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Autore: Michan_Valentine    03/07/2014    2 recensioni
Calardir ha un nome da elfo, usa le pitture di guerra e ha un compagno animale. Ma è un uomo, ha un obbiettivo e nasconde un segreto di cui non conosce l'entità.
In una terra divisa, superstiziosa e governata da un re invasore, le strade percorse da chi cerca con ogni mezzo di determinare il proprio destino s'incontrano in un quadro più ampio e delineato invece da tempo. Qualcosa di ancestrale e sopito nella memoria dell'umanità si agita nelle profondità della terra e negli animi di chi può avvertirne il potere, tirando gli invisibili fili di una trama che potrebbe sconvolgere il mondo conosciuto e portarlo definitivamente alla rovina.
Tentativo di "high fantasy" con tutte le eccezioni del caso.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
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 Prologo
“Guardami.”

Il sibilo tagliò l’aria e sovrastò il rumore di masticamento. Il contadino sussultò, come sferzato dal comando. Tremò e strinse maggiormente a sé il corpicino del figlio; ma non riuscì a deviare lo sguardo dalla carcassa.

Il bambino invece non guardava proprio, confortato dalle braccia e dal petto del padre. Labile protezione. Era lercio, puzzava di piscio e piagnucolava troppo. Un tedio per le sue orecchie; e un piacere al tempo stesso. Difficile dirsi dove finiva l’uno e iniziava l’altro.

Rannicchiati a terra, padre e figlio davano l’impressione di un mucchio di stracci abbandonati. Carcasse anche loro. Lividi, piccoli e spauriti. Insignificanti. Materia prima o nutrimento per le sue deliziose, obbedienti creature. Ma c’era del bello nella mortalità che le si mostrava in forma pura.

C’era orrore negli occhi sgranati dell’uomo, fissi sull’ammasso di carne bruciata e interiora sparse che una volta era sua moglie. La donna con cui aveva giaciuto, condiviso i sospiri e concepito l’esserino che ora gli si avvinghiava addosso, in cerca di qualcosa che non poteva dargli. C’era terrore nelle membra rigide, sudate e tremanti. Inermi. C’era sincerità assoluta nella pozza di urina che macchiava gli abiti e si allargava sul pavimento. Ma, soprattutto, c’era consapevolezza. Completa, agghiacciante consapevolezza. Sapevano di essere carcasse. Lo sentivano dentro, nelle viscere. Era solo questione di tempo.

Dinanzi a un simile spettacolo non poteva restare indifferente. Era eccitata. Si sarebbe immediatamente bagnata fra le gambe, se solo il suo corpo fosse stato di carne e sangue come un tempo. Ne voleva di più.

Sei un’ingorda, Iblys. Hai tutta l’eternità davanti. Puoi rimandare. Smettila di giocare. Noi stiamo aspettando.

Lasciò scattare la mandibola scarnificata. Le fila di denti gialli e neri scricchiolarono e sfregarono sinistramente fra loro, esprimendo disappunto. Non voleva ascoltare l’eco. Non in quel momento così piacevole.

“Come si chiamava? Doveva avere un nome.” sibilò ancora.

Non si riferiva ai resti della donna, ma alla creatura che ne masticava le budella. Voltò il capo e le vertebre esposte del suo collo crepitarono, come volessero sfaldarsi e finire in polvere da un momento all’altro. Non se ne preoccupò e analizzò le fattezze della sua più recente creazione.

Chino sui quattro arti, la testa affondata nel ventre aperto della donna riversa terra, il non morto si nutriva con sordo rumore di carne e ossa maciullate. Il sangue gli imbrattava i vestiti e le braccia fin sopra i gomiti, gli sporcava i denti storti e gli scivolava in corposi rivoli sulla bocca e lungo il collo a ogni boccone. Sembrava vivo. Era fresco, dopotutto. Ma gli occhi vitrei e la ferita slabbrata che gli aveva inferto sul collo raccontavano tutt’altra storia.

La carcassa era invece irriconoscibile. Labbra, naso e parte del viso le erano stati staccati a morsi. Uno dei bulbi oculari pendeva lungo la guancia martoriata del cadavere e rifletteva sinistramente la luce soffusa dell’ambiente.

Un quadro affascinante. Peccato che la donna non si dimenasse e non urlasse più.

“S-signora… vi p-prego…” replicò il contadino messo all’angolo “V- vi prego… almeno mio figlio…”

L’uomo aveva ritrovato la favella e un pizzico di coraggio, notò. Tuttavia non le aveva risposto. O meglio. Non le aveva obbedito.

