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Autore: a_marya    08/07/2014    1 recensioni
Abigayle lavora all'HRose Post da un mese quando ottiene il suo primo servizio: una ragazza identica a lei, con un nome quasi identico al suo è scomparsa dalla sua cittadina natale, Littletown, a 700 miglia da NY e il fratello ha chiesto al giornale di raccontare la storia di Abbie, nella speranza di far luce sul suo mistero.
Abigayle è quindi costretta a partire per Littletown insieme ad Aaron Wade, giornalista esperto a cui il capo l'ha affidata, per scoprire se la sua gemella è davvero scappata e perchè. Per farlo, però, dovrà trovare la verità tra segreti, bugie e ricatti, col solo aiuto di Theresa, una donna ancora bambina, a causa di una menomazione. Dovrà arrivare a conoscere quella gemella sconosciuta attraverso le parole e i pensieri degli altri, dovrà scavare nel proprio passato e arrivare a conoscere se stesse e la sua storia.
Genere: Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sbatto il cellulare sul tavolo, ignorando lo scricchiolio che ne fuoriesce come un lamento.
- Ancora lo sconosciuto? – mi domanda Mel, sollevando la testa dalla tastiera del tablet.
- Credo che dovresti parlare con la polizia. È un reato punibile per legge. Una mia amica ci ha fatto un sacco di soldi con una storia simile.
Questo è tipico di Mel. Lei ha sempre un’amica che ha fatto, detto o pensato quello di cui si parla. A sentire lei, sembra che conosca tutta New York. Io, invece, credo che queste amiche non esistano affatto e che lei le nomini solo per sembrare cool.
- Non dovresti dire i fatti delle tue amiche a chiunque, Mel – le rispondo, comunque, tagliando corto.
Non ho bisogno di una lezione sui miei diritti di donna e, inoltre, credo di conoscere il mittente di queste stupide chiamate, solo che Mel non è il tipo di amica a cui puoi rivelare certe cose. Anzi, in realtà non è nemmeno mia amica, solo una collega ficcanaso e invadente che passa il tempo a inventare nuove ragioni per non lavorare.
Lei mi fissa in cagnesco per qualche secondo, forse scocciata dal mio rifiuto di spettegolare, poi fa uno dei suoi sorrisetti maligni.
- Comunque, credo che Phil ti stia cercando – mi avverte, col suo tono strascicato.
Finalmente stacco lo sguardo dal computer per rivolgerlo a lei.
- E perché?
- Non lo so, so solo che stamattina ha chiesto come mai non eri ancora arrivata.
Stamattina. Cioè, dato che sono le due del pomeriggio passate, quasi sei ore fa.
E me lo dice solo ora?
Mi volto verso di lei per farle notare il suo tempismo, ma un’occhiata alla sua faccia soddisfatta mi fa capire che il ritardo è stato del tutto intenzionale, perciò mi rimangio tutte le parolacce e mi limito ad alzarmi dalla mia postazione per raggiungere l’ufficio di Phil, in fondo alla stanza, mormorando una serie di maledizioni contro quell’oca svampita con cui lavoro.
- Melanie mi ha appena detto che mi cercavi Phil. Ti servo ancora? – gli domando. Inutile spiegargli la stupida malignità della mia collega, e comunque se fosse stato qualcosa di urgente mi avrebbe cercata di nuovo.
- Meglio tardi che mai – risponde lui laconico con un’occhiataccia di rimprovero, poi mi fa segno di accomodarmi sulla seggiola di fronte alla sua scrivania.
Per un momento mi viene voglia di rifiutare.  Mi mette ansia quando la gente ti fa sedere di fronte a loro con l’espressione che ha ora Phil, quella faccia da “è meglio se ti siedi”. Mi fa pensare al peggio.
Però mi faccio coraggio e mi siedo dove mi è stato indicato, sforzandomi di assumere la faccia più impassibile che mi riesce. Sono piuttosto certa di non aver fatto errori sul lavoro, perciò a meno che non si tratti della solita riduzione del personale… Certo, non mi meraviglierei se quella vipera di Mel avesse raccontato delle bugie sul mio conto, solo per movimentare la vita in ufficio…
Phil intanto mi squadra per qualche secondo in silenzio, poi comincia a parlare in un tono lento e misurato che mi rende ancora più nervosa.
