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Autore: Lunarys    05/07/2014    0 recensioni
[ I suoi occhi ci misero qualche secondo ad abituarsi al buio, ed appena Sam riuscì a distinguere qualche sagoma, si rese conto che in quella stanza qualcuno ci aveva vissuto. ]
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ragazzi! Mi vergogno così tanto. Mi ritrovo ad aggiornare anni luce in ritardo, e spero possiate perdonarmi. Ciò che mi ha creato problemi è la conclusione del capitolo. Ho deciso quindi di dividere il capitolo 2 in due capitoli (parte 1 / parte 2).
BREVE RIASSUNTO CAPITOLO PRECEDENTE:
Un ragazzo di nome Sam entra nella ex-casa della sua defunta nonna trovando di tutto: strane boccette, vecchi libri, etc. Scopre una botola che porta ad una soffitta dove sembra qualcuno ci abbia vissuto. Una volta salito nella soffitta inciampa su un tavolino rompendo alcune delle boccette che tramite una fitta polvere nera lo trasportano in una prateria dove vede un grande albero al centro.

spero che vi ricordiate della storia e che mi diate una seconda possibilità! Ora che ho finito scuola ed esami dovrei riuscire ad aggiornare almeno ogni due o max tre settimane! (anche a dipendenza di chi legge)

 

CAPITOLO 2 (PARTE 1)

La Tana

 

Colpi ripetuti alla porta. «Egon... Andiamo.» riconobbe la voce di suo padre che sembrava venire da lontano, come da in fondo ad un pozzo.
«Egon! Alzati. È ora. Tra dieci minuti nell'atrio»

Sempre di notte si partiva. Egon si girò su un fianco socchiudendo gli occhi mentre usciva dal torpore del sonno. Gli facevano ancora male le costole. Doveva essere notte fonda, una notte scura e nuvolosa dato che dalle tende non filtrava nemmeno un raggio lunare. Sapeva, o almeno si ricordava vagamente, di aver rifatto lo stesso sogno che si ripeteva da mesi ormai.
Egon aspettò che i suoi occhi si abituassero al buio, mentre cercava invano di ricordare il sogno. Come ogni volta, ricordava solo brevissimi frammenti, ma mai il sogno intero. Eppure, per qualche ragione che non riusciva a spiegarsi, sapeva che il sogno era sempre lo stesso. Si stropicciò gli occhi e si alzò dal letto sospirando.
Aprì completamente le tende soffermandosi per qualche secondo ad osservare dei fuochi bruciare in lontananza, probabilmente delle capanne al limitare dei boschi. Sospirò. Dato che le case erano al di là del fiume nessuno sarebbe andato a controllare se qualcuno aveva bisogno di un rifugio o di aiuto. Se fosse successo solo sei mesi prima, quando Egon e la sua famiglia erano ancora Erranti, cioè profughi dei rimasugli della guerra, sarebbe andato a vedere.
Ora le strette regole di uscita dell'Alveare lo costringevano dentro alle mura della montagna. Era un rifugio costruito dentro ad un grande incavo roccioso con un unico accesso, chiamato alveare per il semplice fatto che ogni struttura al suo interno, finestre e porte comprese, ricordavano la forma esagonale delle celle di un alveare.
La guerra era finita, ma la devastazione continuava a mietere vittime imperturbata. E anche se l'Alveare poteva sembrare meglio che là fuori, al suo interno la gente moriva comunque per malattie.
Egon, infastidito, spostò lo sguardo dai fuochi e prese una maglietta nera che era lanciata malamente sulla sedia davanti alla scrivania. La infilò pigramente e fece lo stesso con i pantaloni di jeans neri bucati sulle gioncchia a cui era affezionato. Si diresse verso il piccolo bagno e accese la luce, che lo infastidì. A occhi chiusi aprì il rubinetto e si rinfrescò il viso con dell'acqua fredda. Cercava di evitare di incrociare lo sguardo del suo stesso riflesso. I capelli scuri gli erano cresciuti troppo, quasi fino alle spalle e gli impedivano la visuale, ma tagliarli non era una delle sue priorità.