“Abitava qui vicino. Devi conoscerlo.” continuò, sorda alle suppliche “Probabilmente quando stamani si è svegliato nel suo letto, accanto a sua moglie e ai suoi figli, ha sorriso. Ha provato gioia. O forse no. Forse ha provato debolezza. O amarezza. Stanco di lavorare la terra tutti i giorni fino a farsi sanguinare le mani. Stanco di giacere con la stessa donna da anni, di vivere in un buco fatto di fango e di essere guardato dall’alto in basso dai possidenti. Magari ha pensato di farla finita. O di rifarsi sugli altri. Oppure non ha provato niente. Affatto. Indolente, di per sé soddisfatto dall’inerzia della vita. Chissà…” fece una breve pausa, lisciò il finissimo broccato che le ricadeva sulle ossa e adocchiò i tratti della creatura in questione “Poi è calato il buio e sono arrivata io. Non si aspettava la mia visita. Non così presto. Improvvisamente tutto ha perso d’importanza. Chi era, cosa voleva e dove stava andando. Tutto. Eccetto il terrore. E l’essenziale. Così ha pianto per trarre un respiro di più. Un battito in più. Ha supplicato per accaparrarsi secondi d’esistenza. Semplicemente per sentirsi vivo il più a lungo possibile. Ha invocato…” rise “...il Luminoso. Ma non ha ricevuto grazia. È morto nella disperazione... perché non ha risposto alle mie domande.”

“Io… io non so n-niente! Mio figlio non ha fatto niente! Vi prego…”

Fece scattare nuovamente la mandibola, il collo, e il suo teschio puntò nuovamente padre e figlio. Le fiamme verdi che bruciavano sul fondo delle sue orbite scure avvamparono e crepitarono per via dell’irritazione. Di rimando l’uomo si fece più piccolo e strinse con maggiore vigore il corpo inerme del bambino. Quello strillò così forte che perfino il non morto alzò la testa dalle viscere calde.

“Non sai niente?!” sibilò Iblys, sferzando l’aria “Non sai niente!” reiterò con maggiore veemenza, finché perfino la luce della candela tremò e s’affievolì, proiettando intorno ombre tremolanti e più dense “Fiamme. Volute inestinguibili. Indomabili. Nove anni or sono hanno ingoiato il vostro villaggio, hanno devastato i vostri campi, consumato fra urla di tormento i vostri cari! La terra è ancora morta, lì dove è stata toccata. Nera. Da nove anni il sottosuolo continua a bruciare. La superficie è rovente al tocco. Pulsante. L’aria stessa che si respira in quei luoghi è torrida. Malsana. E nessuno di voi ha visto o sentito niente?!”

Uccidilo! Uccidilo subito! Da morto scioglierà la lingua. Ti obbedirà, mia Signora. Sta mentendo. Noi eravamo lì e lo sappiamo.

Inclinò il capo e poggiò elegantemente il braccio sul tavolo cui sedeva. I morti non ingannavano, ma non erano loquaci. E raramente risultavano esaustivi. Fece ticchettare le falangi mummificate sul ruvido piano e soppesò l’idea. Il tavolo era sporco, pieno di solchi e traballava spesso. Su di esso la zuppa si raffreddava, ormai abbandonata e vittima delle mosche. Uno scenario ordinario. Modesto. Improvvisamente si riscoprì stanca di giocare. La noia era da sempre sua acerrima nemica. Nemica dell’immortalità. E quel posto non si confaceva a una Signora. Forse l’eco non aveva tutti i torti...

“N-noi… siamo scappati. Prima che il fuoco raggiungesse i campi… non eravamo al villaggio. Non so c-come sia successo…”

“Chi altri.”

Il contadino tremò, boccheggiò, occhi sgranati e fissi su di lei. Sembrava confuso. E non riusciva a sostenere quanto i suoi occhi vedevano. Nondimeno era fisicamente incapace di distogliere lo sguardo. Ciò la deliziò e le conferì ulteriore pazienza. Avrebbe sorriso, comprensiva come una madre, se solo avesse avuto delle morbide labbra.

“Chi altri è sopravvissuto.” specificò quindi “Chi è uscito vivo dalle fiamme.”

Quello si passò la mano sul viso una, due volte, forse accecato dal sudore e dalla sporcizia. Poi tornò a stringere il piccolo al petto. Poteva leggere l’urgenza nei suoi gesti, poteva immaginare i pensieri che gli saettavano nella mente, le parole che gli indugiavano sulle labbra e sentire perfino il suo cuore palpitare fino allo spasmo. Gonfio di speranza. Era cauto, sì. Spaventato, anche. Ma era pervaso dalla speranza che se avesse detto la cosa giusta si sarebbe salvato. Le faceva quasi tenerezza.

