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Autore: Guitarist_Inside    04/07/2014    2 recensioni
Questa storia è il seguito di "Run Away", che funge da prologo. Da esso:
Continuavo a correre, addentrandomi sempre più in quel labirinto di alberi. Ansimavo; il fiato cominciava seriamente a mancarmi, ma non potevo fermarmi, non potevo permettermi il lusso di arrestare quella mia folle corsa neanche per un momento. Ogni secondo era prezioso.
Non potevo fermarmi, o mi avrebbero raggiunto.
Non potevo fermarmi, se volevo mantenere almeno una fievole speranza di salvezza.

~ Dopo una folle e disperata corsa per sfuggire a un oscuro e misterioso Nemico che la insegue senza sosta, Sora si risveglia in una stanza alquanto strana, nel Castello del Regno di Komorebi.
Shinobu, principe del Regno, conosce un'antica Leggenda, che tuttavia presenta ancora parti misteriose.
Chi ha distrutto le Terre del Nord e il villaggio di Sora?
Chi è il Nemico che la insegue incessantemente?
E' legato alle Forze Oscure, di cui narra la Leggenda, che mirano a distruggere ogni Terra?
Come è possibile impedirne l'avanzata?
Chi è il Cavaliere di Smeraldo?
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Keys To Komorebi'
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Salve gente!
Quasi un anno fa avevo scritto un racconto originale e l’avevo pubblicato come One Shot, dicendo che però, forse, avrebbe avuto un seguito.
Ora, a distanza di una decina di mesi, mi è finalmente tornata l’ispirazione, che ha iniziato a “disturbarmi”, aggirandosi per la mia mente e tirandomi per le maniche (?) finché non ho deciso di darle retta e metterla per iscritto. Da questa ispirazione, come potrete facilmente intuire, nasce questa storia.
Non so con quale frequenza aggiornerò: tra impegni universitari, computer e internet, ispirazione che ogni tanto viene e ogni tanto no, vacanze e varie altre cose… spero comunque di riuscire a tenere tempi decenti! ^^" lol
Comunque, parte del secondo capitolo è già abbozzata, e ho idée per alter parti ancora, quindi almeno il fattore ispirazione, per ora, posso dirlo positivo… Good.
Prima di lasciarvi al capitolo, vorrei rubare un altro paio di righe per ringraziare di cuore chi ha letto il mio precedente racconto, che rappresenta il prologo di questa storia (dunque vi consiglio di leggerlo prima di essa) e chi ha recensito (mille grazie a Melinda Pressywig, prima a recensire, alla fedele Sadako Kurokawa!).
Ora vi lascio definitivamente alla storia, fatemi sapere le vostre opinion!
Ciao! :)




Keys to Komorebi




PROLOGO: Run Away


CAPITOLO 1 Awakening


Quando ripresi i sensi, attorno a me vi era un silenzio quasi assordante, che mi circondava assieme a una profonda oscurità, quel buio tipico del sonno senza sogni.
Ero sdraiata... Ma su cosa? Non avvertivo né la fredda e dura terra, né la polvere, né gli aghi e i rami del bosco, sotto di me.
Aprii gli occhi a fatica, cercando di mettere a fuoco le immagini intorno a me.
Dove mi trovavo?
Aguzzai la vista per cercare dei dettagli, in quella penombra, che potessero dare una risposta a quella domanda.
Sopra la mia testa si stagliava un cielo alquanto particolare: nuvole soffici con sfumature di vari colori sembravano risplendere, illuminate da una luce azzurrina, su uno sfondo indefinito che andava scurendosi ai lati. No, non era il cielo, quello era un soffitto affrescato!
Ma se quello era un soffitto, ciò significava che mi trovavo in un edificio.
Spalancai le palpebre, stupita. Come ci ero arrivata?
Feci per alzarmi, ma un dolore lancinante che pervase tutto il mio corpo me lo impedì. Ero ferita e ogni movimento mi arrecava sofferenza; avrei dovuto restare ferma per un po'.
Mi concentrai allora su ciò che i miei sensi percepivano, per cercare di fare un identikit del luogo.
Se quello sopra di me era un soffitto, presumibilmente mi trovavo in una stanza; ecco perché non vi era la dura terra sotto al mio corpo.
Attorno a me, però, vedevo solo mura, dipinte di varie tonalità di blu, turchese, celeste, azzurro, verde acqua, e un'infinità di sfumature che si intrecciavano tra loro, creando un gioco di luci e ombre che, a un primo impatto, non mi fecero capire la grandezza effettiva del luogo.
Inoltre, la scarsa luce che filtrava da una finestra, probabilmente posta alle mie spalle (dannazione, in questo modo non potevo guardar fuori per capire dove mi trovavo!), non aiutava a scorgere molto di quell'ambiente.
Oltre ai muri di fronte a me, però, non riuscivo a vedere nient'altro. Ero in una stanza vuota.
Una prigione?
No, non avrebbero dipinto in tal modo i muri di una cella.
E non sarei stata sdraiata su qualcosa di soffice, che, probabilmente, si trattava di un materasso.
Una stanza da letto, dunque.
Che diamine ci facevo in una stanza da letto?
Dove si trovava quel luogo?
Come e perché ci ero arrivata?