Pochi minuti dopo stava scendendo le scale per raggiungere l'atrio, felice che quasi tutte le luci fossero spente per non sprecare energia e per non attirare attenzione indesiderata. Amava il buio, anche se da Errante buio significava solo pericolo.
Arrivò nell'atrio e cercò con lo sguardo suo padre, colui che lo aveva svegliato poco prima.

Nella penombra cinque uomini si allacciavano scarponi e si assicuravano in vita cinture con diversi coltelli agganciati, si scambiavano guanti di cuoio e si dividevano strane frecce bianche traslucide. Egon era sempre interessato da quel procedimento che ognuno degli uomini compiva in silenzio e dedizione, che in realtà era più una sottospecie di paura mista a determinazione.
Erano ladri. Contrabbandieri. Ma lo facevano solo per sopravvivere. Gli uomini che entravavano nella Porta lo facevano per le donne e i figli che avevano nell'Alveare, spesso ignari della loro vera occupazione.
Attraversavano la Porta, situata nel cuore della montagna, che era un portale in grado di trasportarli alla Prateria dove avrebbero trovato la Quercia, il loro obbiettivo. In realtà però l'obbiettivo non era l'albero in sè ma le sue pigne che maturavano a tempi irregolari, produttrici della ambita polvere nera. Di questa polvere, Egon sapeva che serviva per teletrasportarsi e che era costosissima e rarissima, reperibile unicamente prendendola dalla sola fonte conosciuta – La Quercia nella Prateria.
Data la presenza della Porta nell'Alveare non riusciva a vedere il motivo di quella disperata scorta di polvere nera che si stava facendo per ordine dei Seggi, i capi dell'Alveare. Tutte cose, nomi e regole che Egon ancora faticava a comprendere del tutto. D'altronde, quando lui e la sua famiglia erano Erranti, la Quercia nella Prateria era solo una leggenda che la gente raccontava davanti a focolari improvvisati, una specie di speranza di fuga che li riscaldava dall'interno. Con l'arrivo all'Alveare erano cambiate molte cose.

Soffermò lo sguardo su suo padre per alcuni secondi. Era indaffarato ad allacciarsi gli scarponi. Con la testa leggermente inclinata Egon lo osservò con interesse. Aveva lasciato la barba incolta, e ad Egon pareva più rilassato del solito. Quasi felice.
Quando suo padre ebbe finito di allacciarsi gli scarponi si assicurò in vita una cintura e si infilò in tasca una palla di metallo attaccata ad un sottile filo che pareva argentato. Egon sapeva che quando suo padre sarebbe diventato abbastanza vecchio – O in caso estremo, morto – gliel'avrebbe tramandata, così come fece suo nonno a sua volta. Subito dopo aver allacciato l'Armacorda alla cintura, incrociò lo sguardo di Egon e gli fece il suo solito mezzo sorriso fiero. La pelle intorno ai suoi occhi si arricciò ed Egon ricambiò subito, poi suo padre cominciò ad incamminarsi. Fu Carson a distoglierlo dai suoi pensieri.

«Ragazzino! Sei ancora nel mondo dei sogni?»
Egon era convinto che Carson, uno dei pochi uomini direttamente sottostanti ai Seggi, non sapesse ancora il suo nome ne tantomeno quello della maggior parte delle altre persone nell'Alveare. Non che Egon a sua volta si interessasse particolarmente ai nomi degli altri, in ogni caso.
«Stiamo partendo. Vedi di farti trovare alla Porta in tempo» Carson si allontanò.
Egon pensava che per quanto Carson potesse sembrare scontroso era una delle persone fisicamente e strategicamente più in gamba dell'Alveare. Doveva aver vissuto fuori per molto tempo prima di finire all'Alveare e doveva essere in gamba per essersi guadagnato la fiducia dei Seggi, che a dire di ogni persona avevano sempre abitato nell'Alveare. Egon avrebbe potuto informarsi in giro, ma non amava socializzare con le persone al di fuori della sua famiglia. Da Errante aveva imparato che erano legami che non duravano molto, soprattutto quando si moriva così facilmente.
Raccolse una borsa da terra e si avviò verso la Porta, dentro alle viscere della montagna. Seguiva suo padre a pochi metri di distanza.

