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Autore: Evilcassy    04/07/2014    8 recensioni
Ma quando era piccolo c’era Bucky, che aveva fatto un occhio nero al figlio del ciabattino per lui. C’era Bucky che faceva lo strillone dei giornali e aveva la voce ed il fiato di un atleta olimpionico, e lo si poteva sentire da dietro le finestre chiuse in pieno inverno, figurarsi in estate.
“Se mi reggi questo pacco dividiamo la paga” gli diceva ad ogni alba, quando il furgoncino sconquassato del Times buttava i giornali impacchettati con lo spago ai loro piedi e loro dovevano venderli tutti prima di andare a scuola, a parte le sei copie per gli insegnanti che non compravano il Times da nessuno tranne che da Bucky.
[Happy Birthday Steve Rogers!]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spett

4th of July,

Trinity Park.

 

 

 

 

And the boys from the casino dance with their shirts open
like Latin lovers on the shore Chasin' all them silly New York virgins by the score.

 

 

Brooklyn Downtown, NYC, 4 Luglio 2014.

 

Brooklyn è la trama intricata di una tela disfatta e ritessuta più volte.

Dove c’era una bocca di porto frequentata da prostituite c’è un parco con la vista sul Ponte dove le coppiette si immortalano nei selfie degli smartphone.

Il quartiere operaio è diventato un centro direzionale che compete con Lower Manhattan, dalla via principale non si diramano più viuzze strette solcate da file di panni stesi e non ci sono più ragazzi che chiamano le proprie fidanzate lanciando sassolini contro i vetri delle finestre o casalinghe che si urlano ricette in italiano e non c’è più il tram che perde pezzi di carbone durante le curve, che quando era piccolo cercava sempre di raccoglierne qualche pezzo da usare nella stufa di casa, ma non era il solo a farlo e gli altri bambini erano più forti ed ugualmente affamati.

Ma quando era piccolo c’era Bucky, che aveva fatto un occhio nero al figlio del ciabattino per lui. C’era Bucky che faceva lo strillone dei giornali e aveva la voce ed il fiato di un atleta olimpionico, e lo si poteva sentire da dietro le finestre chiuse in pieno inverno, figurarsi in estate.

“Se mi reggi questo pacco dividiamo la paga” gli diceva ad ogni alba, quando il furgoncino sconquassato del Times buttava i giornali impacchettati con lo spago ai loro piedi e loro dovevano venderli tutti prima di andare a scuola, a parte le sei copie per gli insegnanti che non compravano il Times da nessuno tranne che da Bucky. Ci metteva poco, pochissimo, così poco tempo che Steve riusciva a reggere il pacco senza stramazzare a terra in preda ad un attacco d’asma.

C’era Bucky che ogni dannato Quattro Luglio, davanti alle girandole scoppiettanti delle bancarelle, sosteneva che “Il Presidente dovrebbe pagare tutti quelli che sono nati oggi. Dannazione, sei più americano di Washington!” e che con il terzo stipendio della fabbrica l’aveva trascinato a Coney Island per il suo compleanno.

Buck, non è necessario che offri tu. Andiamo, un  lavoro ce l’ho anch’io!”

“Lo chiami lavoro quello di disegnare cartoline satiriche per la tipografia? Con quello che ti pagano…

“Di questi tempi è già qualcosa, no?”

“No.” Bucky aveva sorriso e scostato il ciuffo ribelle dalla fronte con un colpo di testa: “Tu meriti di meglio. Noi meritiamo di meglio.”

Steve era inciampato in una pecca del marciapiede ed era quasi finito per terra. Aveva ripreso equilibrio e contegno fingendo indifferenza ed allungato la gamba per tenere il passo del suo amico: “E cosa meritiamo?” Quasi era andato a sbattere contro la sua schiena quando si era fermato improvvisamente a guardare un manifesto appeso ad una staccionata; lo Zio Sam puntava il dito esattamente al centro del petto rachitico di Steve.

“Meritiamo di essere eroi.” Bucky gli aveva passato il braccio attorno alle spalle: “Voglio arruolarmi.”

“Anch’io!”

