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Autore: Love_in_London_night    03/07/2014    4 recensioni
Devin, scozzese e Parker, americano.
Pensate che il problema sia nella lontananza? SBAGLIATO!
La vera difficoltà è la popolarità, già.
Perché Parker è un attore famoso, ma solo negli Stati Uniti, cosa su cui il suo agente sta lavorando. Devin, invece, è una ragazza qualunque che è fuggita dalla Scozia per chiudere con il passato, e della notorietà di lui non sa nulla.
Cosa succederà tra loro? Perché si ritroveranno ad avere a che fare l’uno con l’altra?
Un modo diverso di vedere il mondo di Hollywood e di come vive chi lo popola. Un patto che porterà più caos che altro nelle vite dei due interessati.
"«Sentimi, buon samaritano, spero tu abbia ragione, perché se scopro che questa città fa più schifo di quanto tu mi abbia detto, ti assicuro che non mi importa per quanto dovrò cercarti, ti troverò e ti prenderò a calci nel culo, anche se sei più alto di me di venti centimetri».
Era una ragazza scozzese dopotutto, il suo bon ton era tutto birra, modi rudi e uomini con il gonnellino, non si poteva pretendere che parlasse come una principessa dispersa in una foresta di fate e unicorni.
Lei non viveva a Narnia."
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 1

 
Come farsi lasciare in dieci giorni


 
La prima giornata di vacanza dopo il lavoro era sempre fantastica: poteva alzarsi tardi, infilarsi il costume, trovarsi con gli amici in spiaggia per surfare un po’ e, verso sera, bere qualche birra attorno al falò a raccontarsi aneddoti divertenti. Erano gli amici di sempre, tanto quanto lui tornava a essere quello di sempre in loro compagnia, un ragazzo qualunque.
Certo, se non si calcolava la piccola villa a Hollywood e il conto in banca a tanti zeri, troppi per ricordarli tutti.
Perché Parker Payne era il nuovo astro nascente dello star system americano, ma era troppo semplice perché attirasse su di sé i riflettori fuori dal set. Gli bastava poco per sentirsi felice e appagato, quel poco che non piaceva a John, il suo agente.
«Dio, Parker, perché sei così poco interessante? Non hai problemi d’alcool, non ti droghi, niente. Ok, mi sta anche bene avere un reale talento tra le mie mani d’oro, ma non sei nemmeno uno sciupa femmine! Capisci che non posso fare tutto io?»
Glielo ripeteva in continuazione John, tanto che aveva sentito quello stesso discorso la sera prima, quando aveva deciso di saltare la festa di fine riprese organizzata dalla produzione del suo ultimo film, e il pomeriggio stesso. Questa volta per telefono.
«Ho fatto surf oggi. E mi sono alzato prima di mezzogiorno, non mi sembra poco». Lo prese in giro Parker mentre salutava gli amici e si sedeva in auto ma senza metterla in moto. Nemmeno quel giorno l’avrebbero arrestato per infrazione del codice stradale.
«Ti ha morso uno squalo?»
«No». Rispose Parker, stufo di quello che si sarebbe rivelato un infruttuoso interrogatorio per quel povero Cristo di John.
«Hai salvato la vita a qualche persona?»
«Nah»
«Conquistato qualche modella?» lo incalzò.
«Nemmeno». Almeno replicare era facile e, nonostante la risposta fosse stata sempre la stessa era riuscito a sfoggiare tre diverse negazioni, era soddisfatto di sé e della sua cultura. Chiunque avrebbe capito che adorava leggere, bastava prestare attenzione al suo vasto vocabolario.
«Ho bevuto una birra prima, ah!» Parker lo aggiunse compiaciuto, quasi volesse dimostrare di essere trasgressivo se solo avesse voluto. «Attorno a un fuoco».
Lo aggiunse come se avesse calato il carico da novanta.
«Con i tuoi amici?»
«Beh… sì». Ammise meno spavaldo.
«Allora non hai fatto nulla di produttivo per la tua carriera». John sospirò. «Sei un vero talento, e non parlo come il tuo cinico agente, ma da uno esperto dell’ambiente. Sei anche un bravo ragazzo, ma lo sei pure troppo. Non ti presenti alle feste, ti tieni distante dalla vita mondana e frivola». Era diventato più conciliante, come un padre che tentava di spiegare al figlio il significato più profondo della vita.
