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Autore: Northern Isa    07/07/2014    0 recensioni
Piegare la testa significa perdere il nostro spirito. Ma che se ne fa dello spirito un popolo di morti?
All'epoca dell'invasione della Britannia, voluta dall'imperatore Claudio, il popolo degli Iceni si alleò volontariamente con i Romani. Fu re Antedios a piegare il ginocchio di fronte alla nuova potenza, diventando così re cliente. Re Servitore.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Io,
 
Stringo le redini decorate del mio cavallo con maggior forza, come se le mie dita si fossero contratte involontariamente in seguito a uno spasmo. È un baleno: in un attimo la pelle inizia a formicolarmi e, appena le articolazioni iniziano a dolermi, lascio la presa.

Espiro profondamente: non c’è motivo di essere tanto nervosi. Protendo la mano sul lungo collo del mio cavallo, che ondeggia dolcemente al ritmo di ogni passo. Il manto setoso della bestia baia regalatami da mio cognato mi scorre tra le dita ricordandomi la consistenza del mantello che mi copre le spalle.
Il mio sguardo percorre rapidamente le mie vesti tinte di colori sgargianti; forse avrei fatto meglio a indossare una tunica romana, rifletto, ma è ormai troppo tardi. Del resto, con un abbigliamento tanto diverso dal mio usuale sarei potuto risultare solo ridicolo. Non so quanto questa considerazione sia consolante: è da tempo che cerco di sembrare qualcosa che non sono.
Il parassita,
 
Fuori dai cancelli di legno che circondano la mia dimora, affonda le radici un nocciolo. Sorveglia il dun da sempre, per quel che mi ricordo. Non so se è stato piantato lì, oppure è nato spontaneamente. Tutto ciò che so è che quel nocciolo ha un qualcosa di confortante, è una presenza costante in un periodo di grandi cambiamenti.
Questo inverno, il legno del nocciolo ha iniziato a marcire, e ora non è rimasto che uno scheletro nero che si staglia sullo sfondo del dun. Speravo che si sarebbe ripreso, ma così non è stato. Ora sembra una creatura agonizzante, che tende le dita scarne e scabrose verso i cieli, implorando la clemenza degli dei.
Non sono stato l’unico a intuire il triste destino della pianta, ma forse sono stato il primo. Ben presto, molte voci hanno iniziato a sostenere che si trattasse di un presagio infausto. Mi è stato suggerito – meglio supplicato – di chiedere il parere dei druidi. Una pianta così sana non poteva ridursi in quello stato in così poco tempo, non se per tanti anni era stata una sentinella vigile sulla nostra casa e sui nostri cari. Ma io conoscevo la verità: il nocciolo era vittima di un parassita. Sarebbe morto divorato dall’interno.
Nel ricordare le parole con cui tutti si sono opposti alla fine della pianta, mi sento percorrere da un moto di irritazione e stringo convulsamente le labbra. In quel caso, la mia gente si è dichiarata fiera nemica della morte. E adesso? Cosa è cambiato?
Fingo di non sentire e di non vedere, ma ho occhi e orecchie. Conosco i nomi di chi mi ritiene un parassita per la scelta che ho fatto, esattamente come quella piaga che ha colpito il mio amato nocciolo. Quel che non vogliono capire è che mentre quel verme ha ucciso la pianta, io sto operando per la vita.

So di fare la cosa giusta, penso mentre stringo ancora le redini fino a sbiancarmi le nocche.
Il capo,
 
Il mio cavallo scuote la testa e nitrisce: avverte tutto il mio nervosismo.
Non posso farci niente, vecchio mio, penso passandogli ancora una volta la mano sul collo, nella speranza di tranquillizzarlo. Non sono bravo come Prasutagos con i cavalli, ma anche io ho qualche dote. Del resto siamo Iceni, e la nostra abilità con questi quadrupedi è riconosciuta in tutta la Britannia. Dopo qualche carezza, infatti, il mio cavallo riprende la consueta andatura. Vorrei essere in grado di calmare la mia gente così come ho fatto con questo animale. Dovrebbe far parte dei miei doveri di capo.
Drizzo la mia colonna vertebrale mentre mi appoggio alla sella e allungo la testa in direzione del corteo al mio seguito. È molto ormai che sono re, ma vedere tante persone che seguono obbedienti la mia avanzata, facendo ciondolare le teste come il mio cavallo, mi fa sempre un certo effetto.

Devo essere il domatore di questi cavalli, il pastore di questo gregge, la guida di questa gente. So che li sto guidando verso un futuro che preferirebbero evitare con la morte.

Non sono fiero di quello che sto per fare, ma non ho scelta. Sono Antedios, re degli Iceni, sono il loro capo: devo tutelare la mia gente e, di fronte a questo nemico, non c’è altro che possa fare.
Il fallimento.
 
Non importa quante volte abbia spiegato il mio punto di vista nei consigli: leggo negli occhi dei saggi delusione, sfiducia, forse anche astio. Un re considerato in questo modo dalla sua gente non è che un re fallito.
Più o meno espressamente, i saggi hanno sostenuto che piegare la testa di fronte all’avanzata dell’invasore rappresenta la rovina, che rinunciare ai nostri usi, alle nostre tradizioni e ai nostri culti sia un errore. Io ribatto: è una rovina evitare una sconfitta certa, un errore respingere la morte?
Piegare la testa significa perdere il nostro spirito. Ma che se ne fa dello spirito un popolo di morti?