- Ieri ho ricevuto una visita interessante – mi dice, fissandomi attentamente.
- Un tizio è venuto a chiedermi se potevo rintracciargli una persona, di cui ha perso le tracce circa un mese fa.
Mentre parla continua a fissarmi come se si aspettasse una qualche reazione precisa, ma io ancora non capisco dove vuole arrivare perciò resto in silenzio e alla fine lui si decide a riprendere.
- Mi ha raccontato che questa persona viveva in un posto che si chiama Littletown, sul Millers Lake. Pochi negozi, nessun servizio, meno di duecento anime in tutto. Ti dice niente?
Lo fisso, probabilmente con espressione piuttosto ebete, poi scuoto lentamente la testa, perplessa. Perché mai avrei dovuto sentir parlare di un posto del genere? Non saprei nemmeno indicare il Millers Lake sulla cartina.
- Questa ragazza ha più o meno venticinque anni, biondina, fisico normale, non molto alta, occhi castani. Faceva l’infermiera agli anziani del paese o qualcosa del genere fino a che, un bel giorno, puff! Sparisce senza lasciare tracce.
Di nuovo una pausa, come se si aspettasse un qualche commento da parte mia, solo che io non so proprio cosa dovrei dire e me ne resto in silenzio a guardarlo sempre più confusa.
Quando capisce che non ho intenzione di aggiungere niente, Phil riprende a parlare ancora più lentamente di prima, come se pensasse che sono troppo tonta per reggere quel ritmo.
- La ragazza scomparsa si chiama Abigail McPherson.
Per l’ennesima volta, Phil si interrompe e mi fissa in attesa di un commento da parte mia, che però brancolo ancora nel buio e per di più sto perdendo la pazienza.
- Perché mi stai dicendo tutto questo, Phil? Mi vuoi affidare il servizio? – chiedo sarcastica (ma anche blandamente speranzosa), sperando di indurlo a concludere in fretta.
Phil scoppia in una risata sardonica, come se avessi fatto una battuta divertente e poi torna a fissarmi, come uno squalo sulla preda.
- Te lo sto dicendo, mia cara, perché la persona che cerca questo tizio sei tu.
La notizia mi coglie completamente alla sprovvista e di nuovo me ne resto muta, alla ricerca delle parole giuste per chiedere al mio capo se non ha per caso bevuto, stamattina.
- Il mio nome è Abigayle Matthews, Phil – cerco di fargli notare dopo qualche momento, col tono più controllato che mi riesce, mentre mi allungo impercettibilmente per sentire se il mio capo odora di alcool.
- Già, stesso nome, appena una minuscola differenza di pronuncia. E… - si interrompe per cercare qualcosa tra le innumerevoli carte che riempiono la scrivania – questa è la sua foto.
Mi mostra un’istantanea un po’ spiegazzata, che ritrae il viso di una giovane donna mentre sorride all’obiettivo. È piuttosto bella, anche se non come una modella o un’attrice, e ha un viso dolce, di quelli che vedi bene su una mamma.
Ma, soprattutto, ha il mio viso.
Be’, non proprio il mio. I suoi incisivi sono leggermente distanziati e ha due piccoli nei sul naso. Inoltre i suoi occhi sono di un marrone molto più chiaro del mio e nel complesso, lei è più bella di me, anche se non saprei dire perché.
Eppure la somiglianza è talmente evidente che non riesco a smettere di fissare la foto e chiedermi quando possono avermela scattata.
Sconcertata, alzo gli occhi sul mio capo, che continua a fissarmi con quell’aria da squalo che assume quando sente odore di un buon servizio. Chissà che storia si sta immaginando dietro quei suoi occhi freddi, forse qualcosa sulla droga o un omicidio. Niente che corrisponda al vero, comunque, per quanto ne so.
Torno a fissare nuovamente la foto, esaminando ogni dettaglio alla ricerca di qualcosa che illumini la mia mente, che mi faccia immaginare una qualsiasi spiegazione plausibile ma il mio cervello rimane muto. E non sono mai stata dalle parti del Millers Lake.