L'ultima cosa che ricordavo, era la mia fuga disperata da un bosco labirintico.
Ricordavo i rami che mi graffiavano arti e viso, ma non erano riusciti ad arrestare la mia corsa.
Ricordavo i tronchi caduti che dovevo prontamente saltare.
Ricordavo l'oscurità che si faceva sempre più fitta.
Ricordavo la foresta farsi sempre più insidiosa.
Ricordavo la forza della disperazione e l'istinto di sopravvivenza che mi permettevano di andare avanti nonostante la stanchezza crescente.
Ricordavo le gambe pesanti, il sapore del sangue, il respiro affannoso.
Ricordavo la tenacia dei miei inseguitori, i loro passi e i loro respiri minacciosi che guadagnavano terreno.
Ricordavo la speranza di poter vedere la luce, che mi faceva continuare a correre senza fermarmi né voltarmi indietro.
Ricordavo i miei passi sempre più alla cieca, in quel buio dedalo, mentre i loro parevano indirizzati coscientemente sulle mie tracce: non sapevo se ci vedessero al buio o se si basassero su udito e olfatto, ma in ogni caso mi ero accorta che quella foresta metteva in difficoltà soltanto me.
Avevo creduto di trovare salvezza, invece addentrandomi nell'ignota oscurità avevo dato soltanto vantaggio a loro.
Non sapevo neanche che cosa fossero, che faccia avessero, o cosa volessero da me.
Ma sentivo, in qualche modo, che erano ostili.
Sentivo che non erano tipi con cui scambiare due parole in pace.
Sentivo che erano collegati alla distruzione del mio villaggio natale, all'inizio della mia rovina, al principio del mio vagare scappando senza meta.
E sentivo che dovevo scappare il più lontano possibile da loro, se volevo salvarmi.
Pertanto, avevo continuato a correre, senza mai fermarmi.
Per quanto avevo continuato la mia folle fuga? Ore? Giorni? Quanti chilometri avevo percorso?
Non riuscivo a trovare risposte; avevo perso ogni riferimento spazio-temporale in quell'oscura selva.
E ora mi trovavo in quella stanza, senza sapere come e perché vi fossi arrivata.
Cercai di spremermi le meningi per far affiorare i ricordi successivi, che giungevano sempre più confusi, come flash sconnessi.
Corsa imperterrita.
Stanchezza crescente.
Vista appannata.
Respiro sempre più affannoso.
Cuore che batteva più veloce di un percussionista folle che colpiva incessantemente, con violenza e rapidità sempre maggiori, i propri tamburi.
Loro che si avvicinavano sempre più.
Le mie forze che venivano sempre meno.
Il suolo.
Oh cazzo, ero caduta.
Sopraffatta dalla stanchezza, esausta, la mia vista si era annebbiata completamente; i miei piedi avevano inciampato; il mio corpo era precipitato, urtando violentemente il terreno.
Non ero riuscita a rialzarmi.
Non ero riuscita neppure a riaprire gli occhi.
Ero svenuta.
Merda.
Mi avevano raggiunto?
Mi avevano fatta prigioniera?
Quella stanza apparteneva a loro?
Ero in serio pericolo?
Eppure, quel soffitto, quelle mura, quei dipinti, quei tenui raggi solari che filtravano dalla finestra dietro di me, quel materasso soffice... No, non mi davano l'impressione di essere in una cella. E non avevo neppure lacci che costringevano e imprigionavano il mio corpo.
L'ostilità che percepivo nell'aura che circondava i miei inseguitori mi faceva pensare che, se mi avessero raggiunto, mi avrebbero ucciso oppure buttata in una buia e squallida prigione.
Tuttavia, non mi pareva di essere né morta, né imprigionata.
Era tutta una finta? Volevano farmi credere di essere salva, per poi darmi il colpo di grazia una volta che avessi abbassato la guardia?
Non potevo rilassarmi così facilmente.
Certo, non mi sarei aspettata un gioco d'astuzia del gente, bensì qualcosa di brutale e immediato da parte loro, ma non potevo cadere in inganno così facilmente.
Dovevo rimanere vigile.