«A me non piace la vita mondana e frivola, se posso la evito». Gliel’aveva ripetuto più volte, ma ribadirlo non lo uccideva di certo. Era fatto così Parker, e aveva sempre promesso agli altri e soprattutto a se stesso che mai sarebbe cambiato nonostante il proprio lavoro. Era orgoglioso di poter dire di aver mantenuto la parola data.
Non sopportava di dover presentarsi a feste dove non conosceva nessuno, non c’era uno straccio di faccia amica, beveva champagne vestito da damerino come se stesse pubblicizzando Chanel n°5; trovava fastidioso dover essere compassato e rigido in un completo firmato che non lo rappresentava molto, fingere di essere pieno di fascino e mistero, sfoggiare la sua miglior faccia da uomo perbene come tutti, quando poi – a turno – si chiudevano in bagno per farsi qualche striscia di coca.
Preferiva stare in casa con la felpa a ripassare il copione, cercare nuovi progetti o giocare a Gran Theft Auto.
«Sai chi decreta il vero successo di un attore?» John lo riportò con i piedi per terra e le orecchie ben piantate al telefono.
«I fan?!» rispose insicuro.
«No. Ok, non solo. I paparazzi Parker, i paparazzi. Se tu attiri l’attenzione sullo schermo sei bravo, ma se riesci a interessarli anche fuori, specialmente in positivo, beh… sei il migliore. Un Dio».
Parker era confuso. Certo, sapeva che avere l’interesse dei media era importante e che erano loro a decretarne il successo o la totale sconfitta, ma non era convinto di dipendere così tanto da loro, se ora recitava in film che potevano essere candidati per l’Oscar era merito suo.
«Se ti vedessero uscire con, vediamo… Scarlett Johansson, attireresti la loro attenzione senza ledere la tua immagine. Il loro focalizzarsi così poco su di te è un punto a tuo sfavore. Ti fotografano se ti trovano per caso in giro, non escono per cercarti, aspettano sempre altri. Devi renderti desiderabile». Spiegò l’agente spiccio.
«Perché…» cercò di farlo arrivare al punto.
«Perché più interessi al gossip, più la gente vorrà vederti. Più la gente vorrà vederti, più i produttori e i registi ti cercheranno. Tutti vorranno nei propri film un ottimo attore che sia anche in grado di garantirgli pubblico, e quindi un buon rientro monetario. È ovvio, no?»
«Sì, ovvio». Tanto quanto la virilità di Robin Williams in Mrs. Doubtfire.
«Bene, ora devo andare, ho un appuntamento per te, mio piccolo talento perbene. Vedi di rendermi fiero». E riagganciò prima che Parker potesse salutarlo.
Il ragazzo fissò il telefono con aria strana, capiva il suo agente, ma non poteva certo cambiare il suo modo d’essere.
Scosse la testa e un sorriso divertito gli comparve sul volto, nulla nella sua vita era normale come lo ricordava, nemmeno le persone che lo circondavano.
Avviò il motore e si diresse verso casa propria. Solo davanti a un piccolo market all’inizio del Boulevard si ricordò di avere uno stomaco che andava riempito e brontolava per non essere stato assecondato. Scese dal fuoristrada parcheggiato accanto al marciapiede nei pressi dell’entrata e si sgranchì le gambe e le spalle.
In realtà aveva bisogno anche di non pensare alle parole del suo agente. Lui non voleva essere l’attrattiva dei paparazzi, anche se voleva dire essere in cima al mondo. La loro indifferenza era più che ben accetta. Gli piaceva poter camminare con una certa libertà, sapere che nessuno rovistava nei sacchetti delle spazzatura che lasciava nei bidoni fuori casa, sentirsi libero di girare per casa come meglio credeva e, soprattutto, avere una certa riservatezza in bagno.
Perché avrebbe dovuto rinunciare a tutto quello?
Non riusciva a trovarne un beneficio.
Si guardò in giro e, prima di entrare nel drugstore, fissò per qualche secondo una figura strana davanti a sé: era una ragazza. Capelli rossi, quasi arancio, e la faccia con tantissime lentiggini.
Era seduta sul bordo del prato di fianco al parcheggio del market, la fronte ora appoggiata sulle ginocchia, una bottiglia di vodka in mano. Anche se non stava piangendo si poteva capire benissimo che l’aveva fatto per molto, molto tempo, aveva gli occhi gonfi e cerchiati da occhiaie viola.