C’è solo una spiegazione possibile, per quanto sembri incredibile.
- Non sono io, Phil. Solo una che gli somiglia.
Lui non mi risponde e si limita a fissarmi, mentre mi agito sulla sedia.
Guardo di nuovo la foto, focalizzando le differenze. Sono minime ma ci sono. Quella non sono io, anche se la somiglianza è davvero inquietante.
- Hai per caso una gemella in giro per gli Stati Uniti? – mi domanda allora Phil, suggerendomi un’idea.
- No, non che io sappia.
In realtà non ne sono assolutamente certa, perché sono stata adottata quando ero molto piccola, ma immagino che avrei saputo se avevo una gemella, no? E poi le sorelle non vengono sempre adottate insieme? Quindi mi sembra poco probabile.
- Chi hai detto che la sta cercando? – domando, incapace di staccare gli occhi dalla mia immagine riflessa. Quasi la mia immagine.
- Non l’ho detto. Dice di chiamarsi Nathan McPherson, fratellastro della scomparsa. Mi ha offerto un sacco di soldi per dargli una mano, deve essere uno ricco.
Di nuovo si zittisce e mi fissa come immagino che gli investigatori del KGB fissassero le loro vittime, quando quelle erano sul punto di confessare.
Ma cosa si aspetti che confessi?
- Di certo non lo conosco allora, non ho amici ricchi. E non ho fratellastri – gli faccio notare, imitando un sorriso che deve riuscirmi decisamente male perché Phil allarga il suo sorriso subdolo.
- Da quanto sei a New  York? – mi domanda, cambiando discorso.
- Circa un mese…
Lui si gratta il mento con fare pensieroso, come un investigatore che mette insieme i pezzi del caso. E anche se so di non avere nulla da nascondere, all’improvviso mi sento colpevole per il solo fatto di essere fissata a quel modo e capisco come mai alcune persone confessino reati mai commessi.
- Appena il tempo di sparire da un villaggio sconosciuto, toglierti quei nei e venire a lavorare da me – ipotizza e non riesco a trattenere una risata.
- Phil, ti posso assicurare che ho trascorso i ventitré anni precedenti a Staten Island, in un appartamento poco più grande della mia automobile. Quella ragazza non sono io, gli somiglio solamente – ribadisco, questa volta con un tono più convinto.
Lui mi fissa ancora un po’, indeciso se credermi o meno.
- Ho letto da qualche parte che ognuno di noi ha sette sosia nel mondo. Io ne ho appena trovato uno, probabilmente – insisto, mentre riprendo poco a poco la mia tranquillità.
È ovvio che non sono io, so riconoscermi in fotografia e sono assolutamente certa di non aver mai sentito nominare Millers Lake. Certo, la somiglianza è sconcertante ma solo una coincidenza. Così come il fatto che abbia un nome quasi identico al mio.
All’improvviso mi viene in mente, però, un’altra strana coincidenza.
- Come mai questo McPherson si è rivolto proprio a noi? Non credo che New York sia nei paraggi di casa sua e nemmeno che a qualcuno in città importi molto di una tizia che scompare a Millers Lake.
Phil riprende quel suo sorriso da squalo.
- Pare che la matta di paese ripeta da settimane il nostro indirizzo e alla fine il ragazzo si è deciso a controllare, nell’eventualità che la sorellastra avesse detto accidentalmente alla pazza dove si trovava.
Di nuovo mi fissa con fare indagatore e di nuovo, senza nessun motivo, la mia sicurezza vacilla.
Certo, questa è ancora più difficile da spiegare come una coincidenza. Una matta che ripete l’indirizzo di un posto dove lavora la sosia di una tizia scomparsa che ha un nome quasi identico. C’è da metterci su la puntata di qualche show.
E da come mi fissa Phil, credo che anche lui abbia avuto lo stesso pensiero.
- Anche se dovessi credere che questa Abigail non sei tu ma una tua sosia dalle mille coincidenze, potrebbe essere una storia interessante per i nostri lettori… - lascia cadere lì, come un vago suggerimento.
