranno i diciannove giorni più lunghi della mia vita.”, esalò January, avvolta in una coperta.
“Non ce l'hai una giacca, un maglione pesante, come tutti?”
La bruna soffiò irriverente il fumo di una Marlboro Rossa direttamente negli occhi di Brian, autore di quel commento.
“Sono in giro trecentoventi giorni l'anno.”, rispose, senza essere certa della pertinenza di quel che diceva.
“E non hai ancora imparato a fare una valigia.”
Tutti sapevano che January aveva un debole per James. Una fotografa del Rolling Stone così affilata, rockettara e affermata come lei cambiava un uomo alla settimana, ma James era un'altra cosa. L'interesse di Zachary però verteva su un altro soggetto.
“Perché ti stai ammazzando, June?”
“Non mi sto ammazzando, sto seguendo Jimmy.”
“I concetti risultano spaventosamente simili, a uno sguardo esterno.”
June alzò gli occhi e indugiò in quelli di Zacky, producendo un insofferente sbuffo di fumo grigio chiaro dalle labbra.
“Condividi con noi i tuoi pensieri, Zacky Vengeance.”
“Gli stai vicino ventiquattro ore al giorno. Torni a casa mezz'ora per una doccia e poi torni qui. Kelly è preoccupata.”
“Sono il miglior medico di questo ospedale, è ovvio che voglia stargli vicino io.”
“Non è solo questo.”
June schiacciò la sigaretta sotto la ballerina destra. Scarpa destra, scopata persa. Pazienza.
“No, non è solo questo. È il fratello di Kelly. È come se fosse il mio.”
“Tu adori Jimmy.”
“Sì, e allora?”
“Johnny mi ha raccontato che, in due anni che ti conosciamo, l'unica volta che ti ha vista manifestare un'emozione è stata mentre venivate qui in macchina dall'aeroporto. Ti sei asciugata una lacrima e hai tirato fuori un gemito.”
“E allora?”
“Tu non manifesti emozioni. Tu sei di ferro.”
“Di legno.”, lo corresse Brian.
“Dove stai cercando di arrivare, Zachary?”
L'uomo abbassò gli occhi verso l'asfalto.
“Da nessuna parte.”
“Bene, perché mi stai mettendo addosso più pressione psicologica di quanta io sia in grado di sopportare. Mi sto facendo in quattro, in quarantaquattro, anzi. Non infierire. Non infierite.”, rispose June, e si accorse che January, la sua migliore amica da una vita, la guardava con un sottofondo di furioso sospetto.
Sospirò, si strinse nel maglione e sparì oltre la porta di servizio.
“Era davvero il caso, Zacky?”, disse Brian, schiacciando un mozzicone sotto la scarpa con aria assente.

 

“Jim?”
La testa di June apparve dalla fessura della porta socchiusa.
“Hey.”
“C'è January, qui fuori.”
“Falla entrare.”
June si fece da parte per far passare l'amica, che nemmeno la guardò. Si richiuse la porta alle spalle con un sospiro e si accomodò sulla prima sedia libera in corridoio.
Il fratello di mia moglie.
L'odore di un caffè forte e nero che doveva trovarsi negli immediati paraggi le salì nel naso.
È come se fosse mio fratello.
“Ho pensato che avessi bisogno di qualcosa di caldo.”
Alzò gli occhi verso Brian, che le porgeva una tazza con in faccia la cosa più vicina a un sorriso che riuscisse a produrre.
“Grazie”, rispose prendendola, “Cos'è?”
“Cappuccino. Dolce. Un po' corretto.”
June soffiò sulla superficie del liquido, senza riuscire a reprimere un sorriso.
“Non dovrei bere.”
“Questo non vuol dire che non lo farai.”
Brian le si sedette accanto, tentennò per un po' e poi si decise a parlare.
“Sono offeso del fatto che Jimmy non mi abbia detto che era cardiopatico. Sono contento che tu lo sapessi e che tenessi abbastanza a lui da spendere una marea di soldi per quel braccialetto che misura le pulsazioni che gli ha, di fatto, salvato la vita. So queste cose perché sono stato il primo ad arrivare in ospedale e il paramedico dell'ambulanza ha parlato con me specificando che tu avevi dato chiare disposizioni di non dire nulla a nessuno, ma io stavo facendo il pazzo e non sapeva come calmarmi. So che sei il miglior medico di questo ospedale e probabilmente uno dei migliori dello stato, e sono infinitamente grato del fatto che tu gli stia accanto ogni tuo minuto di veglia e ogni tuo minuto di sonno. Questo è tutto quel che ho da dire sulla faccenda, e nella faccenda includo le insinuazioni di Zacky, la gelosia di January, la preoccupazione di tua moglie.”
June si voltò a guardarlo con un sorriso appena accennato, ma sincero.
“Che non è dissimile dalla preoccupazione di mia moglie. Io amo quell'uomo oltre ogni possibile comprensione altrui. E in questi anni sono arrivato a credere che per te sia lo stesso, indipendentemente dal tuo orientamento sessuale.”
La giovane donna accavallò le gambe e si voltò ancora un po' di più verso l'altro.
“Certo saprai quanto lui si vanti del fatto che è l'unico uomo oggetto delle tue premurose attenzioni.”
“No, non lo sapevo.”
Si sorrisero.
“Grazie, Brian.”
“Sappi comunque che, se anche fossi innamorata di lui, non ci sarebbe nulla di male.”
“Ora è troppo, Brian.”
“D'accordo. Scusa.”
L'uomo si alzò congedandosi con una carezza sulla gamba di June, e si avviò in direzione del cortile.
“Brian?”
Lui si voltò.
“E' mio cognato.”, soffiò via June, senza neanche sapere bene perché.
Brian si strinse nelle spalle.
“La vita è breve.”, disse, e se ne andò.