Parker sgranò gli occhi, quella ragazza doveva essere messa davvero male per bere da sola seduta sul ciglio del marciapiede, eppure aveva in sé qualcosa di buffo. Lei era buffa. Nonostante fosse triste riuscì a strappargli un sorriso.
Avrebbe voluto toglierle la bottiglia di vodka dalle mani e gettarla via, magari era un’alcolista che aveva bisogno di un aiuto, ma poi si disse che lui non era nessuno per poter applicare tutta quella autorità su qualcuno, quindi decise di seguire i bisogni del suo stomaco ed entrò nel drugstore alla ricerca di qualcosa di commestibile e, preferibilmente, già cotto.
Dopo venti minuti si era ritrovato in cassa con delle patatine alla paprika nel sacchetto, dei popcorn da mettere nel microonde, una bibita gassata alla ciliegia e una pizza surgelata. Guardò fuori dalla porta d’entrata e lì accanto vide ancora la ragazza, seduta dove era prima.
«Sono sedici dollari e settanta» disse svogliato il proprietario del negozio.
«Aggiunga anche questo» Parker posò sul bancone una barretta al cioccolato e al caramello, a tutti piacevano quelle schifezze. «Ok, ne metta due».
Si era dimenticato il dolce, doveva pure rimediare.
«Diciotto e cinquanta» rispose l’uomo sempre più indolente. Mise tutto nel sacchetto di carta e nemmeno ringraziò Parker per avergli augurato un buon lavoro. Almeno uno dei due conosceva l’educazione.
L’attore mise in auto la spesa e poi schiacciò di nuovo il tasto dell’allarme. Non che avesse intenzione di allontanarsi da lì, dato che aveva l’idea di assicurarsi che per la ragazza tutto fosse okay, ma era abitudine. Non per nulla era una persona precisa.
Aveva fiducia nel prossimo, ma non in tutti.
Non di sicuro nel tipo che stava passeggiando con quell’aria losca sull’altro marciapiede.
«Tieni». Esordì gentile allungando la barretta alla sconosciuta. «Ho pensato che potesse aiutarti… Beh, ad assorbire» e indicò la bottiglia.
Lei sorrise stanca, prese la confezione tra le mani ma non la aprì. «Come se potesse fare la differenza. Comunque grazie».
Almeno lei era stata più gentile rispetto al proprietario del drugstore, Parker sorrise di quelle parole. Non sembrava ubriaca, in effetti la bottiglia non era molto vuota. Decise che non doveva essere facile buttare giù della vodka liscia, di sicuro non era semplice come sembrava nei film.
«Ehi, ma dove è finito il sacchetto marrone in cui ti hanno nascosto la bottiglia?» decise di sedersi accanto a lei, forse parlare un po’ le avrebbe fatto bene. Lui non aveva fretta di rintanarsi a casa per mangiare da solo. «Sai, per noi americani è d’obbligo quell’involucro, mantiene alto il nostro valore di finta pudicizia».
Sorrise senza essere davvero contagiata dal resto. «Appunto, per voi americani. Siete davvero dei finti moralisti!» aggiunse quasi divertita. «Siete la patria del porno e vi scandalizzate per un seno mostrato in diretta, avete creato il junk food e vi lamentate dell’obesità. State pensando di vietare la Nutella. No dico, siete per caso scemi?»
Parker sorrise, la sua invettiva aveva un qualcosa di appassionato che lo fece divertire. «Deduco che tu non sia americana». Diede un morso alla sua barretta al cioccolato. «Però sulla Nutella posso darti ragione da vendere. Quella cosa è fantastica, una vera droga!»
«No, appunto». Si limitò a rispondere lei, chiudendosi dietro il silenzio e la faccia scura che l’aveva caratterizzata fino a prima. Il cappuccio calato sulla testa le conferiva un’aria più cupa di quella che in realtà aveva.
Bevve un sorso di vodka per levare i residui di caramello tra i denti, ma dopo tradì tutta la sua facciata esprimendo il proprio disprezzo con una smorfia di disgusto accompagnata da un brivido.
«I programmi per la serata?» a Parker piacevano le persone, c’era sempre qualcosa di nuovo e affascinante da scoprire. Era sicuro di una cosa: il successo e la propria umiltà dipendevano dalla sua curiosità; se non avesse avuto quella a spingerlo non sarebbe arrivato da nessuna parte.
