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Autore: SoleSun    03/07/2014    1 recensioni
La prima cosa di cui fu consapevole era il buio.
Buio esterno: non un filo di luce arrivava alla sua mente; buio interno: non percepiva il suo corpo. Era, senza nome, senza spazio, senza ricordi. Galleggiava nell'oscurità, nel nulla.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La prima cosa di cui fu consapevole era il buio.

Buio esterno: non un filo di luce arrivava alla sua mente; buio interno: non percepiva il suo corpo. Era, senza nome, senza spazio, senza ricordi. Galleggiava nell'oscurità, nel nulla.

Non seppe mai per quanto era rimasto lì sospeso, immobile e senza pensieri, conscio solo del buio. Ore? Giorni? Secoli? Intere galassie avrebbero potuto essere nate e poi distrutte nell'arco del periodo in cui la sua coscienza galleggiò nel nulla.

E poi, dopo infiniti eoni, un chiarore tenue, rossastro, percorse le sue terminazioni nervose fino a colpire il cervello.

E lui osservò quel chiarore, lo studiò, ci vide infiniti mondi ed infinite galassie, particelle danzanti, fuochi artificiali che fiorivano e morivano.

Poi il chiarore, dopo essersi intensificato e via via affievolito, svanì di nuovo.

E fu ancora il buio, ma stavolta era pieno di particelle e fuochi artificiali.

Quando il chiarore tornò, venne accompagnato dalla percezione di un qualcosa che fremeva, colpito dalla luce.

Non era più solo una coscienza che fluttuava nell'etere, ma aveva, da qualche parte, un corpo, e da quel corpo ora arrivava un debole, tenue segnale.

La consapevolezza di avere un corpo portò il primo ricordo, collegato alla luce: acqua, un lago incastonato in mezzo alle montagne aride, con il sole riflesso che riverberava fastidiosamente nei suoi occhi. Quel ricordo diede la stura a un fiume in piena: la sua terra d'origine, col suo unico sole e la sua unica luna, le lacrime di sua madre al momento di salire sull'astronave e lasciare per sempre il pianeta natio, il lungo, infinito viaggio nello spazio nero e profondo, dove solo le stelle spezzavano la monotonia del nero, il mondo d'adozione coi suoi due soli, le mille lune e la terra rossa e polverosa, la città coi grattacieli altissimi dalla cima dei quali si vedeva per chilometri e chilometri nel deserto di pietra.

Un ricordo portava all'altro, panorami, edifici, stanze, oggetti.

Rivide la sua stanza di bambino sulla Terra, con la tenda ad ossigeno azzurra con gli orsacchiotti. Rivide la sua cuccetta sull'astronave, poco più di un buco con a malapena lo spazio per scendere dal letto. La sua stanza di ragazzo a casa dei genitori su Dubhia, tutta monitor e impianti telecinetici, quella nel campus dell'università, divisa con altri due ragazzi.

Le scuole elementari sulla Terra, le medie in astronave, le superiori e l'università su Dubhia. Il suo ufficio.

E i volti, quelli dei genitori, di sua sorella, quelli nebulosi dei nonni rimasti sulla Terra, del suo amico Kyer.

E Clara. Clara...

Clara in bikini sul bordo della piscina, la prima volta che erano usciti insieme. Il suo corpo un piccolo miracolo, nata dall'improbabile unione tra un Dubhiano e un'immigrata terrestre.

Lei tra le lenzuola sfatte della prima notte insieme, con gli occhi assonnati e soddisfatti; lei vispa e ansimante dopo una corsa; lei con l'abito tradizionale dubhiano il giorno del loro matrimonio. Lei. Lei. Lei.

Lei non c'era più.

Dolore, dolore ovunque, un'esplosione di sofferenza che saturava tutto il suo percepire e il suo essere. Un unico grido d'angoscia: Clara!

Per ore, giorni, millenni tutto ciò che lo attraversò fu dolore puro, senza forma, senza scampo. Straziante. Poi una sequenza di immagini, che avrebbe voluto strapparsi dalla mente per non doverle rivedere mai più.

Clara sorridente davanti al portone del loro palazzo, il bacio rapido che si erano dati, l'ultimo. Poi lei era salita sul suo velivolo, e lui sul proprio. Si erano alzati in volo insieme, diretti verso il 3Dbowling lui e casa dei propri genitori lei. La navetta di Clara era poco sopra la sua, più avanti sulla destra, quando un pazzo lanciato a folle velocità contromano l'aveva centrata in pieno. La navetta era stata avvolta dalle fiamme e da un fumo nero, e l'onda d'urto aveva fatto sbandare anche quella di lui, che si era trovato a lottare coi comandi. Quando aveva rialzato lo sguardo, quella palla di fumo e fiamme che era stato il velivolo di sua moglie stava precipitando, per schiantarsi infine a terra poco lontano dal punto da cui era decollata.

L'urlo disumano che gli era uscito dalla gola risuonava ancora adesso nella sua mente, l'angoscia e il dolore di quel primo istante ancora vivi e veri dentro di lui.

Non gliel'avevano fatta vedere.

Non aveva avuto più voglia di vivere.

E ora la consapevolezza di quel peso lo rese conscio che aveva degli occhi, e che dalle palpebre serrate scivolava fuori, lentamente, un fiume di lacrime.

Pianse il male e la solitudine e la sofferenza, pianse la nostalgia delle cose perdute e l'ingiustizia dell'essersele viste strappare via. Pianse fino a singhiozzare, e allora si rese conto di avere una bocca, una gola, un petto straziato dal pugno del dolore.

Si accorse di avere un naso, chiuso e colante, e guance percorse dalle lacrime.

Si accorse di avere mani strette a pugno, e spalle contratte per chiudersi in sé stesso.

Aprì gli occhi.

La luce improvvisa ferì le sue pupille avvezze al buio, accecandolo. Istintivamente serrò di nuovo le palpebre.

Le riaprì piano piano, sbattendole, lottando contro l'impulso di serrarle ancora.

A poco a poco il bruciore scemò, e i suoi occhi si adattarono alla nuova condizione.

La prima cosa che vide fu la crepa nel vetro davanti a sé. Oltre a quella, una stanza polverosa, illuminata da un raggio di sole proveniente da un buco nella parete, in alto e un po' sulla sinistra rispetto a lui. Buco evidentemente dovuto a un crollo, visto che a terra sotto di esso c'era un mucchietto di calcinacci, pezzi di malta e mattoni rotti.

Tutt'intorno banconi pieni di ragnatele, ricoperti da attrezzature e strumenti impolverati o che cadevano in pezzi. O entrambe le cose.

Osservò tutto questo con distacco, come se la cosa non lo riguardasse, e in quel momento non lo riguardava, tutto ripiegato com'era nel suo dolore.

Osservò il gioco del raggio luminoso che lentamente si spostava e diventava via via meno forte, oro poi arancio poi rosato e infine spariva.

E allora, consumato fin nel profondo, dormì.

  
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