 

Nove giorni.

 

Kelly teneva la testa di sua moglie in grembo: l'avrebbe cullata, se June glielo avesse permesso, ma sapeva che manifestazioni fisiche troppo esuberanti, specie in un contesto pubblico come poteva essere il corridoio di un ospedale, la mettevano a disagio. Stava immobile per non svegliarla, incastrata in una posizione innaturale che le tendeva i muscoli del collo fino ad arrivare a un soffio dal crampo scomposto.
Un'ombra si frappose tra lei e la luce che filtrava dalle fessure delle veneziane di una finestra lì vicino: Matt Shadows si tolse gli occhiali da sole, appoggiandoli senza far rumore sullo spazio che June, distesa, lasciava libero.
“Jimmy chiede di lei.”, sussurrò l'uomo, massaggiandosi le tempie.
Kelly cercò di rispondere muovendo il meno possibile la bocca: “Non dorme affatto, ultimamente, dovremmo lasciarla riposare. Jimmy...”
“Cos'ha Jimmy?”, intervenne June con la voce impastata di sonno, senza aprire gli occhi.
Kelly rivolse uno sguardo eloquente a Shadows, pregandolo di tacere: lui la ignorò.
“Vuole te.”
Poco più che un lieve fruscio di capelli e June era in piedi, con gli occhi lucidi di sonno, diretta alla stanza 1408; sua moglie le tenne dietro come poteva, veloce com'era anche in dormiveglia.
Varcarono la porta quasi inciampando l'una sull'altra: June si tenne in piedi, salda.
“Che succede, tesoro?”
Jimmy guardò interdetto sua sorella e sua cognata.
“Devo... lavare i capelli.”
“Non potevi chiamare un'infermiera?”
“Kelly.”, la zittì June, “Vai a chiamare l'infermiera Willis. Falle portare l'occorrente, ci penso io.”
“Può farlo anche lei, tu hai bisogno di dormire.”
“Lo farò io.”
Kelly infilò la porta guardandosi a destra e a sinistra: Shadows le balzò davanti.
“Ti devi calmare.”
“Si ammazzerà, di questo passo.”
“Sai bene che non è così. Sei solo gelosa.”
“Zacky dice...”
“In culo quello che dice Zacky. In quel letto c'è tuo fratello: se l'unica cosa che lo consola è Bambi, e Bambi è disposta a stargli affianco, allora, perdio, niente potrà impedire a me o a Brian di far sì che June stia in quella stanza, su quella sedia, vicino a quell'uomo quanto più possibile.”
La donna sostenne lo sguardo di Shadows, incurante della differenza di altezza: “Mi stai dicendo che non conta nulla il fatto che stiamo parlando non solo di mio fratello, ma di mia moglie?”
“Sì.”, rispose quello, a denti stretti, “Sto dicendo esattamente questo.”