L’aveva guardato con un sorriso: il ragazzone dalle braccia tornite che alzava casse e pesi quasi senza sforzo e il suo rachitico amico perennemente malaticcio. Ma come ogni volta, come in ogni sfida che insisteva per intraprendere, Bucky non aveva neppure provato a smorzare la sua volontà: “Perché no? L’America ha bisogno della sua gioventù migliore, no?” e poi l’aveva trascinato via dal manifesto, tra la folla colorata di Coney Island, a prendere una di quelle mele candite che Steve mangiava malvolentieri perché gli spaccavano la mascella – e metti pure anche un dente, che forse era l’unica cosa che aveva di sano.

Hey ragazze!” Due amiche si erano voltate subito, le labbra rosse per la mela che addentavano ed i capelli mossi dalla brezza dell’Oceano: “Che ne dite di far ballare il mio amico? È il suo compleanno!””

Avevano entrambe riso senza staccare gli occhi da Bucky, poi la più carina aveva piegato la testa e pigolato un “Ed il tuo, di compleanno, quand’è?”

Ormai ci aveva fatto il callo, Steve. In fondo era il prezzo da pagare per andarsene sempre a zonzo in compagnia di uno come Bucky: tra il perdere lui per cercare di mettersi in mostra con le ragazze corteggiandole con i suoi disegni e rimanere nell’ombra sì, ma di quella del suo migliore amico beh, preferiva la seconda.

 

Ma quella era una vita prima. Una vita in cui un siero non l’aveva ancora trasformato in un uomo nuovo ed in cui una guerra non gli aveva ancora strappato quanto di bello c’era per l’uomo vecchio.

 

Coney Island è un’attrazione per turisti stranieri e Brooklyn è caotica e distaccata quanto Manhattan. Ci sono edicole con tante riviste e barboni per strada che vendono cartoline del Ponte disegnate a carboncino. E l’aria malsana di Downtown è meno irrespirabile, e le strade si aprono su squarci di verde curato e panchine di legno.

Al posto della fabbrica di colla dove lavorava il padre di BuckyBuck Senior, si faceva chiamare, l’uomo che finiva una sigaretta in un solo tiro – c’è Trinity Park, dove la gente fa jogging alla mattina – tante, tantissime ragazze in pantaloni attillati che incrociano il suo sguardo e rallentano l’andatura per permettergli un saluto che lui non porge mai – e gli anziani siedono sulle panchine e si lamentano dei prezzi sempre più cari, e dogsitter che portano a spasso una decina di cani per volta, esibendosi in complicate contorsioni per chinarsi a terra e raccoglierne gli escrementi senza lasciare i guinzagli.

Il proprietario della fabbrica di colla aveva una miriade di cani da caccia e spesso li faceva portare fuori da Bucky: “Se porti tu questi due più piccoli ti do parte della paga.” Ma poi non si fermavano a raccogliere quello che lasciavano, a parte quando Bucky voleva fare uno scherzo al macellaio del quartiere che alzava troppo i prezzi e faceva cagare l’alano dentro ad un sacchetto di carta e lo abbandonava incendiato davanti alla sua porta di casa, dopo aver suonato il campanello e corso a nascondersi.

È tutto diverso e tutto uguale, in certi casi.

Il cielo bigio il Quattro Luglio era una rarità anche settant’anni prima.

 

Il parco è quasi deserto, il tempo instabile non deve aver intaccato la tradizione del barbecue – c’è profumo di carne alla griglia nell’aria, forse qualcuno lo sta facendo proprio lì vicino – ed è ora di pranzo, lo stomaco di Steve si fa sentire ed in genere è la sua fame compete con quella di Thor quindi non è esattamente saggio digiunare.

Ritorna sui suoi passi e pensa che prenderà la metropolitana e tornerà alla Tower, dove Pepper avrà sicuramente organizzato qualcosa – l’ha vista confabulare con Natasha – e Tony si esibirà in una qualche pedante sceneggiata prendendolo in giro in cinquanta modi diversi e Bruce si barricherà nella sua stanza insonorizzata quando Clint darà il via al suo personale spettacolo pirotecnico – si spera fuori dalla finestra e non sul divano come a Capodanno.

È tutto diverso e non per forza più brutto.

Solo diverso. C’è qualcosa in più e qualcosa in meno.