In realtà, dal momento che ne ha accennato, sono sicura che ha già pensato a tutto, compresa l’impaginazione di una storia che probabilmente si sta inventando di sana pianta, sulla base di qualche scherzo del destino. In fondo, quasi il quaranta per cento delle storie che pubblichiamo nasce così, qualche buffo caso unito a tanta, tanta immaginazione.
- Ammesso che quella non sei tu, diciamo due o tre anni fa, prima di un’operazione al viso per togliere i nei e lenti a contatto, una tipa scomparsa che viene cercata dalla sua sosia potrebbe proprio attirare l’attenzione.
Di nuovo, mi muovo a disagio sulla sedia, senza sapere esattamente cosa dire. Di solito, contraddire Phil su un servizio è un ottimo modo per farsi licenziare e io ho disperatamente bisogno di soldi in questo momento, se voglio tenermi la stanza dove vivo. Inoltre è evidente che questo servizio non si può fare senza di me e aspettavo un’occasione come questa da quando ho finito il college.
D’altra parte, quando Phil comincia un servizio, lo porta a termine sempre e comunque, il che vuol dire che ci sono alte probabilità che finisco il mio primo pezzo in un letto di ospedale, dove mi avranno spedito parenti incazzati dopo aver letto assurdità e fesserie di ogni genere. Qui non si tratta del solito furto di piccolo conto o dell’omicidio di prostitute di cui non frega niente a nessuno.
- Creeremo una sezione web invece della solita rubrica, così potremo inserire notizie ogni momento e creare una serie di contest per i lettori. “Credi che siano due sosia o una fuga da un oscuro passato?” “Credi che sia viva o morta?” – continua intanto Phil, con la mente che lavora forsennatamente. Riesco quasi a vedere i passaggi di corrente tra i neuroni.
- Posso chiamare Wade, è bravo con queste cose – continua intanto il mio capo, in preda a una euforia che lo fa sembrare un po’ esaltato.
All’improvviso, poi, Phil ha una specie di piccolo sussulto e torna a voltarsi verso di me, come se si fosse appena ricordato che ci sono anche io nella stanza.
- Quando vuoi partire? – mi domanda, in tono sbrigativo.
- Veramente…
Non voglio partire affatto. Era questo quello che stavo dicendo. Ma mentre le parole non hanno ancora raggiunto la mia bocca, penso che è l’occasione che aspettavo da tutta la vita e non posso lasciarmela sfuggire solo per qualche scrupolo. In fondo, ormai Phil ha saputo della faccenda e in un modo o nell’altro la sfrutterà ugualmente, quindi perché sputare in faccia alla fortuna? E poi non è detto che ci sarà bisogno di ingannarli molto…
- Parto solo se sarò io a fare il servizio – dico perciò, cercando di assumere lo stesso tono autoritario del mio capo.
Come previsto, non è che l’inizio di una lunga discussione che sembra protrarsi per ore (e che in realtà dura appena quarantotto minuti) ma alla fine, non so nemmeno come, riesco a spuntarla. Più o meno.
In realtà, non sarà la mia firma a completare l’articolo ma figurerò come assistente e co-redattrice del pezzo e potrò usare le credenziali del giornale per ottenere le mie informazioni. Tutto questo, sfortunatamente, sotto il controllo di un reporter free-lance che collabora col giornale da qualche anno e che pare avere molta esperienza in fatto di eventi on-line.
Non è il massimo, ma è pur sempre qualcosa. E poi sarà la mia faccia ad essere associata alla storia e questo mi assicura una buona percentuale di pubblicità. Se la storia dovesse risultare interessante (e ho come il presentimento che Phil ci riuscirà) potrebbe essere il mio trampolino di lancio.
Esco perciò raggiante dall’ufficio del capo e mi dirigo nuovamente alla mia scrivania, dove comincio subito a raccogliere tutta la mia roba, sotto lo sguardo morboso di Mel che forse cerca qualche lacrima sul mio viso.
In effetti, sono stata dentro così a lungo e abbiamo alzato la voce così tanto, che probabilmente la mia insopportabile collega di fotocopie pensa che sia stata licenziata e io non mi prendo la briga di informarla del contrario. Sarà divino quando scoprirà che invece si tratta di una specie di promozione, specialmente perché avrà detto a tutto l’ufficio che mi hanno licenziata e farà la figura della contaballe, il che è piuttosto vero.