“Hai delle mani meravigliose.”
June sorrise, massaggiando la testa di Jimmy, seduta dietro di lui. Si era arrotolata le maniche della maglia fin sopra i gomiti e gli teneva quella massa ingestibile di capelli tra le dita, attenta a non fargli fare movimenti dolorosi.
“Mi chiedo come funzionino quelle mani da qualche altra parte.”
“Oh, non ne hai idea.”, rispose June, chinandosi verso il suo orecchio. “Ti farei impazzire.”, gli sussurrò, maliziosa.
Jimmy rise: “Piantala, stronzetta.”
“Ne vuoi un assaggio? Eh?”, continuò lei ridendo a sua volta, infilandogli una mano umida di shampo e di acqua sotto la maglia, all'altezza dell'ombelico.
Scherzavano come due ragazzini: James le fermò la mano sotto il proprio ombelico, voltandosi a guardarla. I loro visi erano troppo vicini, decisamente troppo vicini. Pericolosamente vicini. I respiri si fusero, così come gli occhi: soluzioni liquide irripetibili, momenti che accadono senza che nessuno riesca a spiegarne le dinamiche. Il respiro di June si fece veloce, come se stesse lottando contro una forza inarrestabile.
“Baciami, ti prego.”, soffiò a un centimetro dalle labbra di Jimmy.
Lui le catturò le labbra tra le proprie: June gli appoggiò una mano sul viso, attirandolo verso di sé. La sua lingua era diversa da quella di Kelly: più insistente, sfrontata. Sentii il fuoco che le incendiava i lombi, e qualcosa come una corrente di ghiaccio liquido che le percorreva la spina dorsale. Senza neanche pensarci, leggera come sempre, scavalcò i fili e in un secondo gli fu addosso: sentiva la sua erezione premerle tra le gambe, ed era la prima volta in assoluto che sperimentava qualcosa del genere. Si lasciò sfuggire un gemito, senza riuscire a staccare le labbra da lui. Poi gettò un'occhiata al monitor: si rimise in piedi in un attimo, si aggiustò la maglia e si sistemò meglio che poteva. Tremava come una foglia. Alzò lo sguardo verso James, che glielo restituì passandosi una mano sulle labbra, riprendendo fiato.
“Che succede, Bambi?”, chiese lui, tirandosi di nuovo su le lenzuola e lisciandole un po', con una punta di disagio.
June si passò le mani tra i capelli, gettandoseli indietro nel tentativo di allentare la tensione del collo.
“Voglio una sigaretta. Una sigaretta che mi distragga da quello che voglio davvero. E, prima che tu lo chieda, quello che voglio davvero è salirti di nuovo addosso e tutto quel che ne consegue.”
“Dammi il tempo di alzarmi da questo letto e sarai tu a non alzarti da un letto per molto molto tempo.”
June scoppiò a ridere, nervosa.
“E tua sorella? Mia moglie?”
Jimmy esitò. “Ce ne andiamo da qualche parte, per un po'.”
“Qualche parte, ad esempio?”
“Le Hawaii?”
“Io e te da soli?”
“Io e te da soli, sì.”
June annuì, divertita.
“Diciamo, tre settimane?”
“Passate tutte in camera a fare sesso continuamente.”
Lei rise di nuovo.
“Ora non ti fissare.”, gli disse.
“Oh, sono già fissato. Sono fissato dalla prima volta che ti ho vista.”
June gli rivolse un sorriso dolce, avvicinandosi ad accarezzargli il viso. Non aveva più bisogno dell'ossigeno per respirare, e moriva dalla voglia di alzarsi dal letto.
“Sono stanco, Bambi. Troppe emozioni.”, disse Jimmy, baciando la mano di June: la giovane donna pensò che era esattamente di emozioni che aveva cercato di fare a meno sempre. Lei era guardinga nei confronti delle emozioni, e lui non faceva altro che dargliene una dietro l'altra, da quando lo conosceva.
“Dormi un po'.”, gli rispose, chinandosi a baciarlo ancora sulle labbra umide e chiuse. Le piaceva particolarmente baciarlo all'angolo della bocca già da ben prima dell'exploit di quel giorno.
“Ho voglia di toccarti.”, sussurrò lui, faticando a tenere gli occhi aperti. I farmaci lo stordivano non poco.
“Non ti ho mai toccato altro che le mani o le braccia. Ho voglia di toccarti...”
June si alzò la maglia e lasciò che lui allungasse una mano verso la sua pancia: Jimmy la fece scivolare dietro, e le accarezzò lentamente la linea della spina dorsale. June inarcò la schiena d'istinto, mordendosi il labbro. La sensazione si intensificò man mano che lui scendeva e le si riverberò tra le gambe: un forte sospiro le affiorò alle labbra e si chinò a baciarlo di nuovo, impaziente.
“Smettila.”, disse nella sua bocca.
Con uno sforzo di volontà che le veniva da centinaia di ore di tirocinio in reparti in cui l'orrore era l'ordine del giorno, fermò la mano di Jimmy appena prima che si avventurasse oltre l'elastico dei suoi slip, gli lasciò un ultimo, delicato bacio a fior di labbra e uscì dalla stanza senza voltarsi.
Una sigaretta.