E ci sono giorni in la mancanza di quel qualcosa  - no, di quel qualcuno – si fa sentire con una prepotenza insopportabile.

Ogni Quattro Luglio.

Questo in particolare.

 

Due paia di scarpe da corsa femminili si avvicinano e rallentano, Steve alza lo sguardo da terra ed incontra gli occhi invitanti di due ragazze. Sorridono, si guardano, ed ognuno prosegue per la sua strada.

 

In fondo al vialetto resta solo un uomo con addosso una giacca di jeans impolverata ed un berretto da baseball sdrucito. Sembra quasi un barbone, Steve non lo può vedere in faccia perché è voltato di spalle, ma pensa che se gli chiederà uno spicciolo non glielo negherà – e chissenefrega se lo spenderà in alcool, beato lui che può ubriacarsi – ma che se non dirà nulla passerà oltre e prenderà la metropolitana.

 

“Tu.”

La voce del barbone è un sussurro roco ed impastato, come se non fosse più abituato ad usarla. Steve si volta ed incontra i suoi occhi tra le ciocche castane dei suoi capelli sporchi.

“Tu.”

Ne riconosce il colore, le pieghe della fronte corrugata, la forma delle labbra arricciate tra la barba incolta.

“Tu.” Ripete per la terza volta l’uomo. Che del barbone ha solo l’aspetto, ma per Steve ha un nome che è più caro del suo.

Ma non riesce ad aggiungere nulla: la voce a lui è scomparsa del tutto, risucchiata dal battito che il suo cuore ha mancato. Boccheggia e pensa irrazionalmente che il vecchio Bucky gli avrebbe detto di smetterla di fare quella figura da pesce tonto. Il nuovo, invece, gli punta addosso i suoi occhi vuoti.

Bucky” riesce infine a sussurrare Steve. L’altro indietreggia quando fa un passo avanti. Si ferma, alza le mani per fargli vedere che è disarmato, che non ha intenzioni ostili. “Sei James Buchanan BarnesBucky per tutti quanti.”

“Lo so.” Dice semplicemente, impastando le sillabe e mordendosi le labbra.

“Lo ricordi?”

Scuote la testa: “Lo so.”

“E ti ricordi chi sono io?”

Bucky distoglie lo sguardo, ruota gli occhi attorno e poi li riposa su di lui: “La mia missione? No.” Si umetta le labbra ed  aggrotta il viso per lo sforzo: “Sei Captain America. Steve Rogers.”

Steve annuisce velocemente: “Allora ti ricordi.”

“No, lo so solo e basta.”

“Come stai?” Che domanda stupida: ha davanti un uomo pallido ed emaciato, con vestiti laceri e sporchi e negli occhi il nulla assoluto. Si sforza di fare appello alla sua razionalità, di aggrapparsi a qualcosa che anche Bucky possa ricordare, che possa accendere qualcosa nella sua mente.

“Hai fame, zuccone?” Glielo chiedeva ogni volta che varcava la soglia di casa sua, praticamente ogni giorno: “Ma’, c’è ancora quel pasticcio di patate?” E la Signora Barnes glielo metteva nel piatto con un bel pezzo di formaggio, senza attendere una sua reale risposta.

“Hai fame, Bucky?” Dall’altro lato dell’area bimbi c’è un chiosco ancora aperto. Steve glielo indica con lo sguardo ma Bucky scuote appena la testa: “Vado a prenderti un boccone, che ne dici?”

Bucky resta a fissarlo, immobile. Quando Steve si allontana appena lo vede sedersi su una panchina, fissare il vuoto oltre gli alberi ed il parco giochi, il cielo bigio che diventa ancora più scuro e la pioggia che incombe.

L’uomo del chiosco ha la radio accesa e giusto un paio di hot dog a cuocere: “Con questo tempo non c’è nessuno in giro” precisa il palese tagliando il pane: “Mostarda o Ketchup?”

Steve non ne ha idea: “Uno con mostarda e uno con ketchup. E una Coca-Cola.” Pensa alla voce impastata di Bucky e alle sue labbra secche e tagliate: “Due. Grandi.” Attende che gli hot dog si scaldino saltellando su un piede solo, gettando occhiate dietro si è in direzione di Bucky, a controllare che sia ancora sulla panchina – sì, lo è, e non sembra aver mosso un muscolo – e a cercare di raccogliere le idee per un discorso.