La ragazza fece dondolare la bottiglia. «Sono indecisa» pronunciò con tono amaro. «La vodka sta iniziando a darmi alla testa, quindi le alternative sono due: o mi chiudo in casa a piangere tutte le mie lacrime – quelle della giornata, sia chiaro – oppure do fondo alla bottiglia e mi addormento nel giardino di qualche sconosciuto, nella speranza di non vomitare l’anima»
«Beh, alternative allettanti» scherzò Parker mentre si grattava il mento. «Però potresti fare due passi con me per smaltire l’effetto della vodka. Niente pianti e niente vomito, solo un giro e due chiacchiere, prometto».
Si alzò e poi le tese la mano davanti al viso, nella speranza che dopo una prima reticenza avesse potuto accettare.
«Devo proprio parlare?» quasi grugnì contrariata alzando gli occhi al cielo.
«No, se vuoi parlo solo io e tu ascolti». Sorrise rallegrato. Il fatto che lei fosse contraria a tutto quello ma continuasse a stare al suo gioco lo divertiva parecchio, voleva vedere fino a che punto quella sconosciuta poteva sopportarlo.
Senza contare che non l’aveva riconosciuto o, comunque, non aveva dato peso al suo essere famoso.
«Ma chi sei tu, il buon samaritano di turno?» disse lei nell’alzarsi.
No, a quanto pare non sapeva chi fosse.
«No, sono Parker. Tu?»
Ma prima che potesse rispondere lei si mise in piedi con troppa foga e, complice la vodka in corpo, gli volò addosso. Per fortuna, come poté constatare anche la ragazza in prima persona, era così sodo da non aver incassato il colpo.
In effetti Parker non si era spostato di un millimetro, il suo corpo era allenato per ricevere stimoli maggiori, però quel contatto così ravvicinato non gli aveva fatto altro che piacere.
La ragazza aveva un viso pieno, e il resto del corpo rifletteva questa sua caratteristica. Inoltre, per essere una donna, era abbastanza alta.
«Devin» disse lei una volta recuperato l’equilibrio mentre tornava in possesso della propria mano.
Parker si incamminò lungo il marciapiede sul quale erano rimasti seduti, una passeggiata tranquilla nella zona residenziale di quel quartiere di Los Angeles non li avrebbe certo uccisi. Anzi, era convinto che se John avesse saputo cosa una semplice curiosità l’aveva spinto a fare sarebbe stato fiero di lui e di quella sua piccola trasgressione.
«Ma voi buoni samaritani andate in giro tutti con il cappellino di notte, oppure sei una di quelle persone strane che popolano gli Stati uniti?»
Prima di rispondere Parker si guardò in giro, quasi si sentisse osservato. Come se le piante lì attorno potessero mettersi a spiarli.
«A dire la verità sono un samaritano strano americano. E non saprei dirti quale sia il più inquietante di questi due lati».
Sorrise nella speranza di essere risultato simpatico, ma Devin lo guardò con fare compassionevole. Decise di essere comunque risultato divertente, era ovvio che il problema fosse di lei, in quanto straniera  non avrebbe certo capito il suo spiccato senso dell’umorismo.
Avrebbe voluto mettere le mani in tasca, ma la bottiglia glielo impedì, così tornò indietro – vicino alla propria auto – e mise la bottiglia nel cestino della spazzatura lì accanto, beccandosi un’occhiata torva della proprietaria della vodka.
«Non ti servirà. E non te ne pentirai, lo prometto».
Devin non sembrava convinta e aveva continuato a fissarlo in cagnesco, ma non si era permessa di obiettare. Parker lo prese come un buon segno, un primo step verso una pace silenziosa verso il quale stavano andando a ogni passo.
«Hai un viso famigliare» disse la ragazza con fare forse troppo scontroso.
No ok, quella conversazione sarebbe stata tutto, tranne che divertente. Ora ne aveva le prove.
«Ti ricorderò qualche modello stampato sulle borse di Abercrombie. Sai, mi capita spesso che mi scambino per uno di loro. Voglio dire, guarda il mio profilo».
Si mise in posa per farla ridere, e ci riuscì. Ok, doveva ammetterlo: era stato scorretto, ma in fondo non aveva mentito, aveva omesso soltanto parte della questione. Devin non gli aveva chiesto perché era un viso che aveva già visto o se, per caso, fosse stato un attore di Hollywood, a quelle domande non avrebbe potuto non rispondere o, peggio, mentire; ma sapere di non essere stato riconosciuto gli aveva fatto piacere, apprezzava che lei avesse accettato la sua compagnia solo per il puro bisogno di sfogarsi con qualcuno, o magari perché l’aveva trovato interessante.