 

Tre giorni.

 

“Non sono certa di aver mai saputo dare spiegazioni con un capo e una coda.”
June aveva in mano una maglietta di Jimmy, la stava piegando per infilarla in una valigia già ingombra senza riuscire a centrare gli angoli dell'indumento per riporlo in un modo che sua madre avrebbe giudicato decente; Brian, dietro le sue spalle, rideva sotto i baffi e fumava appoggiato a una finestra in un luogo dove era assolutamente vietato fumare.
June Sullivan era un bravo medico, e i bravi medici sanno accorgersi delle sfumature; il divertimento bloccato nella gola dell'altro le ferì le orecchie come un urlo.
“Brian, non rendermela più difficile. Sono talmente imbarazzata che non ricordo di essere stata così imbarazzata neanche quando ho detto ai miei di essere omosessuale.”
“Appunto. Immaginati ora che devi fargli il controannuncio.”
Lei si voltò, centrandolo in pieno torace con il flacone dello shampoo. Brian tossì sofferente una boccata di fumo che non aveva fatto in tempo ad arrivargli in fondo ai polmoni prima di essere brutalmente rilasciata di nuovo.
Era passata quasi una settimana in un silenzioso affaccendarsi di macchinari e affetti, e Jimmy reggeva bene la ripresa: nessuno volle più davvero parlare di quanto era accaduto, come se a dirlo ci fosse il rischio che lui scivolasse di nuovo tra le loro dita senza che questa volta potessero trattenerlo. June aveva fatto presente soltanto a Brian i contorni della strana evoluzione del loro rapporto, ma Brian lo sapeva già perché, prima di essere un chitarrista, era il migliore amico di qualcuno che non era riuscito a tenergli un segreto neanche quando ci aveva provato profondendoci tutte le energie che aveva a disposizione.
“Cosa devo fare?”
“Oh, June, e io che ne so? Lascia perdere, smetti di fare progetti, di voler avere tutto sotto controllo. Vivrà più a lungo, insieme a te.”
“Mi sembra di star sfasciando una famiglia.”
“Può darsi, ma almeno lo stai facendo in un modo alquanto originale.”
June gli rivolse un'altra occhiata di ghiaccio e chiuse la valigia, stanca di combattere contro cose che non ne volevano sapere di apprezzare la sua buona volontà.
“Kelly? January?”
“Se ne faranno una ragione.”
Gli occhi scuri di Brian Haner Jr. dardeggiarono, spazientiti, in quelli di June: “Secondo te, cosa sarebbe accaduto se non fosse andata bene?”
“E' andata bene, Brian.”
“Ma se non fosse andata bene, June? Cosa sarebbe accaduto? Te lo dico io: ce ne saremmo fatti una ragione. È orribile, e ingiusto, e schifoso, e non saremmo mai più stati gli stessi e io probabilmente avrei perso di vista cosa vuol dire sorridere e fatto molta conclusione tra vivere e trascinarmi a passi lenti verso la tomba, ma ce ne saremmo fatti una ragione. Perché è così che vanno le cose, è così che funziona. Succede. Succede di tutto, e le persone se ne fanno una ragione. Io non so se c'è un Padreterno ineffabile appeso da qualche parte in mezzo