Parlargli di cosa c’era prima, della fabbrica di colla. Dei cani del padrone – quanti erano? Nove, dieci? – e di che giorno è oggi.

Perché non può essere un caso che Bucky si trovi in quel posto in quel giorno.

Gli dirò che oggi faccio novantasei anni e che se voleva farmi una sorpresa beh, c’è riuscito. Come sempre.

C’è ancora il suo amico, dietro quegli occhi vuoti. C’è una piccola parte che l’Hydra non è riuscita a massacrare e che sa che quello è il giorno del suo compleanno e che lì c’era la fabbrica dove lavorava Buck Senior – e magari si ricorda ancora di come finiva le sigarette con un tiro solo e che quando ha provato a farlo lui per poco non ci resta secco.

E se non ricorda abbastanza lo trascinerà a Coney Island e gli farà fare il Cyclone, e riderà quando lui vomiterà l’anima come ha fatto con lui una vita fa.

Steve allunga i cinque dollari, prende il portabicchieri con le CocaCole ed il sacchetto con gli hot dog e si volta.

La panchina è vuota.

Il parco è vuoto.

L’uomo del chiosco ha voltato le spalle e sta spegnendo tutto, pronto ad andarsene a casa prima che la tempesta paventata dalla radiolina accesa arrivi davvero.

 

Si guarda attorno. Percorre il parco, chiama Bucky per nome, per soprannome e per cognome. La sua ricerca diventa frenetica ed inutile. Si da dello stupido per non averlo tenuto vicino e per non averlo toccato – a costo di farsi fratturare il cranio avrebbe dovuto tenerlo stretto – per averlo lasciato andare.

La nuvola scura arriva sopra la sua testa e la pioggia inizia a cadere.

 

 

Hey Rogers, pensavi che ti tenessimo a stecchetto?” Che Tony lo apostrofi è prevedibile. Che lui non risponda sbuffando lo è meno, appoggia l’involucro degli HotDog di cui non è riuscito a disfarsene perché continuava a sperare che Bucky sarebbe ricomparso improvvisamente e sorseggia una CocaCola sedendosi sul divano vicino alla vetrata che domina Manhattan “Avevo voglia di uno spuntino.” Mormora come scusa.“Un aperitivo, non si chiama così?”

“Sì, già. Il classico aperitivo del Quattro Luglio a base di hotdog e CocaCola, quale americano potrebbe rinunciarci!”

“Tony, nessuno ti ha insegnato che non si deve sfottere la gente il giorno del loro compleanno?” Natasha entra , ruba l’altra CocaCola e guarda Steve con un’intensità tale che lui si sente completamente nudo davanti ai suoi occhi chiari. “Clint ha detto che la carne è quasi cotta e Pepper ha chiesto il tuo aiuto per apparecchiare, Tony.”

“Non può andarci Bruce?”

Pepper ha chiesto di te. Hai dieci secondi.”

Tony sbuffa per la mancanza di democrazia in un giorno come quello e lascia perdere il telecomando a cui stava facendo una chissà quale modifica. Natasha si siede di fianco a Steve.

Non aggiunge altro.

Steve gliene è grato.

 

 

 

Partorita OGGI, all’improvviso.

Nessuna pretesa, solo quella di celebrare il compleanno del Cap a modo mio e il dare forma al plotting compulsivo di quel gruppo di disperate di cui faccio parte in questo Fandom.

Il titolo è tratto dalla canzone 4th July, Asbury Park (Sandy) di Bruce Springsteen (Di cui la citazione iniziale è un verso della prima strofa) e su NYC è prevista tempesta, oggi, e Trinity Park esiste davvero, ed essendo Downtown l’ex zona industriale di Brooklyn, è più che plausibile che settant’anni fa ci sorgesse una fabbrica. Di colla, chissà!

Come sempre, nel caso abbiate qualche domanda vi rimando al mio ask e per tutto il resto c’è  MasterStark.

Ecco tutto.

Happy Freedom Day!

Alla prossima, se vorrete,

EC.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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