Con lo scatolone tra le braccia, mi fiondo giù per le scale, con la mente piena delle cose da fare nei prossimi giorni.
La mia partenza è stata stabilita tra una settimana esatta, il che vuol dire che ho sette giorni per trovare qualcuno che badi alla casa, compreso il gatto e le piante, rassicurare mia madre che non parto per un servizio suicida nelle zone di guerra e prendere i contatti che mi serviranno una volta lì.
Inoltre devo chiamare questo McPherson per fissare un appuntamento di persona e poi fare qualche ricerca sulla mia presunta sosia. L’idea che io possa avere una gemella è forse meno improbabile di quanto sembri, considerato che sono stata adottata. Magari quelli dell’adozione hanno fatto confusione, oppure…
Salgo al volo su un taxi (che credo di aver rubato a un tizio che mi sta agitando un pugno contro dal marciapiede) e do l’indirizzo di casa mia, poi chiamo il fratellastro della mia sosia, per chiedergli un incontro e conoscerci. Mi sembra il minimo incontrarlo di persona, visto che sto per stravolgergli la vita per qualche giorno.
- L’ha trovata? – risponde dopo un po’ una voce maschile leggermente nasale. Non chiede nemmeno chi parla.
Tossisco imbarazzata e mi presento, spiegandogli brevemente l’idea del servizio per il giornale, poi gli chiedo se ha il tempo per un caffè. Posso sentire la sua delusione persino attraverso il telefono.
Lui, comunque mi propone un bar che conosce e mi chiede se so arrivarci. Lo rassicuro e ci mettiamo d’accordo sull’ora, quindi lo saluto e chiudo la comunicazione, in preda a una brutta sensazione di disagio.
Che cosa dovrei dirgli se mi chiede come possiamo aiutarlo? La verità è che possiamo far ben poco per rintracciare persone scomparse, non siamo mica investigatori, perciò di fatto avremo poche possibilità di avere informazioni che non possa avere anche da solo. Quasi spero che sia un tizio antipatico e maligno, così che mi sarà più facile distorcere un po’ i fatti per avere la mia storia.
Intanto sono arrivata a casa emi fiondo direttamente in bagno, dove faccio una doccia rapidissima e mi vesto con quello che spero essere un abbigliamento professionale, poi chiamo mia madre per mettere a parte anche lei dei miei progetti per i prossimi giorni.
Come mi aspettavo, parte una lunga sfilza di domande alternate a preghiere che io ascolto mentre applico giusto un velo di trucco. Quando finalmente finisce il fiato, la interrompo per domandargli della possibilità che io abbia una gemella.
- Non che io sappia. Immagino che l’assistente sociale dell’epoca ne avrebbe accennato durante la pratica, se ne avessi avuta una.
Già, come pensavo. Eppure questa volta sono io ad essere delusa, anche se solo pochino. In fondo, non è che io mi sia impegnata a cercare le mie origini e cose simili in questi anni, però… per un po’ mi aveva solleticato l’idea di avere una sorella, da qualche parte non troppo lontano, qualcuno che fosse davvero sangue del mio sangue.
Intanto mia madre riprende un’altra lunghissima serie di raccomandazioni, poi finalmente mi saluta, strappandomi però la promessa di cenare da loro prima di partire, quindi mi lascia libera di accendere il computer e cercare qualche informazione sulla mia prossima destinazione.
In realtà, Llittletown è talmente piccola che non trovo quasi niente nel web, solo un nome piccolissimo su Google Maps, a ridosso del Millers Lake, che non avevo mai sentito nominare e che scopro ora essere nello Stato del Michigan, a quasi settecento miglia da NY.
A giudicare dalle immagini satellitari, comunque, mi meraviglio che abbiano pensato di assegnare a quel cumulo di case un nome tutto suo, visto che la sua superficie sembra essere grande quanto il mio isolato.
Per qualche momento mi abbandono allo sconforto: il mio primo servizio vero è un’assoluta perdita di tempo.