alla volta celeste che ha deciso di lasciarmelo qui, potrebbe darsi che sia così e allora preghiamo, ringraziamo e accendiamo i ceri, ma quel che so per certo è che senza il tuo intuito lui non sarebbe qui: io, noi, tutti quelli che hanno amato quell'imbecille ti devono qualcosa. Per cui, francamente, se Kelly potrà urlargli addosso tutta la sua rabbia senza doverlo fare con una lapide di mezzo, è grazie a te. E se January potrà continuare a contemplarlo adorante da lontano senza il coraggio di avvicinarsi, come accadeva già molto prima che tu ti inserissi nell'equazione, è grazie a te. Quindi smettila di scusarti, smettila di cercare una spiegazione valida da dargli e prenditelo, perché tra tutti quanti, me incluso, sei l'unica ad averlo amato di un amore sufficientemente intelligente da tenerlo qui.”
Lo sguardo confuso che gli rivolse la giovane donna lo indusse ad allontanarsi verso la finestra per cercare aria e accendere un'altra Marlboro, una che possibilmente non gli andasse di traverso.
“Te l'ho già detto, June. Io l'ho amato ciecamente dal primo momento che l'ho visto, ma questa è la dimostrazione che l'amore cieco non basta. Ci vuole un amore che ci veda benissimo, per salvare una vita.”
June si avvicinò a poggiargli una mano sui nervi tesi della spalla, nella speranza di rinsaldargli l'incrinatura di dolore inespresso che gli sentiva nella voce.
“Quell'uomo è la mia vita, tesoro. Purtroppo mi piace la figa, e la cosa mette un limite oggettivo e psicologico al nostro rapporto che fa sì che io non possa prendermi cura di lui come vorrei, ma ciò non toglie che io tenga a lui di gran lunga più di quanto non tenga a me stesso, a mia moglie o a qualunque altro essere vivente o morto io abbia mai considerato nella mia breve ma intensa esistenza. Ho bisogno di sapere che ci sei tu, con lui.”
“Non posso stare con lui per farti un favore personale, lo sai?”
Brian si voltò a fronteggiare la lieve ironia che sentiva nelle sue parole: “No, ma potresti stare con lui e fare un favore personale a te stessa, una volta tanto.”
“Kelly ci rimarrà di merda.”
Il chitarrista tossì, ridendo: “Ci puoi scommettere.”
Stettero in silenzio per un po', a contemplare il panorama atono al di là del vetro.
“Senti, facciamo così”, disse infine Brian, “Non voglio che si affatichi con pensieri che possiamo anche risparmiargli. Partite e basta, staccate i telefoni, ci penso io a dare spiegazioni qui.”
Jane fece una smorfia dolce, riflettendo sulle sue parole.
“Non è una cattiva idea. Nel caso la prendessero molto male, il reparto di ortopedia è al piano di sotto. Chiedi del dottor Lightman, è un amico. È molto bravo anche con la maxillofacciale, così, a titolo informativo... Te lo dico perché Kelly tende ad essere manesca.”
Risero piano, timorosi di disturbare quel pensiero che si sedimentava tra loro: solo a una cosa non c'è notoriamente rimedio, e a quanto pare loro quella l'avevano scampata.

