Il
giardiniere lavorava senza fretta, nel silenzio della sera. Radunava le foglie
secche, ammucchiandole con cura; dopo aver finito, ne avrebbe fatto un bel
falò.
Asciugandosi
la fronte con un ruvido fazzoletto di tela, posò il rastrello e si diresse alla
fontana. Riempì un secchio d’acqua, per annaffiare i bulbi piantati quel
pomeriggio. Amava quel particolare odore della terra umida, odore di funghi e
di foglie cadute.
Sfiorò
un ramo d’edera che pendeva dal muro di cinta. Belle foglie, così lisce e lucide.
Quel
giardino era la sua opera d’arte, l’unica cosa di cui si sentisse fiero. Anni e
anni di lavoro, ma ne era valsa la pena. Ora, in quel piccolo appezzamento di
terra, alberi arbusti ed erbe crescevano uno accanto all’altro, intrecciandosi,
una selva di forme e colori. Una dimora perfetta, pensò, per ninfe e driadi. Le
pietre del vialetto, la fontana, il pozzo, erano sommersi da un armonioso
groviglio di steli e di foglie, ora brune nell’autunno inoltrato.
In
un angolo riparato, vicino al roseto, teneva le piante più delicate, perché il
vento non le rovinasse. Scostò la cascata di rampicanti davanti al porticato, e
si mise ad osservare con occhio esperto le timide piantine che facevano
capolino dai loro vasi in terracotta.
Una
in particolare gli era molto cara, un esile stelo che pareva mettere in mostra
le sue piccole foglie un poco intirizzite per il freddo. Era una specie molto
rara, ne aveva conservato per tanto tempo una manciata di semi, e solo una
piantina era nata. Forse in primavera sarebbe fiorita, e si chiese come sarebbe
stato quel fiore. Non l’aveva mai visto, in tanti anni del suo mestiere.
Ma
per ora bisognava aspettare. Si sedette su una panchina di pietra, respirando
la calma del suo giardino.