“Due bambini. Dal villaggio. Un maschio e una femmina.” sputò infine il contadino “Non so come abbiano fatto. Né dove siano adesso. Un uomo, uno straniero li portò via con sé la notte della tragedia… aveva l’oro…”

È lui! Si è fatto beffe di te. Si è fatto beffe di noi. Deve pagare! Chiedigli chi è! Vogliamo conoscere il suo nome…

Le molteplici voci tacquero, disperdendosi nella sua mente. L’eco era impaziente. La comprendeva. Per anni era tornata sul luogo dell’incendio per interrogare i probabili testimoni di quanto era stato, ricavando informazioni ovvie sull’imprevedibilità e sull’inspiegabilità dell’accaduto. E quello era forse il primo indizio concreto. E utile. I villici erano sempre stati approssimativi e discordanti nelle versioni. E la paura aveva fatto il resto, trasformando i possibili indizi in suppliche. In molti avevano detto che non c’erano stati sopravvissuti. Altri avevano parlato di soccorsi, di orfani. Alcuni avevano invece spergiurato di essersi salvati grazie all’aiuto divino. Sciocchezze.

Ma l’uomo di cui l’altro parlava... Un Tessitore di Trama, indubbiamente. Come lei aveva percepito le interferenze nei filamenti di nove anni prima e le aveva seguite fino a raggiungere l’epicentro del fenomeno. L’aveva preceduta di un soffio. E le aveva sottratto quanto bramava.

L’affronto bruciava. Le fiamme dei suoi occhi crepitarono e avvamparono nuovamente, le sfilza di denti scivolarono gli uni sugli altri per l’irritazione. Con infida e falsa calma si protese sul tavolo, poggiò i gomiti sul piano e intrecciò le falangi innanzi a sé.

“Uno straniero…” sibilò “Non mi basta. Voglio un nome.”

Se possibile, il contadino si fece più cinereo e più piccolo. Poi deglutì e scosse furiosamente la testa. Era di nuovo nel panico. Probabile che non sapesse come accontentarla.

“S-signora. Vi prego… non conosco quell’uomo… non l’ho nemmeno mai visto. È stato m-mio padre a raccontarmi la storia. Ma è morto l’anno scorso di polmonite, poveretto… Al tempo ero s-solo un ragazzino e ricordo c-così poco. Vi p-prego, almeno mio figlio… almeno mio figlio…”

Iblys si ritrasse, sciolse la morsa delle dita e poggiò nuovamente contro lo schienale della sedia. Era stanca dei balbettii. Il tedio aveva infine surclassato il piacere e perfino i singhiozzi, il puzzo d’urina del moccioso cominciavano a darle ai nervi. I morti non ingannavano. L’aveva detto anche l’eco. E lei aveva già perso troppo tempo.

Sollevò il braccio e la sua obbediente creatura assecondò immantinente il comando. Con un rantolo il non morto barcollò e si rimise in piedi, le braccia penzoloni lungo i fianchi e l’espressione spenta. Vuota. Le budella della donna gli scendevano dal margine della bocca, semi masticate. Un tocco di colore che la riempiva d’anticipazione.

Di rimando il contadino tremò da capo a piedi e si guardò freneticamente attorno, forse alla ricerca di una scappatoia. Non ce n’erano. L’aveva già appurato quando si era presentata in casa sua e l’aveva messo all’angolo; ma l’istinto di sopravvivenza restava un insopprimibile e delizioso prodigio della natura. Il morto vivente era uno strumento fallibile. Tuttavia non sarebbe mai riuscito a sfuggire a lei.

Quello l’intuì l’istante seguente, perché serrò gli occhi, invocò Helientar e coprì il figlio per intero con le proprie membra. Illuso.

“Prima il bambino.” sentenziò.

Con una rapidità impensabile per un ammasso di tessuti in decomposizione, la creatura protese le braccia, spalancò le fauci e si scagliò sui viventi alla stregua di un animale selvatico. E implacabile. Le strilla risuonarono nella notte. Sembravano quelle di un maialino da latte, ponderò.

Mentre tornava a ticchettare con le falangi sul vecchio, consunto tavolo, ammise nuovamente fra sé che la mortalità le riservava sempre degli spettacoli meravigliosi.
 
Salve! Dopo un millennio torno a pubblicare questa vecchia storia, che ho rivisto e riscritto da capo. Perché sono masochista. E perché faceva schifo. Lol. Questo è il prologo. E mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate. Non solo, mi sarebbe davvero d'aiuto per capire in che direzione sto andando. Mi rendo conto che è crudo. Tuttavia spero che risulti quantomeno interessante. Perciò vi chiedo... continuereste a leggere questa storia? Oppure scappereste urlando? ^^'
Come informazioni generali posso dire che la storia consterà di capitoli lunghi. E di aggiornamenti non costanti. Sto cercando di fare le cose per bene, stavolta, perciò ho bisogno di tempo per documentarmi e scrivere. Alla prossima!
CompaH
   
 
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