Era lontano dall’essere Parker Payne, l’attore famoso in ogni via degli Stati Uniti, sapeva che all’estero non riscuoteva questo immenso successo, e per una volta voleva sfruttare la situazione a proprio favore.
«E così ti chiami Devin. È un bel nome» disse per spezzare il silenzio che era calato tra loro. Avevano iniziato a camminare lungo il marciapiede silenzioso e buio mentre guardavano le abitazioni accanto a loro: case indipendenti a due piani con il giardino che terminava sul lastricato che stavano percorrendo, erano le anticipazioni  delle ville appartenenti ai veri ricchi che sarebbero iniziate a vedersi di lì a qualche chilometro.
«Talmente bello che alle elementari mi chiamavano Devil» rispose la ragazza con un tono schifato.
«Come Crudelia. I bambini sanno essere spietati quando vogliono. Beh, vedila così: non ti hanno dimenticata». Un paragone forse infelice, ma tornare a cartoni animati e film – il suo mondo – per  lui era un richiamo troppo forte per non cedervi.
Inoltre era saggio tacere che il suo soprannome, alle medie, era Iron Man. E non di certo perché aveva il fisico talmente allenato da sembrare acciaio, era merito dell’apparecchio che sfoggiava a ogni sorriso. Sempre meglio di ‘ferraglia’, il nomignolo con cui chiamavano Jack Fletcher, il caso umano della classe di letteratura americana. Lui sì che era davvero un perdente. Certe cose era meglio che restassero private, dato che non sarebbe stato carino divulgare determinate informazioni imbarazzanti riguardo un attore che doveva avere la parvenza di un sex symbol.
«Credimi, io però vorrei scordarmi di loro». Finse un brivido al solo ricordo.
Almeno si stava aprendo, Parker era riuscito a catturare la sua attenzione.
«Il nome, i capelli rossi – no ok, quasi arancio – e le lentiggini… Mi fanno presupporre che tu sia inglese. Sbaglio?»
Continuare a muoversi su argomenti neutri forse avrebbe prodotto i suoi frutti. Voleva distrarla dal suo essere così triste, ma desiderava conoscerla. Era un balsamo per la sua anima essere trattata come uno qualsiasi, e quella ragazza era interessante, oltre che carina. La serata era decisamente migliore di come l’aveva preventivata in spiaggia. Sì, superava le sue solite aspettative, meglio del film e della pizza che lo aspettavano.
«Hai dimenticato la carnagione che tende alla trasparenza. Cmq sì, sono scozzese». Abbassò il cappuccio e, mentre infilava le mani nelle tasche della felpa, scosse i capelli per ravvivarli.
«E cosa ti porta a Los Angeles?»
Era davvero un ragazzo curioso, non poteva farci nulla. Non sarebbe certo cambiato a ventisei anni, doveva solo accettare quello che era e cercare di migliorare. Era fiero di sé in quell’istante: prima di porre la domanda che più gli premeva aveva intavolato una specie di rapporto con la sua interlocutrice, non potevano dargli del semplice impiccione come una volta.
Lo sentiva, era sulla strada giusta.
«Il passato».
Silenzio.
Aria cupa. Occhio lucido.
Bam! Tra di loro si era schiantato un silenzio degno di un film horror, forse quello non era l’argomento adatto da affrontare, maledizione.
«Sei nata qui?» tentò di rimediare.
Devin sospirò. «No, il passato mi ha spinta qui. Hai presente la storia di prima del voler dimenticare i compagni delle elementari? Ecco, diciamo che sono in buona compagnia sulla mia lista delle persone che vorrei prendere a calci negli stinchi».
Lo sapeva, era cosciente che prima o poi avrebbero toccato un simile tasto e che lei avrebbe ceduto davanti a due occhi chiari così belli e sinceri. La verità era che aveva bisogno di sfogarsi ed era terribilmente vulnerabile. Un ragazzo bello e cordiale non si trovava in giro tutti i giorni, inoltre da quando era arrivata a Los Angeles non si era confidata con nessuno perché, oltre ai propri colleghi, non conosceva anima viva.
Si rese conto che la sua vita doveva sembrare più triste di quanto fosse in realtà.
«Su, non fare la vaga. Confidati, non mordo né tantomeno giudico».
Era così persa nei propri pensieri da non essersi resa conto di non aver più parlato, lasciando Parker ad attendere una risposta per lei difficile da fornire.