I tunnel che conducevano alla Porta erano raggiungibili solo da una stanza secondaria vicino all'accesso all'area dei Seggi, ed erano fatti di semplice roccia levigata. Lo stretto passaggio imponeva di camminare in fila indiana per la maggior parte della lunghezza del percorso e talvolta anche di doversi chinare per non sbattere la testa.
Egon amava la sensazione della roccia fredda e leggermente umida al tatto. Cercò di accellerare il passo per raggiungere suo padre pochi metri più avanti, ma gli sembrava che per ogni metro che guadagnava, suo padre si allontanava di altri due. Poi lo perse di vista.

Poco dopo cominciò ad intravedere la luce bluastra della Porta, che probabilmente era già stata aperta per disperdere la troppa energia accumulatasi. Una volta in fondo al tunnel lo spazio si apriva in una cavità rocciosa naturale con al centro la Porta, che di porta aveva poco. Egon non aveva mai visto un portale in vita sua, ma era sicuro che quello era di dimensioni davvero enormi.

Gli uomini della spedizione erano radunati in un piccolo cerchio al lato del portale a parlare sommessamente. Egon pensò stessero organizzando il piano d'azione e lasciò cadere la borsa vicino alle altre. Non gli interessava ascoltare il piano di azione, perchè come al solito il suo compito sarebbe stato solamente aspettare il loro ritorno. Quando si accorsero della sua presenza smisero di parlare ed Egon si trovò sei paia di occhi puntati addosso. Fu solo cercando lo sguardo confortante di suo padre che si accorse che non era tra quegli uomini.
Camminava davanti a lui pochi secondi fa.

