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Autore: _Leviathan    07/07/2014    3 recensioni
Frank Iero e Daisy Snowdon sono migliori amici. Frequentano il liceo a Westwood, nel Minnesota, e hanno un compito da portare a termine: Scattare delle fotografie che facciano vincere loro il concorso di fotografia della scuola.
Daisy è sicura di aver trovato la location perfetta: L'ex Ospedale Psichiatrico di Westwood.
Solo nel momento in cui Daisy e Frank si recheranno lì, si renderanno conto che quel luogo nasconde un terribile segreto.
Genere: Horror, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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***Alcuni piccoli accorgimenti prima di cominciare.
Non ho idea di cosa uscirà da questa storia, l'ho ideata oggi pomeriggio e ho ancora centinaia di incognite. Questo capitolo è stato dunque scritto un po' di getto.
I personaggi sono tutti miei tranne ovviamente Frank, Gerard, Mikey e Bandit (gli ultimi tre appariranno più avanti).
Purtroppo non è una Frerard. Sono una convinta sostenitrice della coppia (yay!) ma ho voluto fare qualcosa di diverso.
Spero gradirete :3

Ah, vi sarei grata se mi lasciaste una recensione alla fine del capitolo per farmi sapere cosa ne pensate, non avete idea di quanto le recensioni mi siano utili.

Bando alle ciance, si comincia!***




Capitolo uno.



Ero sempre stata convinta che le cose che accadevano a me accadessero anche a tutte le altre persone. Semplici esperienze, magari situazioni abituali vissute e rivissute.
Rimanevo sempre un po’ scioccata ogni volta che mi rendevo conto che quasi solo per me era così. Le persone sono tutte diverse, vivono situazioni completamente diverse dalla mia tutti i giorni, le loro vite sono diverse.
Mia madre piangeva seduta sulla sedia di fronte a me. A separarci solo il tavolo della cucina. Aveva dimenticato la sigaretta sul piattino del caffè. Ormai si era consumata quasi del tutto.
Piangeva e non la smetteva, eravamo ridotte a quel silenzio interrotto solo dai suoi singhiozzi da quasi venti minuti.
Il suo compagno l’aveva lasciata. Sei anni buttati nel cesso.
Ogni tanto lei, tra un singhiozzo e l’altro, se ne usciva con un’imprecazione particolarmente originale e colorita, o più semplicemente piagnucolava su quanto le mancasse Denny e su quanto avesse significato per lei quella relazione.
Io stavo ad ascoltare, non particolarmente colpita.
Conoscevo bene quella donna. Mia madre era sempre stata una persona dal temperamento forte, ma necessitava costantemente di qualcuno a cui aggrapparsi. Senza quell’appoggio, tutto il suo temperamento forte andava a farsi fottere.
Denny Pitsbury era stato la sua roccia per gli ultimi sei anni.
Si erano conosciuti un anno e mezzo dopo il divorzio da mio padre, quando io ero ancora troppo piccola per poterle dare tutto l’appoggio che cercava, per essere la fonte del suo temperamento forte.
Non biasimavo Denny, le cose avevano semplicemente smesso di funzionare nella maniera corretta. Troppi litigi, troppe lacrime, troppe urla.
Le persone cambiano, le cose non funzionano più come dovrebbero.
Allungai una mano sul tavolo fino ad incontrare una delle sue. Era particolarmente rigida, bagnata dalle lacrime che si era asciugata in malo modo dal viso.
- Ehi, Rachel. – Non la chiamavo mai mamma. Sempre Rachel. Avevo smesso di chiamarla mamma nell’anno subito seguente al divorzio. Era venuto a mancare qualcosa tra noi due, qualcosa che non era ancora andato recuperato e che probabilmente non lo sarebbe mai stato.
- Rachel. – Dissi più decisa. Lei sollevò gli occhi su di me. Le sorrisi.
Che cosa si diceva ad una mamma che era appena stata lasciata dall’uomo che ama?
- Andrà tutto bene. – Parole false e vuote, alle quali nemmeno io credevo.
No, le vite delle altre persone non erano come la mia. Avevano una famiglia normale e non chiamavano la loro mamma per nome.



Frank era completamente assorbito dal disegno al quale stava lavorando da tutta la mattina. Il naso affondato nel foglio e la lingua tra le labbra semichiuse denotavano la sua estrema concentrazione.
Gli avevo tirato un bigliettino tutto accartocciato, ma non si era voltato.
Avevo chiamato Mitchell, il suo compagno di banco, ma le uniche attenzioni che avevo ricevuto erano state quelle del signor Kurzem, l’insegnante di scultura.
Rigorosamente tedesco.
Pallido. Capelli biondi. Occhi di ghiaccio. Sembrava quasi albino.
Insopportabile.
- Signorina Snowdon? –
Mi voltai verso di lui con una smorfia. – Si, signor Kurzem? –
- Fuori dalla porta. E non si azzardi a ribattere. –
Ah, mi conosceva sin troppo bene. Aveva pronunciato la seconda frase nel momento esatto in cui io avevo aperto la bocca per ribattere.
Annuii una sola volta con la testa, le labbra ridotte ad una linea rigida. Mi alzai dalla mia sedia, girai i tacchi, e mi incamminai verso la porta.
Finalmente Frank si era degnato di rivolgermi un minimo d’attenzione. Lo mandai a fare in culo tenendo la mano ben nascosta davanti a me, così che Kurzem non mi vedesse.
E tanti saluti alla bravissima studentessa-antisgamo Daisy Snowdon.