Sentii un rumore di passi. Passi che si facevano sempre più vicini: salivano una scala, poi erano nella stanza accanto... e continuavano ad avvicinarsi. Ad un tratto si fermarono, ma non feci in tempo a chiedermene il motivo, che sentii un leggero cigolio e una porta davanti a me si aprì.
Non l'avevo notata prima, poiché era abilmente camuffata nella parete grazie all'affresco e alla penombra che oscurava ulteriormente l'angolo in cui si trovava.
Spalancai gli occhi e trattenni il respiro, mentre il cuore accelerò i suoi battiti, non sapendo cosa fare e cosa aspettarmi.
L'uscio venne richiuso, e i passi si avvicinarono, piano, al mio letto.
Man mano che si avvicinava, la figura a cui appartenevano quei passi emerse dal buio.
Mi parve un ragazzo, ma i dettagli emersero pian piano, mentre, con estrema calma, si dirigeva verso di me. Aveva una corporatura abbastanza magra, ma non pareva debole.
Era abbastanza alto, ma non moltissimo: ad occhio e croce una spanna più di me.
Indossava degli anfibi neri che gli arrivavano alle caviglie. Sopra di essi, un paio di pantaloni scuri leggermente sgualciti, e una maglietta, anch'essa nera, né larga né stretta, che si intravvedeva sotto una giacca di pelle lasciata aperta.
Al collo aveva una medaglietta argentea, che risaltava, illuminata dai raggi che filtravano dalla finestra davanti a lui, sui vestiti scuri.
Alzai lo sguardo, cercando di incrociare il suo senza che se ne accorgesse, ma teneva il viso in modo tale che esso era ancora in ombra.
Riuscivo a vedere solo i suoi capelli, abbastanza corti e leggermente spettinati, di colore corvino.
Se non fosse stato per la medaglietta e per i lembi di pelle che si intravedevano, quella figura mi sarebbe parsa un'ombra.
Tuttavia, non percepivo un'aura crudele attorno a lui, come quella che precedeva i miei inseguitori. Chi diamine era?
Che intenzioni aveva?
Nel frattempo, lui era giunto ormai al mio letto e, senza alcun preavviso, si sedette su una sponda di esso, alla mia sinistra.
Solo allora, alzando lo sguardo, riuscii ad incontrare il suo.
Rimasi profondamente colpita dai suoi occhi, non appena essi si rispecchiarono nei miei: avevano una forma leggermente a mandorla, ma quello che mi colpì fu lo sguardo profondo e magnetico. Due iridi color verde smeraldo, che parevano quasi emettere luce propria, contrastando con l'oscurità dei capelli e dell'abbigliamento del padrone, entro le quali risaltavano sue pupille nerissime, mi stavano scrutando attentamente.
– Ti sei svegliata, finalmente. – mi disse, con tono pacato.
Da quanto tempo stavo dormendo, svenuta? Come ero arrivata lì? Chi era lui? Perché ero lì? Perché lui era lì? Mille domande si affollarono nella mia mente, sovrapponendosi le une alle altre.
– Ti ho trovato ai confini del Bosco delle Tenebre, ieri, mentre ero a cavallo. Eri svenuta. A dir la verità, sono stato richiamato dalla melodia della tua anima, che con un flebile urlo chiedeva aiuto disperatamente... Sei stata fortunata che mi trovassi da quelle parti, perché non passa molta gente di lì. Hai dormito un giorno intero; iniziavamo a preoccuparci, ma ora finalmente ti sei svegliata. – mi spiegò, senza bisogno che ponessi alcuna domanda – Non so cosa tu ci facessi in quel posto oscuro e senza speranza, ma la melodia che ho udito era pura, quindi ho deciso di fidarmi. Ho avvertito una presenza ostile che si avvicinava sempre più a te, non so esattamente a cosa appartenesse ma ho intuito che eri in serio pericolo... Chi ti inseguiva? –
– Io... Non lo so. – risposi, sincera – Ma ho avvertito la stessa forza distruttiva e crudele che ha distrutto e sterminato il mio villaggio, nelle lontane Terre del Nord... – dissi, con un velo di tristezza che permeava la mia voce.