Scivolò con lo sguardo per tutta la cavità rocciosa. Suo padre non c'era.
Spostò di nuovo lo sguardo sul gruppo, su Carson. Un peso, consapevolezza, si espanse improvvisamente nel suo petto. Gli aveva appena sorriso nell'atrio. Era felice.
«Mio padre...»
Fu Carson a parlare. Gli occhi meno duri del solito. Egon sapeva che rispettava suo padre.
«Tuo padre è andato a caccia e non è ancora tornato»
Egon lo sapeva, lo aveva salutato pochi giorni prima mentre ascoltava tutte le raccomandazioni a proposito di prendersi cura del resto della sua famiglia. Vedendolo nell'atrio aveva pensato fosse tornato quella stessa notte.
Poi vide il compagno di caccia di suo padre, Seraph, al fianco di Carson. Con mezza faccia sfigurata aveva un espressione così contorta da sembrare quasi compiaciuto, e l'occhio mancante non aiutava. Egon fece due più due. Seraph era ritornato e suo padre no. Doveva essere successo qualcosa. Pensò subito a sua madre. Poi si risvegliò dalla trance in cui era caduto.
«Cosa gli è successo? Voglio sapere!» si sentì fragile come non si sentiva da molto tempo. Carson parlò di nuovo.
«Ragazzino, ne so quanto te. Il mio contatto ai Seggi è vago.»
«È mio padre! E mio padre era a caccia e il suo compagno è qua mentre lui no» Egon quasi urlava e sentiva la tensione nell'aria. «Cosa dovrei pensare?»
Carson lo guardò per un lungo momento dritto negli occhi.
«So solo che sono stati attaccati e-»
Seraph, il compagno di caccia di suo padre, lo interruppe subito. Il viso tutta una smorfia che a Egon ricordava spesso una delle rare linci che si vedono a volte nei boschi.
«Teh! Carson! Non intrometterti in-»
«Ormai ne è dentro!» urlò Carson addosso a Seraph. Poi si girò di nuvo verso Egon. «Io l'ho sempre detto a tuo padre che non era una buona idea tenerti qua, ma ha imposto le sue regole: o vi accettavamo entrambi... o avreste continuato ad essere stramaledetti Erranti... e il talento di tuo padre con quel coso attaccato al filo non era da sprecare...»
L'Armacorda. Egon pensò di nuovo a suo padre che se la metteva in tasca mentre lo guardava. Nella sua visione. Realizzò anche che non era al corrente di quella specie di ricatto di suo padre. Seraph contrasse la bocca e guardò Egon come si guarda un animale a cui si sta dando la caccia.
«Siamo stati attaccati. Ci siamo persi di vista. Io sono tornato e lui no» Seraph scandiva ogni parola con fatica a causa della condizione della sua faccia, ridotta così male da quando Egon era arrivato all'Alveare. «Tuo padre sapeva i rischi che si correvano ad oltrepassare il fiume in questo periodo, teh! Ma ci serviva selvaggina. O sbaglio? E nessuna di voialtre fighette ha avuto il coraggio di unirsi a noi, teh!»
Due degli altri uomini guardarono altrove. Seraph guardò gli altri quasi con disprezzo. Poi tornò a fissare Egon.
«E poi non l'ho visto morire, tuo padre.»
Carson non parlava più. Seraph, con un espressione più felina che mai, borbottava tra sè. Anche un terzo, Verden, si mise a sbraitare.
«Se i Seggi vengono a sapere che raccontiamo queste cose ad un ragazzino...» si avvicinò puntandogli un dito a pochi centimetri dalla faccia. «Tu non fiaterai ad anima viva o ti strapperò la tua chioma da principessa a mani nude. Mi hai sentito?» senza aspettarsi nemmeno una risposta si girò a parlare agli altri.
«L'ultimo ordine era di andare a prendere questa stramaledetta polvere» sbraitò. «se non lo facciamo questa dannata notte dovremmo aspettare il prossimo fottuto ciclo»
Egon osservò i tatuaggi di Verden che gli sbucavano dal collo della maglia, su per tutto il collo fino ad appena sotto la mascella. Poi guardò Seraph, la faccia da lince contorta come non mai mentre discuteva con Carson, che si accarezzava la folta e ispida barba. Gli altri osservavano sgomenti, in attesa di ordini. Non era mai stato ben chiaro se il capo del gruppo fosse Verden o Carson. Qualcuno del gruppo parlò.
«Ci manca un uomo!»
«I Seggi non rispondono... e d'altra parte non possiamo restare qua e non possiamo chiedere a nessun'altro! Siamo noi gli unici al corrente!» disse Verden. «dobbiamo prenderci questo rischio»
Egon pensò ancora a suo padre che gli sorrideva nell'atrio. Poi lui che lo seguiva nel tunnel. Smise di ascoltare. Entrò di nuovo in quella specie di trans. Era stato svegliato da suo padre per un motivo. Lo aveva visto nell'atrio con la sua Armacorda per un motivo. Gli aveva sorriso. Ed era stato lui a portarlo fino alla caverna.
Ad Egon sembrava di essere ancora nel mondo dei sogni. Aveva visto suo padre, che non era lì. Pensò che non lo avrebbe svegliato senza motivo, per quanto gli sembrasse strano. Passarono nella sua mente altri frammenti del sogno fatto prima di essere svegliato e si convinse che non era stato solo uno scherzo della sua mente. Era troppo reale.

Invece che accettarlo, Egon preferì rifiutare ogni cosa. Lanciò uno sguardo agli altri che continuavano a discutere e si incamminò come un ombra verso il tunnel per andarsene. Suo padre aveva quasi una settimana di vantaggio, quindi ormai avrebbe aspettato fino alla mattina successiva per avvisare sua madre che se ne andava a cercare suo padre. O forse le avrebbe detto che lo avrebbe raggiunto per non preoccuparla. Lo avrebbe spiegato poi lei ai suoi fratelli e sorelle. Anche ad Anaysse, quella malata. Camminava per il tunnel e ogni passo lo scoraggiava sempre di più. Non poteva lasciare qua la sua famiglia, in assenza del capofamiglia. Dall'altro lato non poteva nemmeno abbandonare suo padre.
Cosa avrebbe voluto che facesse? Non gliene importava di quegli stupidi che lo trattavano come uno stramaledetto bamboccio. Poco sapevano che quando era ancora un Errante, cosa che sembrava far rivoltare tanto le viscere ai Seggi, suo padre gli aveva insegnato quasi tutto quello che sapeva, seppur con riluttanza dovuta alla speranza che suo figlio potesse crescere in un mondo dove non ci fosse bisogno di cacciare per mangiare e di uccidere chi era una minaccia. Suo padre aveva poi gradualmente riposto quella speranza negli altri figli più piccoli.