Avevo passato entrambe le due ore di scultura fuori dalla porta. Avevo impiegato il mio tempo come meglio avevo potuto, tra un giro al bagno, un cappuccino in caffetteria in compagnia di Barnaby – il bidello migliore del mondo, ve l’assicuro – e una chiacchierata con Linda Steele – la ragazza delle punizioni per eccellenza – riguardo al tema: “I croassant sono più buoni alla crema o al cioccolato?”
Finalmente, alle 10.25, era suonata la campanella della ricreazione.
Ero sfrecciata in direzione della mia classe, pronta a prelevare Frank non appena avesse messo il naso in corridoio.
Salutai Kurzem con un sorrisino tanto angelico quanto falso, e non appena vidi il ciuffo di Frank spuntare – no, spuntare non è la parola giusta, vista la sua bassezza – beh, non appena riuscii a vedere Frank, lo presi a braccetto e lo trascinai verso il cortile, in quell’angolo all’ombra del tiglio che ormai era diventato il nostro angolo.
- Allora? Che ne pensi? –
Corrugò la fronte, si leccò velocemente le labbra. – Penso che sia fantastico D, sul serio. Ma sei sicura di volerlo fare? –
- Assolutamente. Senti Frank. Il concorso di fotografia scade tra cinque giorni esatti, siamo l’unica coppia che non ha ancora un fottutissimo scatto, e abbiamo trovato un posto da urlo. Saresti scemo a non accettare. –
- Potrebbe essere pericoloso. –
Lo guardai storto, il sopracciglio destro partito per la tangenziale. – Mi prendi in giro, vero? –
A questo punto Frank fece una delle rare cose che io odiavo categoricamente di lui. Mi prese per i fianchi e mi sollevò da terra, mi stampò un bacio a schiocco sulla guancia. Tra mille imprecazioni – ovviamente da parte mia – e un calcio sullo stinco – ancora da parte mia – si decise finalmente a mettermi giù.
- Certo che stavo scherzando. – Sorrise.
Suonò la campanella di fine pausa.
– Ci vediamo domani lì. Dopo cena. –
- Okay, a domani. –
Mi voltai e mi recai nell’ala est della scuola per il corso di scenografia, mentre Frank si recò in quella nord per architettura.



Rachel dormiva ancora. Era mezzogiorno passato, e dalla sua camera da letto non proveniva alcun rumore se non quello delle sue narici che russavano sonoramente.
Scossi la testa e mi recai in cucina, misi l’acqua a bollire e mi accesi una sigaretta.
Facevo schifo a cucinare, ma piuttosto di ritrovarsi a pranzare alle cinque…
Controllai il telefono. Nessun messaggio di Frank, ciò stava a significare che quella sera il progetto avrebbe preso vita.
Era anche l’ora, diamine! Non ero mai stata in un tale ritardo per un progetto scolastico.
E odiavo esserlo, se non si fosse capito.
Il pomeriggio passò con una lentezza esasperante. Il tempo non passava, la lancetta dell’orologio sembrava essere sempre nello stesso punto.
Il risultato fu che alle otto e mezzo uscii di casa con il nervoso e con quel mal di testa che viene sempre quando si passa la giornata a non fare nulla o ad aspettare qualcosa.
Quando arrivai mi resi conto che ero in anticipo. Nel luogo dell’incontro ero sola. E diciamocelo, quel posto aveva il potere di mettere i brividi.
Mi strinsi nella mia giacca di jeans e mi sedetti sullo skateboard, il mio fido compagno di cadute. Presi lo zaino e me lo misi sulle ginocchia. Ne tirai fuori la macchina fotografica e l’accesi. Scattai qualche foto a casaccio, qualsiasi cosa pur di ingannare l’attesa.
Dopo circa un quarto d’ora arrivò Frank sul suo skateboard – era stato lui ad insegnarmi ad andare sul mio – e appena mi vide esibì il suo miglior sorriso, quello che io adoravo. Mi salutò con due dita portate sulla fronte, molto in stile “militare”.
- Allora, Principessa delle Tenebre! – Principessa delle Tenebre. Il soprannome che mi aveva dato appositamente riguardo alla mia passione per il macabro e l’orrido. – Sei pronta? –
- Sono nata pronta. – Dissi, con un sorrisino pericoloso.
- E allora entriamo e vediamo di finire questo lavoro in fretta. –
Non senza difficoltà riuscimmo ad aprire il portone d’ingresso. Era sbarrato ed arrugginito, se mi fossi tagliata probabilmente avrei fatto intervenire direttamente tutto il paradiso (Dio compreso). Le porte si aprirono con un cigolio decisamente inquietante, mentre nuvole di polvere ci costrinsero a coprirci il naso e la bocca con i lembi delle giacche. All’interno, regnava il silenzio.
- Però… - Fu il timido commento di Frank. – Fa un po’ paura. –
Corrugai la fronte. – Già. Ma non mi aspettavo diversamente da un ex Ospedale Psichiatrico. –

No, le vite delle altre persone non erano come la mia.
   
 
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