«Ehi, ma non eri tu quello che doveva parlare? Io avevo espresso la mia intenzione di non voler aprire bocca». Un po’ scontrosa forse, ma era il suo ultimo tentativo di difesa, il modo di non vedere crollare i propri muri costruiti con tanta fatica, dietro il quale aveva cercato di reprimere lacrime, bocconi amari e dolore.
«Ma sei tu quella che ha bisogno di sfogarsi, non sono io la persona con una storia da raccontare»
«Cosa ti dice che sia così?» alzò un sopracciglio, una maschera dietro cui celarsi.
«Occhi gonfi e rossi, una bottiglia di vodka liscia… Non sai nasconderti bene».
Devin sospirò e abbassò la testa.
In effetti non era il ritratto della felicità, e non faceva nulla per nasconderlo.
Aveva deciso: avrebbe spiattellato la propria storia e avrebbe visto Parker scappare a gambe levate prima della fine del suo racconto. Di solito i ragazzi non amavano avere a che fare con ragazze complessate che si piangevano addosso. Meglio così, si disse, non le sarebbe piaciuto affezionarsi all’idea di un nuovo amico per poi vederlo scomparire poco dopo, era meglio far cadere subito le illusioni di quella strana confidenza nata tra loro.
«Ok, va bene, facciamola finita. A Glasgow la mia vita era piena. Un lavoro, un ragazzo, una casa; non potevo desiderare di meglio. Ok, lavoravo come segretaria, niente di fantasmagorico, ma mi piaceva la mia vita. Un giorno Oliver mi ha chiesto di andare a convivere e, logicamente, ho accettato. Un mese fa avevamo comprato casa, stavamo per firmare il contratto, invece quando ci siamo visti per sistemare i dettagli mi ha lasciata. Sentiva la mancanza della sua ex – di cinque fottuti anni prima – e diceva che non era quello che voleva per sé».
Aveva condensato gli avvenimenti principali in una lunga, unica frase nella speranza che il tutto suonasse meno patetico di quanto fosse in verità. Magari aveva parlato così velocemente da non permettergli di apprendere tutti i fatti, o così sperava.
«Ho pensato fosse la paura per un gesto così importante, ma in realtà lui era deciso, sicuro di non amarmi più. Così ho prenotato un volo il più lontano possibile. Ed eccomi qui». Sospirò più tranquilla, tanto ormai il danno era stato fatto. «La vuoi sapere la cosa divertente?»
Perché, perché aveva aggiunto la parte finale? Perché era diventata un fiume in piena che non accennava a frenare il proprio flusso? Dio, che imbarazzo.
«Avanti, spara». Parker la guardava senza pietà, non la stava giudicando con una semplice occhiata. Si sentiva meno sfigata del solito.
«Quando Oliver ha saputo che sarei partita io pensavo mi avrebbe fermata, invece mi ha inviato un sms con scritto solo “Buona fortuna, ti meriti di essere felice come lo sono io ora”».
Mh, doveva rettificare. Dopo quella confessione si sentiva la solita perdente di quei giorni.
Però almeno aveva raccontato la storia a qualcuno di estraneo, togliendosi un peso dal petto che non pensava nemmeno di avere.
Ora Parker era libero di prenderla per il culo a vita e mostrare tutto il suo compatimento, cosa che Devin odiava.
«Beh, la storia non è delle migliori, ma hai avuto il coraggio di cambiare, ora hai l’opportunità di ricominciare dall’inizio ed essere te stessa. Una nuova te stessa, magari quella che hai sempre sognato di essere».
Non era bravo con le parole, ma di sicuro non sarebbe caduto in convenevoli scontati come il classico “Ci vorrà del tempo” o “Posso capire/comprendere/immaginare/’sticazzi/la tua vita è solo una terribile bugia/Luke, io sono tuo padre”. Odiava le frasi fatte, né tantomeno era qualcuno per poter giudicare il passato. No, lui era una persona proiettata sul futuro e sulle opportunità da cogliere, quindi non si sarebbe dilungato sulla triste vicenda, quanto più su ciò che da essa si poteva ricavare, soprattutto riguardo i lati positivi.
«Non è così facile. Pensavo che trasferirmi lo fosse. Invece ho un lavoro precario, sento la mancanza della mia famiglia, dei miei amici e vivo con la paura di essere una totale fallita e di non farcela».
Dov’era la vodka? Avrebbe preferito vomitare quella rispetto alle proprie paure, riversate – per giunta – su un totale sconosciuto. E se dopo lui, sapendo che era lì da sola, l’avesse uccisa?