A metà tunnel Egon si fermò, appoggiò le mani alla roccia fredda e si piegò in avanti. Pianse per la prima volta dopo molto tempo. Suo padre era il pilastro fondamentale della sua vita, e non riusciva ad immaginare che gli fosse successo qualcosa. Non proprio ora che avevano trovato un posto dove stare per più di due giorni. Non quando avevano avuto un opportunità per ricominciare da capo.
Si costrinse a smettere di piangere, asciugandosi le lacrime con il bordo della maglia. Era pronto a ripartire quando si accorse di aver lasciato nella caverna la maledetta borsa con le chiavi per uscire. Tornare indietro era l'ultima cosa che voleva, ma era quello che doveva fare se voleva uscire dal tunnel. Si sfregò le mani sul volto e le passò poi tra i capelli portandoli via dalla faccia. Forse Verden aveva ragione, era davvero ora di tagliarli.

Ripercorse i suoi passi. Se erano già partiti avrebbe anche potuto chiudere la Porta e lasciare quel branco di stolti a morire di fame nella Prateria. Perchè stando a quanto gli era stato detto da suo padre, e lui di suo padre si fidava sempre, quella dannata Prateria era solo una prateria infinita con in mezzo la fottuta Quercia produttrice della polvere magica per cui i Seggi stravedevano tanto.
Pochi metri a ritroso nel tunnel ed Egon sentiva di nuovo gli uomini discutere. Non erano ancora partiti. Verden insisteva ancora sull'andare.
«...andremo solo in quattro»
Carson era scettico. Quando lo vide rientrare nella grotta fece uno scatto.
«Ragazzino! Mi chiedevo dov'eri finito! Anche tu hai il tuo ruolo qua, se non te lo sei dimenticato» Egon ignorò Carson e si limitò ad avvicinarsi alle borse e a frugare nelle tasche, fino a quando non sentì il metallo freddo delle chiavi a contatto con la pelle.
Intanto sentiva Verden alle sue spalle che incitava gli altri a partire. Non sentiva più la voce roca di Carson, e una sensazione gli suggeriva che era perchè lo stesse guardando.
Quando si girò per andarsene se lo trovò a pochi centimetri di distanza. Si dimenticava spesso che nonostante la sua statura Carson aveva il suo stesso passo felpato.
Lui lo guardò per alcuni lunghi momenti. Egon sostenne lo sguardo e quando con la coda dell'occhio vide che Carson stava portando la mano alla tasca posteriore pensò che stesse per attaccarlo. Si irrigidì, pronto a difendersi. Carson lo notò.
«Calmo, principessa» Egon roteò gli occhi al cielo. Il soprannome affibbiatogli da Vernen sarebbe stato come uno spettro per lui.
«Lo sai che il mio nom-»
«Egon» lo interruppe Carson. «Tuo padre mi ha chiesto di darti questo.» tirò fuori il pungo chiuso che frappose tra di loro, ad altezza del ventre. Non disse niente, e questa volta fu Egon ad accorgersi non con poca sorpresa della sua esitazione. Si limitò a guardare il pugno chiuso, poi quando Carson sollevò lo sguardo per incrociare il suo fece lo stesso. Con la sua solita voce roca e graffiata, Carson parlò.
«Ammetto che avevo una mezza idea di tenermelo...» girò il pugno in modo da avere il palmo rivolto verso il soffitto, sempre chiuso. «...ma non riesco ad usarlo.»
Carson aprì il pugno. Egon sentì il cuore aumentare il battito.
Era l'Armacorda di suo padre.
Non che ne avesse mai viste altre, d'altronde. Non sapeva cosa dire, e non disse niente. Pensò di nuovo a suo padre, alla visione di suo padre, che si metteva in tasca l'armacorda nell'atrio.
Quasi non riuscendo a metterla a fuoco, prese l'armacorda dalla mano di Carson, che ancora lo guardava con un espressione abbastanza corrucciata. Si rigirò l'oggetto tra le mani come per assicurarsi che fosse lì veramente. Si chiese come mai suo padre fosse andato a caccia senza.
Perchè sapeva che non sarebbe tornato” rimbombò nella sua testa. No. Non poteva essere. Mentre la guardava era immerso in una bolla ovattata che si ruppe poco dopo, a causa delle urla delle altre persone nello spazio cavernoso. Egon li sentiva, anche se il suo sguardo era ancora catturato dall'armacorda.