I ricordi erano ancora vivi dentro di me, così come la rabbia, il dolore, la disperazione, la profonda solitudine che avevano causato. Il sangue poteva essere lavato via, ma le cicatrici non sarebbero mai sbiadite completamente e avrebbero marchiato per sempre la mia anima.
Quanto tempo era passato da quando ogni traccia del mio passato era stata ridotta in cenere? Da quando avevo perso tutto, e soprattutto tutti?
Quanto tempo era passato da quando mi ero miracolosamente salvata da quella completa distruzione ed ero fuggita da quella terra ormai desolata, sotto le cui macerie giaceva la mia storia in un cimitero senza pietre a segnare le tombe, lasciandomi alle spalle ogni cosa e persona che conoscevo?
Da quanto tempo stavo fuggendo?
Settimane, mesi, anni? Ormai avevo perso il conto; ogni giorno seguiva il precedente, ugualmente colmo di disperazione e pericoli in agguato. Non aveva più un senso contarli, per me.
C'erano momenti in cui mi chiedevo che senso avesse andare avanti così, continuare quella corsa senza fine e senza meta, da sola. Ormai non avevo più nulla e nessuno, avevo perso tutto, eppure un istinto di sopravvivenza continuava a farmi andare avanti. La speranza in un futuro migliore. La forza della disperazione. Il ricordo del mio passato, che mi spingeva a vivere per coloro che avevo perduto.
Non sapevo esattamente come, ma avevo resistito, non mi ero arresa. Avevo guardato il cielo, emblema del mio nome, sereno o cupo che fosse. Avevo respirato a fondo, e, con strenuo orgoglio e con determinazione, mi ero fasciata le ferite ed ero andata avanti fino ad allora.
Non avrei mai dimenticato nulla, ma non potevo arrendermi. Soccombere avrebbe significato darla vinta a loro, ai nostri distruttori, e non potevo permetterlo.
– Capisco... – disse, come se avesse effettivamente compreso qualcosa, che a me ancora sfuggiva, ma non poteva rivelare – E mi dispiace per quello che è successo nelle Terre del Nord. Sono molto lontane da qui, ma è giunta voce della tragedia che vi ha colpito. Non credevo ci fossero superstiti, onestamente, ma mi fa piacere constatare che tu lo sei, seppure mi rattrista immaginare cosa tu abbia passato. Ma non devi parlarne ora, se non ti va. –
Le mie labbra si incurvarono in un triste sorriso di ringraziamento.
Rimanemmo zitti per qualche manciata di secondi, imbarazzati.
– Posso... Porle una domanda? – chiesi, titubante, rompendo il silenzio e cambiando argomento.
– Certamente, parla pure. E dammi pure del tu, abbiamo pressappoco la stessa età. – sorrise.
– Ehm, okay, grazie... Ha... Hai parlato di melodia dell'anima... In che senso? –
– Non saprei come spiegarti, è un dono che ho sempre avuto. In determinate situazioni, riesco a sentire come delle voci, o meglio dei suoni, provenienti dall'anima di una persona. Io le chiamo melodie dell'anima. Però non è una cosa che mi capita spesso. A dir la verità mi è capitato solamente 2 volte: la prima quando ero ancora un bambino, e la seconda... Ieri, con te. Non ho ancora capito come e perché riesco a sentirle, non è un potere che posso controllare, ma da quel poco che ho capito mi succede quando c'è qualcuno in pericolo, come se l'anima lanciasse un ultimo grido d'aiuto... Purtroppo non so altro, spero come spiegazione ti possa bastare. –
Sorrisi.
Non mi pareva malvagio.
Certo, poteva essere tutta una finta, non dovevo abbassare la guardia, tuttavia... non sapevo spiegare come, ma, dalla sua voce e dal suo sguardo, sentivo che era sincero, che non mi stava ingannando.
– In ogni caso... Potrei sapere dove mi trovo? – chiesi poi, cercando risposta alla domanda che mi tormentava da quando mi ero risvegliata.