Basta, non ho più intenzione di ribadirlo. A questo punto non importa più convincere i saggi, la mia gente; mi chiamino come vogliono, ma è la mia volontà che continua a contare.
Fratello, non dovrei piangere quando incontrerai il tuo destino
Non sarò il tuo salvatore un’altra volta
Questa terra sta morendo, non lo vedi?
Dobbiamo allinearci al fianco della potenza
Perdere la nostra anima, o perdere la nostra vita.

 
Gli zoccoli del mio cavallo scavano dei minuscoli solchi nel terreno quando questi si ferma. Sollevo un braccio sulla testa, facendo segno al corteo che mi segue di immobilizzarsi. Un paio di guerrieri si affrettano verso di me quando mi vedono apprestarmi a scendere dalla sella, ma li respingo. Sono vecchio, ma non sono ancora un relitto.

«Ah, Dubrac…» esordisco, muovendo la mano in un gesto casuale in direzione del mio parente più prossimo. È un giovane uomo, ma ai miei occhi sarà sempre un ragazzo. Mi ha seguito perché la nostra parentela e il suo ruolo glielo impongono, o sostiene davvero la mia causa?
Dubrac si rivolge a me con rispetto, ma mi accorgo del suo sguardo assente. I suoi occhi sono fissi sul padiglione porpora e oro davanti a noi, o forse sugli intarsi d’oro delle armature degli uomini che presidiano lo spazio antistante. Cerco di imitare Dubrac senza dare nell’occhio: sono sempre un re, non posso mostrarmi troppo stupito o ingenuo. Eppure la curiosità è tanta, perciò riesco a stento a trattenermi dallo schiudere le labbra in un’espressione sorpresa di fronte agli scudi blu decorati con saette argentate. Ho già visto dei Romani nella mia vita, ma nessuno era come questi.
«La guardia pretoriana…» mormora una voce maschile in transito poco lontano da me.
Mi volto immediatamente a guardare chi ha parlato: si tratta di un giovane principe che non ho mai visto prima. Farebbe bene a tenere a freno la lingua prima di dire qualcosa di cui pentirsi: questi Romani conoscono il nostro idioma e potrebbero non gradire se qualcuno dicesse qualcosa di irrispettoso nei loro confronti. Non siamo nella posizione di permetterci una simile audacia.
Quest’ultima considerazione mi porta a farne un’altra: abbiamo sotto gli occhi l’ennesima prova della potenza romana, neanche la lingua diversa è un ostacolo per loro.

I pretoriani si rivolgono a me come ai gruppetti di principi che si sono radunati in questo spiazzo, per introdurci a scaglioni del padiglione porpora e oro. Avverto un brivido percorrermi la spina dorsale mentre un soldato solleva un braccio verso di me.

Quando il lembo della tenda viene riabbassato in seguito al nostro passaggio, devo sbattere più volte le palpebre per abituarmi alla luce polverosa che illumina l’ambiente altrimenti oscuro. Tra i coni di luce nei quali danza il pulviscolo, volti duri di uomini vestiti di bianco campeggiano come spettri. L’effetto impressionante è incrementato dalle loro toghe fluttuanti e immacolate. Il brivido che ho sentito lungo la schiena ricomincia a correre avanti e indietro. Cerco di scacciarlo con una scrollata di spalle: sono un re, non posso reagire in questo modo.
Re. Di qui a poco, questa parola cambierà di significato. L’unico vero capo sarà l’imperatore, l’uomo che, affiancato dalle due ali di toghe candide, indossa invece una veste purpurea e splendidi gioielli.
Me lo immaginavo più alto. È questa l’unica cosa che riesco stupidamente a pensare.
Inspiro profondamente mentre mi inginocchio sul morbido tappeto che ricopre il suolo. Da questa posizione, non riesco a vedere in faccia chi ha iniziato a parlare, ma sono sicuro che deve trattarsi di uno di quegli spettri spaventosi.
«Siete qui per sottomettervi al Senato e al popolo di Roma, per offrire voi stessi, le vostre famiglie, le vostre tribù, i vostri servi come sudditi obbedienti e volenterosi dell’impero: accettate questo legame?»
Strizzo gli occhi mentre poggio i palmi delle mani sul tappeto. Una sensazione infuocata mi stringe il petto come dita di una mano incandescente. Sapevo che mi sarei umiliato, non immaginavo che sarebbe stato così.
Nel nome della Britannia,
nel nome della mia tribù,
nel nome della mia avidità,
io divento un servitore.

Solo quando il silenzio dei demoni romani diventa assordante mi rendo conto che è il mio turno di aprire bocca. Deglutisco a vuoto e faccio schioccare le mie labbra disidratate. È arrivato il momento che aspettavo, quello che sapevo si sarebbe rivelato inevitabile, quello che ho bramato per la mia gente e per me stesso, quello che adesso odio con ogni fibra del mio corpo.
Ho sempre pensato che sottomettermi ai romani fosse l’unico modo per salvare le vite degli Iceni. Ho accarezzato impudentemente i vantaggi che essere un re cliente avrebbe comportato, eppure adesso vorrei fuggire.

È troppo tardi, ormai non si torna indietro. Devo farlo. Rispondo il mio giuramento, mentre il mio cuore urla la verità.
Nel nome degli Iceni,
nel nome degli inginocchiati,
nel nome di chi si piega, nel nome del venduto
sono diventato una menzogna.

 
E la menzogna, da questo momento, sarà l’unica realtà.





NdA: questa OS è ispirata al bellissimo testo di (Do)Minion, tratto dall'album Everything Remains (As it never was) degli Eluveitie, testo riportato in corsivo. La canzone in realtà parla della Gallia, ma io l'ho adattata per parlare degli Iceni. E' stata l'unica modifica riportata al testo.

 
   
 
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