«Teh! Non se ne parla! Non possiamo andare solo noi... a meno che una di voi fighette non si offra di portare il doppio della polvere...»
«Perchè non lo fai tu?» chiese spavaldo un giovane uomo di cui Egon non sapeva il nome. Era il più giovane dopo di lui. Seraph lo guardò per un lungo momento, come se si fosse appena accorto della sua presenza.

«L'ho già fatto, scoiattolino.»
«Sì, e guarda cosa ti è successo» Verden fece un cenno col mento in direzione di Seraph, riferendosi al viso e al collo sfigurati. La temperatura della stanza scese immediatamente sotto lo zero. Seraph e Verden si fissavano a vicenda. Carson stava già per intervenire, ma Egon lo precedette.
«Verrò io»
Si girarono tutti a fissarlo in silenzio. Egon sostenne lo sguardo di Verden. Seraph scoppiò a ridere.
«La principessa è intraprendente» dice compiaciuto.
«Che venga!» sbraitò Vernen, più infastidito che sorpreso. «Si parte ora»

Il gruppo si mise in movimento. Egon stava per seguirli quando qualcuno lo prese per un braccio e lo trascinò da parte. Era Carson.
«Ragazzino» strinse le labbra fino a ridurle ad una fessura. «Voglio che mi stai attaccato al culo da quando avremo passato quella Porta fino a quando non saremo tornati indietro»

Egon si limitò a guardarlo senza rispondere. Stava scoprendo un lato di Carson che mai si sarebbe immaginato. Gli sembrava quasi... protettivo nei suoi confronti. D'altra parte il momento gentilezza di Carson era finito, ed era tornato ai suoi modi da orso selvatico.
«Mi hai sentito?» gli schioccò le dita a pochi centimetri dalla faccia.
«Sissignore» Egon si limitò ad asserire, chiedendosi cosa mai potrebbe succedere in una prateria. Era quasi sicuro che quando era ancora Errante si era confrontato con situazioni molto peggiori.
Nella caverna, gli altri uomini avevano ricominciato a prepararsi come se l'animata discussione di prima non fosse nemmeno esistita. Il loro solo obbiettivo era la polvere nera, Egon lo capiva bene, anche se non capiva tante altre cose. A partire dal fatto che si potesse trasportare pochissima polvere per ciclo, cosa che appunto li costringeva ad attraversare la Porta ogni qualvolta fosse possibile.
A differenza di altri con coltelli, archi e frecce, Egon si limitò a stringere l'Armacorda nel palmo della mano sinistra. Anche se suo padre gli aveva insegnato ad usare l'arco era troppo immerso nei suoi pensieri per chiederne uno.

Quando mise il primo piede nella Porta, venne quasi risucchiato dentro dal liquido azzurrognolo che lo avvolse completamente. Era come fluttuare in acqua completamente immersi, senza però bagnarsi. Sentiva i capelli fluttuargli attorno alla testa, e strinse l'Armacorda ancora di più pentendosi di non averla allacciata alla cintura.
Proprio quando stava per girarsi verso gli altri, che distingueva ai suoi lati solo come sagome dall'indistinta forma umana, tutto sembrò cadere. Improvvisamente divenne tutto buio ed Egon sentì un risucchio, tanto forte da togliergli il respiro. Poi venne scaraventato sul terreno duro.

 

  
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