 

Zero giorni.
Jimmy camminava tranquillo, tra gli sguardi un po' frastornati degli astanti; si sentivano come se non lo vedessero camminare da secoli, come se a un certo punto avessero pensato di non poterlo più vedere. Sorrideva, si appoggiava a June. Kelly guardava suo fratello e sua moglie con una consapevolezza dentro gli occhi che convinse Brian di due cose: la prima, che la piccola Sullivan era un membro largamente sottovalutato della famiglia, e la seconda, che in lei si stesse tenendo una battaglia di sensazioni contrastanti senza precedenti. Si concesse un attimo per provare tenerezza nei suoi confronti, ma il suo migliore amico era in piedi e già protestava con June perché gli stava impedendo di fumare il suo pessimo sigaro; il sollievo lo investì con la potenza di una doccia fredda, relegando qualunque altra sensazione a un ronzio dimesso nel retro dei suoi pensieri.
Con tutta la discrezione che il suo ruolo precario gli consentiva, allungò a June una busta bianca contenente due biglietti aerei e lei la prese guardandolo intensamente negli occhi con la sgradevole sensazione di altri occhi, non suoi, puntati nella schiena.
“Cos'è?”, chiese infatti Kelly, con il rancore che già le colorava la voce.
“Un ringraziamento da parte mia.”, rispose pacifico Brian, riportando il silenzio nel vociare confuso che circondava l'uscita di Jimmy dall'ospedale.
Zacky si avvicinò silenzioso e mise nella mano di June un mazzo di chiavi: “Lasciamela pure all'aeroporto.”, le sussurrò, “Me la vengo a prendere io poi.”
June notò la macchina parcheggiata oltre i paletti, nel bagagliaio della quale Matt stava caricando due valige decisamente impegnative che lei non aveva mai visto prima.
Jimmy non dava segno di essersi accorto del traffico furtivo che stava predisponendo la loro immediata partenza per chissà dove, ma June avvertì un moto sconosciuto stringerle il petto all'idea di quanto quegli altri quattro si stessero dando silenziosamente da fare, come una squadra, per fare quello che credevano meglio per lui. Mentre Shadows si faceva carico di Jimmy per aiutarlo a sedersi dal lato passeggero, June scrutò gli occhi di Michelle alla ricerca di una qualche consapevolezza di quel che stava accadendo, ma lei le restituì uno sguardo neutro e contento. Non sanno niente, pensò dunque June, hanno fatto tutto da soli. Ci hanno organizzato il viaggio. Non fece in tempo a finire di formulare quel pensiero che Valary la abbracciò stretta, e disse piano contro il suo orecchio: “Ho la copia delle tue chiavi di casa. Quella di prima. Se necessario, basta un colpo di telefono e la porto io la tua roba lì. Voi andate e non vi preoccupate di niente.”
June salì in macchina senza riuscire a reprimere un sorriso che lei per prima trovò fuori luogo, visto che stavano di fatto fuggendo senza dire nulla a nessuno.
Johnny si affacciò al finestrino porgendole una piccola busta della Verizon: “Ci sono due schede telefoniche da sostituire alle vostre, noi ci siamo già segnati i numeri. Dateci un segno, quando arrivate.”
Lei si sporse dal finestrino a baciarlo su una guancia, sussurrando un “grazie” che sperava facesse arrivare a tutti quanto prima.
“Allora ci vediamo a casa?”, trillò giuliva Barbara mentre lei accendeva il motore.
“Sì, mamma!”, rispose Jimmy, voltandosi a guardare oltre la propria spalla, “Insomma, prima o poi.”, aggiunse a voce più bassa.
June sentì l'aria dell'oceano riempirle i polmoni mentre le ruote imboccavano il vialetto d'uscita dell'ospedale e si immettevano nella superstrada diretta a LAX; Jimmy mise una mano su quella che lei teneva sul cambio, senza dire nulla. Guardava fuori, e June ne approfittò per gettare uno sguardo furtivo alla sua nuca spettinata dal vento.
“E' stato gentile, Zacky, a lasciarci la macchina.”, osservò, dando un'ultima occhiata al passato nello specchietto retrovisore.
“Infatti. Prima di andare ricordiamoci di incidergli GRAZIE sulla fiancata con le chiavi.”
June provò a trattenersi, ma scoppiò a ridere, e sentì nella propria risata la eco di quella di Jimmy, che stava pian piano riacquistando tutto il suo fragore.
La California era immersa nei colori di una stagione indefinibile, surreale; i capelli di June schiaffeggiavano il vento e due lacrime roventi le si incastrarono tra le ciglia.
Jimmy stava scartando i biglietti: “Haiti? Che cazzo c'è ad Haiti? Il vodoo?”
“Leggi bene, c'è scritto Thaiti.”
“D'accordo. E che cazzo c'è, a Thaiti?”
“Beh, fra un po' ci saremo noi. Non è abbastanza?”
Jimmy sorrise, poggiando la busta sul cruscotto.
“Certo che è abbastanza. L'importante è che ci sia un letto.”
June rise e posò una mano sulla sua gamba, mentre sfrecciavano sulla highway costeggiando il Pacifico: “Non ti devi affaticare, ricordatelo.”
“Madonna, pure?! La prossima volta lasciatemi morire! Mi sembra meno impegnativo!”
Lei gli rivolse uno sguardo falsamente severo.
“E guarda che alcuni di noi non la registrano come una fatica, quella cosa lì!”, aggiunse poi lui, afferrandole la mano per baciarle le dita.
“Anzi, da qualche parte ho letto che fa anche bene al cuore.”
June sorrise. “Sai cosa fa bene al cuore?”
Due occhi azzurri si puntarono brevemente nei suoi, prima che tornasse a guardare la strada: “Cosa?”
“Tu.”

 

I say, oh, got this feeling that you can't fight
like this city is on fire, tonight,
this could really be a good life, a good life, a good life.

 

 





 

   
 
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