– Oh, certo. Scusami, non mi sono neppure presentato. – rise, con una voce cristallina che mi fece venire la pelle d'oca, seppure per un secondo – Sono il Principe del Regno Komorebi, nelle Terre dell'Est, e ti trovi nella stanza degli ospiti del Castello. In ogni caso, puoi chiamarmi semplicemente Shinobu, non mi piacciono molto le formalità. – mi porse la mano.
Lo fissai, stupita. Per essere un principe, sembrava uno che cammina coi piedi per terra e non che fluttua dieci metri sopra gli altri: pareva uno che non se la tirava, insomma, e tra i Reali era una cosa abbastanza rara.
Gli sorrisi di nuovo.
– Piacere di conoscerti e grazie per avermi salvato, io sono Sora. – risposi, stringendogli vigorosamente la mano, mostrando la determinazione che mi aveva dato la forza di continuare a vivere.
Rimanemmo qualche minuto così, fermi, sostenendo i reciproci sguardi.
Non era facile non perdermi in quell'oceano smeraldo, che sembrava risucchiarmi in un vortice. Un vortice che, stranamente, però, non mi incuteva terrore. Per la prima volta dopo anni, quella persona riusciva a farmi distendere i nervi per un momento e godermi quella sensazione di tranquillità che ormai avevo quasi dimenticato, in una vita di tensione e fuga continue: fuga dall’incerto, fuga dal dolore, fuga dalla morte, fuga dalla distruzione, fuga dal pericolo costante, fuga dagli scheletri del passato, fuga infine da quella dannata Foresta delle Tenebre e da quegli ignoti inseguitori.
Avevo imparato a cavarmela da sola e non fidarmi di nessuno, ma lui riusciva a farmi sentire a mio agio e ad abbassare le mie difese. E questo da una parte mi metteva paura, facendomi ritrarre in me stessa, mentre dall'altra mi trasmetteva un senso di pace. Non sapevo come comportarmi.
– Beh, Sora, io ora devo andare. – la sua voce pacata interruppe il flusso dei miei pensieri – Tra poco verrà il medico ad accertarsi delle tue condizioni e a trattare nuovamente le tue ferite, tu non muoverti e riposa ancora per un po', è appena l'alba e hai bisogno di recuperare le forze. Stai tranquilla, non permetterò che ti facciano del male, puoi fidarti di me. – fissò il suo sguardo nel mio, senza alcun cedimento, e il verde delle sue iridi mi parve ancora più intenso di prima.
– Tornerò per l'ora di pranzo, tu cerca di riprenderti. – disse infine, alzandosi.
– Allora a più tardi, e grazie ancora. –
– A dopo. – rispose, una volta giunto quasi alla porta, voltandosi.
Feci per sorridergli, ma qualcosa paralizzò la mia faccia dallo stupore.
Ora che la luce solare era più intensa e illuminava anche la zona in cui era situato l'uscio, riuscivo a vedere meglio la figura di Shinobu. E, quando il ragazzo si voltò, rimasi sconvolta.
I suoi occhi.
I suoi dannati occhi.
Sbattei le palpebre un paio di volte, incredula.
– Hey, Sora, cosa c'è? – chiese lui, preoccupato.
– I... Tuoi... Occhi... – balbettai.
– Cos'hanno i miei occhi? – il suo tono era sempre più inquieto, ma non riuscivo a capirne il motivo.
– Sono... Sono neri. – dissi, infine, d'un fiato.



NOTE:
Komorebi: è il nome che ho scelto per il regno in cui è ambientata la storia. Tuttavia, volevo precisare che non è una parola totalmente inventata: è un termine giapponese, intraducibile in altre lingue con un’unica espressione. Questa parola indica l’effetto di luce causato dai raggi solari, quando essi filtrano attraverso le foglie degli alberi.
Sora: è un nome giapponese che, come accennato nel testo, significa “cielo”.
Shinobu: un altro nome giapponese che mi piace. Significa “resistenza”.
Ultima precisazione (credo inutile): la storia è ambientata in un mondo di fantasia, come si può evincere dal genere. Ho usato dei nomi giapponesi solo perché essi (e la lingua in generale) mi affascinano ;)

   
 
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