Che senso ha cercare una storia interessante in un posto che non conta più persone del mio presepe di Natale (e il mio presepe non va molto al di là della capanna del Gesù bambino)? Cosa può mai esserci che valga la pena di scoprire in un posto così piccolo che il nome Littletown è addirittura un’esagerazione?
In tutta sincerità, non mi meraviglia affatto che una ragazza giovane e carina abbia deciso che non ne poteva più di quel posto e che era meglio ricominciare dove c’era la vita vera. Io sarei fuggita già intorno ai dodici anni da un buco così…
All’improvviso il mio cellulare si mette a suonare, strappandomi dai miei pensieri. Guardo il numero che compare sul display ma al suo posto c’è solo la scritta “numero sconosciuto”. Dannazione!
Per un secondo penso se non sia meglio non rispondere e smettere di dare soddisfazione a questo sconosciuto molestatore, ma poi penso che potrebbe essere McPherson che, giustamente, preferisce non dare il suo numero a una giornalista, perciò premo la cornetta verde e rispondo.
- Sono Aaron Wade, a quanto pare passeremo insieme un bel po’ di tempo nei prossimi giorni – mi dice una voce sconosciuta, lasciandomi interdetta per qualche secondo, prima di ricordare.
- Wade, sei l’altro giornalista di cui parlava Phil.
Dall’altra parte della linea sento una risata.
- Come no, piccola. Ho parlato con Phil fino a poco fa. Io sono l’unico giornalista in circolazione, tu sei la scocciatura che devo sopportare se voglio guadagnare – mi rettifica.
Per fortuna stiamo parlando per telefono, perché altrimenti questo idiota saprebbe come le mie guance sono avvampate. Chi si crede di essere per trattarmi in questo modo?
- Sono l’unica ragione per cui il servizio può essere fatto, se ci sarà un servizio da fare – gli faccio notare gelida, ma ottengo solo un’altra risata.
- Chiaro. E per quanto riguarda il servizio, credimi, si farà. Aaron Wade non perde tempo e nemmeno Phil.
Perfetto, la mia balia è un coglione gonfiato a stupidità compressa. Forse sarebbe meglio rinunciare in questo preciso momento all’incarico e al diavolo le opportunità. L’unica cosa certa che guadagnerò da questa storia, se lavoro con un simile idiota, è un ulcera.
Ma poi mi viene in mente che forse Phil l’ha fatto apposta ad affiancarmi proprio questo Wade, per convincermi a mollare e non insistere oltre. Ce lo vedo benissimo, quell’infido spregevole a ridere della sua stessa pensata mentre chiama questo tizio. Anzi, forse lo ha istruito perché si comportasse intenzionalmente da stronzo.
Quindi decido che non sarà l’arroganza fatta persona a farmi rinunciare al mio primo incarico da giornalista.
-Nemmeno io perdo tempo, quindi perché non mi dici perché mi hai chiamato? Ho un appuntamento tra meno di un quarto d’ora – taglio corto.
- Pensavo che sarebbe meglio lavorare a questa cosa un momento, prima di fiondarci nel paese delle meraviglie. Studiare la storia, fare qualche ricerca. Non voglio che mi combini casini mentre sto lavorando.
Be’ di sicuro, se è stato Phil a chiedergli di comportarsi da deficiente, questo qui ha proprio del talento come attore. Che storia dovremmo studiare se non abbiamo nessuna storia ancora?
Lui coglie la mia esitazione e sbuffa, come se fosse troppo impegnato per restare al telefono con me.
- Senti, pivellina, se vuoi imparare a fare qualcosa nel tuo mestiere, ti conviene venire all’Ontheroad, sulla 20th Street verso le sette. Io comincio anche se non ci sei.
Dopodiché il mio simpatico collega chiude la comunicazione, senza nemmeno darmi il tempo di rispondere e io resto talmente interdetta che fisso per qualche istante il telefono, come se mi aspettassi che richiamasse per darmi una spiegazione. Ovviamente non succede niente del genere.
Di nuovo mi domando se voglio davvero lavorare con uno così, a prescindere che sia o meno una trovata del mio capo, ma un’occhiata all’orologio mi avverte che non ho tempo ora per prendere una decisione.
  
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