«Ti manca Oliver?»
Ecco, se le avessero chiesto quale domanda si sarebbe aspettata dopo, quella non rientrava affatto nelle prime duecento. Elevate alla enne. Tanto per dire, eh.
«Vorrei poter dire di no, che non merita un mio pensiero perché è un senza palle di prima categoria, ma purtroppo non è così, ci vorrà del tempo».
Quello sconosciuto solleticava il suo lato sincero senza filtri, peggio di una foto in Instagram, e non andava bene. Si sentiva come Cenerentola con gli amici topolini: compresa. Allora il mondo non era popolato da persone stronze come le sorellastre della principessa. E di Oliver.
Fiducia nell’umanità: ritrovata.
«Da quanto sei qui?»
«Tre settimane».
Silenzio.
Parker doveva ammettere che in effetti non c’era molto altro da dire, così decise di aggiungere una considerazione personale.
«Allora vedrai che tutto si sistema, è solo questione di abituarsi un attimo. Giuro che Los Angeles non è male, sa dare molto se la si tratta con gentilezza e tempra».
Capiva come potesse sentirsi, lui veniva dalla Georgia. Certo, non proprio dall’altra parte del mondo, ma comunque la costa opposta rispetto a dove viveva ora. Là aveva tutto: i migliori amici, la famiglia, le sue origini. Nonostante abitasse a Los Angeles da quasi dieci anni sentiva sempre la mancanza della sua vecchia vita, quindi immaginava quanto potesse essere dura per lei.
«Tu hai fatto così?» Devin cercava solo speranza, un appiglio in cui credere, un qualcosa che le facesse capire che poteva farcela pure lei.
«Sì, e ha funzionato».
Si girò di spalle e fissò le luci notturne di quella città. Se di giorno non era un granché, dal tramonto in poi acquistava tutto il fascino che col chiaro mancava. Era una città arida, ma era piena di natura e, rispetto a metropoli come New York, era estesa e ariosa. La cosa che aveva scoperto era che regalava panorami mozzafiato che in quelle sere le avevano impedito di pentirsi della decisione presa.
«Sentimi, buon samaritano, spero tu abbia ragione, perché se scopro che questa città fa più schifo di quanto tu mi abbia detto, ti assicuro che non mi importa per quanto dovrò cercarti, ti troverò e ti prenderò a calci nel culo, anche se sei più alto di me di venti centimetri».
Era una ragazza scozzese dopotutto, il suo bon ton era tutto birra, modi rudi e uomini con il gonnellino, non si poteva pretendere che parlasse come una principessa dispersa in una foresta di fate e unicorni. Lei non viveva a Narnia.
Fatto sta che sperava di incutere un po’ di terrore, invece Parker rise di gusto, tanto che dovette interrompere la camminata verso il drugstore per reggersi la pancia e asciugarsi gli occhi.
Stare lontana dalla Scozia le faceva male, perdeva tutto il suo fascino pericoloso. Non faceva più paura nemmeno a uno sbarbatello americano che, con ogni possibilità, considerava come sommo atto virile pettinarsi il ciuffo con la cera.
«Stai meglio?»
Le chiese dopo essersi ripreso.
«Non pensavo… Ma sì, grazie». Lo ammise sollevata, in fondo dedicarsi a quella specie di seduta di psicoterapia era stato meglio che ubriacarsi da sola con la vodka. Parker, nonostante l’aspetto innocente da studente canterino di High School Musical, si era rivelato un ragazzo interessante, oltre che molto comprensivo.
«Ora sarà meglio che vada, domani inizio a lavorare a mezzogiorno». Voleva solo dormire, piangere e svegliarsi con un aspetto orrendo per poi maledirsi e dover rimediare infine con il trucco.
«Cosa fai?» era curioso, nemmeno a dirsi.
«Lavoro in una caffetteria». Rimase sul vago, vergognandosi un po’. Non sapeva cosa facesse Parker, ma aveva un aspetto fresco e curato, non sembrava di certo uno di quelli che si svegliavano la mattina all’alba per andare a trastullarsi con sacchi di cemento.
«Dove?» e perché era così invadente?
«A West Hollywood, da Alfred Coffee». Per fortuna aveva trovato un ambiente di lavoro che, seppur umile, le era molto gradito. Un posto davvero gradevole e dei colleghi poco suscettibili, al momento non poteva chiedere di meglio.
«Lo conosco! Mi piace un sacco. È da una vita che non ci vado». Parker sembrava pensare a qualcosa in quel momento, un qualcosa che non era sicura di voler conoscere.
«Ora è anche meglio». L’aveva accennato con un sorriso quasi compiaciuto.
«Perché?»
«Perché ci lavoro io! Vuoi mettere il fascino di una scozzese incazzata con il mondo?» e ridacchiò divertita, per la prima volta dopo tempo era riuscita a far ridere se stessa, di nuovo. «Sono l’attrazione del locale!»
Parker rise, quella battuta l’aveva spiazzato così come la sua improvvisa voglia di scherzare. Sapeva che non si limitava solo a essere scontrosa e triste, un qualcosa gliel’aveva detto, anche se non capiva cosa. Forse la sua predisposizione al dialogo con uno sconosciuto, o forse il suo sorriso che triste non era davvero.
«Senti, Ribelle» intervenne di nuovo lui – con un riferimento al film Disney per via del colore di capelli e della sua provenienza – dato che lo stava liquidando. Doveva ammettere almeno a se stesso che gli dispiaceva porre fine a quella serata. «Dove abiti?»
«A un po’ di isolati da qui» bisbigliò con tono quasi impercettibile, presa in contropiede.
«A un paio di isolati?» chiese Parker incerto, non aveva ancora sviluppato il superudito come Spiderman e Superman.
«A dire il vero a una decina» rispose la ragazza spostando parte dei propri capelli fulvi dietro l’orecchio, ormai rossa in viso.
«Vieni Merida» la prese in giro di nuovo. «Ti do un passaggio».
Con un cenno del capo indicò il proprio fuoristrada.
«Davvero?»
Era indecisa, aveva davvero bisogno di un passaggio, ma non voleva pesare su di lui, non dopo averlo fatto tutta la sera.
«Certo, non è un problema, le auto vanno dove vogliamo noi. Lo sapevi?! Sono i miracoli dell’era moderna». E ammiccò quasi volesse sottolineare quella magia.
Arrivò accanto alla portiera e dopo averla aperta si girò a guardarla. «Allora?»
Devin si morse un labbro, forse a lui non dispiaceva portarla a casa, almeno quanto non dispiaceva a lei trascorrere altro tempo in sua compagnia.
«Ok, buon samaritano, ho deciso farti svolgere il tuo compito al meglio». Si avviò verso il posto del passeggero con il cappuccio calato in testa, si sentiva osservata.
Parker ridacchiò contento.
«Grazie».
 

 
Bonsoir!
Rispunto dall’oltretomba con questa mini long che, quasi un anno fa, era nata come One Shot; peccato che i personaggi mi siano piaciuti molto e, nel portare avanti la storia, mi sono resa conto che sarebbe stata una OS lunga centordici pagine, quindi ho deciso di approfondire le scene che mi erano venute in mente e farne una mini long di quattro capitoli, di cui tre già scritti.
Quindi l’aggiornamento sarà settimanale, ogni giovedì mi ritroverete qui a rompervi per il mese di luglio con questa storia estiva e fresca, almeno spero.
Intanto io continuo a portare avanti il capitolo della long Ti ruberò il cuore. Non l’ho né abbandonata né dimenticata, lo giuro. Ho semplicemente in testa grandi progetti per quella storia, quindi metterci mano mi crea un po’ d’ansia a causa delle molte aspettative che ho, anche se la amo davvero.
Ma torniamo a noi: come vedete, siccome siamo a Los Angeles e abbiamo a che fare con un attore famoso, ho deciso che il titolo di ogni capitolo si riferirà a una commedia romantica americana… D’altronde non siamo nella sezione romantica? Vediamo di renderla degna di tale nome!
Inoltre, come spero abbiate potuto notare, nel testo ci sono un sacco di riferimenti a film, telefilm e cartoni, questo perché ho pensato potesse essere carina come cosa richiamare il mondo da cui Parker viene.
Alfred coffee esiste davvero.
Non mi dilungo oltre, ho un sacco di cose da leggere e – soprattutto – scrivere, quindi vi saluto.
Spero che vi sia piaciuta e se vorrete farmi sapere il vostro parere sarò felice di leggerlo.
Vi ricordo il link al mio gruppo fb per comunicazioni, spoiler e quant’altro: Love Doses.
A settimana prossima, Cris.

EDIT 10/10/14: La storia si è classificata terza a Il contest dei cliché
   
 
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