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Autore: radioactive    10/07/2014    0 recensioni
Erano le sue mani nei miei capelli, le sue mani nelle mie, le sue mani ovunque che mi cercavano per paura, tristezza, angoscia – e anche felicità. Annie rideva quando c’ero io e il Distretto credeva che fosse una sirena a farlo, ai confini del nostro mare.
Il lettino mi avvolge in un abbraccio morbido ma non umano. È un caldo che fa sudare e piangere allo stesso tempo. L’immagine di Annie è accompagnata da una canzone triste che ricorda i disegni delle barche nel cielo di notte. Sono debole e stanco e l’unica cosa che riesco a fare è piangere e pensarla. Pensarla mentre si lascia baciare sulle guance e sulla fronte e sulle labbra, mentre le accarezzo i capelli o sgranocchia un biscotto. La penso che si rigira nelle coperte o che guarda una conchiglia caduta dal tavolo, andata in mille pezzi, e si rivede in quei cocci cadendo a terra anche lei. Piange, Annie, quando qualcosa crolla. Si abbraccia come se volesse rimanere intatta, per non perdersi, poi mi chiama – Finnick – è un sussurro.

• Long-fic ambientata durante gli avvenimenti di MJ con il focus sull'introspezione di Finnick ed Annie.
• Il rating potrebbe salire.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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CAPITOLO DUE.

 

 

Annie mi svuota.

Ogni suo sorriso o carezza o semplicemente respiro mi ruba qualcosa. Unisce le mani a conca e mi raccoglie come se fossi acqua di mare, come se fossi sabbia. Si allontana e dalle sue dita vedo i brandelli di me che cadono a terra – e io che mi chino a raccoglierli, tutte le volte.

Mi accorgo solo ora che lei non c’è, solo adesso che ho tutto me stesso, di quanto mi manchi quella sensazione. Lo stomaco così leggero da essere inesistente, un cuore trasportato dalla marea e i polmoni sul punto di esplodere tanta aria c’è dentro. Guardavo Annie e ogni preoccupazione se ne andava, perché lei era l’unica e mi andava bene così. Erano brividi di piacere quando i suoi capelli che mi sfioravano il collo e sorrisi quando ero io a passare le dita sulle sue labbra secche dal sole e dal sale. Erano le sue mani nei miei capelli, le sue mani nelle mie, le sue mani ovunque che mi cercavano per paura, tristezza, angoscia – e anche felicità. Annie rideva quando c’ero io e il Distretto credeva che fosse una sirena a farlo, ai confini del nostro mare.

Il lettino mi avvolge in un abbraccio morbido ma non umano. È un calore che fa sudare e piangere allo stesso tempo. L’immagine di Annie è accompagnata da una canzone triste che ricorda i disegni delle barche nel mare di notte. Sono debole e stanco e l’unica cosa che riesco a fare è piangere e pensarla. Pensarla mentre si lascia baciare sulle guance e sulla fronte e sulle labbra, mentre le accarezzo i capelli o sgranocchia un biscotto. La immagino che si rigira nelle coperte o che guarda una conchiglia caduta dal tavolo, andata in mille pezzi, e si rivede in quei cocci cadendo a terra anche lei. Piange, Annie, quando qualcosa crolla. Si abbraccia come se volesse rimanere intatta, per non perdersi, poi mi chiama – Finnick – è un sussurro.

Si alza con me, piano, le gambe molli e storte come se avesse appena scoperto di averle e non le sapesse usare. Si stringe alle mie spalle e si morsica il labbro. Non parla più, non piange più.

E io rimango lì, lascio che raccolga qualcosa da me per tapparsi i buchi, per ricostruire il proprio guscio. Mi fermo e la guardo mentre sta appoggiata sul mio petto e disegna cerchi sulle mie mani. Rimodello il mio cuore per annullare gli spifferi rimasti dai pezzi che Annie mi toglie – e quando l’aria fredda cerca di entrare mi basta alzare lo sguardo e specchiarmi nei suoi, di occhi. Il sole ritorna ad accarezzare la superficie del mare e va di nuovo tutto bene.

Vivo per farla splendere. Perché il riflesso delle stelle sull’acqua è più brillante e prezioso.

Annie mi ha lasciato il suo ricordo. Una scia di polvere di stelle che mi ha marchiato il cuore.

 

La stanza d’ospedale è un cubo bianco e il soffitto è diventato il mio migliore amico.

Quando non sono al Distretto o nel buio delle mie palpebre la luce al neon mi guarda, aspettando che dica qualcosa. Ma fissare troppo a lungo la lampada mi fa lacrimare gli occhi e sono costretto a chiuderli.

Un urlo squarcia il ronzio dei pochi macchinari che ci sono, sento una linea elettrica attraversarmi il corpo dalla testa ai piedi e balzo a sedere, nella confusione di tutto il reparto: in fondo alla stanza, nell’angolo opposto al mio, una ragazza si agita sul letto facendo volare le coperte e i vari fili e tubi vicini a lei. I suoi capelli si agitano nel nulla raccolti in quella che penso sia una treccia, la sua carnagione spicca nell’infinito bianco intorno a lei.

«Serpenti!» dice, la sua voce è familiare ma ovattata dal ronzio che ho nella mia testa, «ci sono dei serpenti!» continua. Ritorno steso, scivolando sulle lenzuola mentre il fantasma delle onde del mare accoglie i miei piedi, poi le mie gambe, supera l’ombelico e mi costringe a trattenere il respiro per il freddo. Sono nell’acqua, ora, con il sale che mi tiene a galla – il sole raggiunge il mio viso e il resto del corpo. Quello nella mia testa non è rumore, ma il suono del mare.

Vengo trascinato lontano, sperando di raggiungere le rive del Distretto 4.

 

I giorni passano ma il sole non arriva mai, in questa stanza.

Mi danno una giacca di lana da mettere sulle spalle, una donna mi pettina i capelli e mi sorride con fare dolce. Abbasso gli occhi, socchiudo le palpebre e respiro piano, contando tutte le volte in cui i miei polmoni si riempiono.

Quando arrivi a dieci puoi andare. Mi dico, ripetendo le parole del dottore. Alzo un dito ad ogni respiro e quando ho le mani bene aperte mi metto in piedi.

Sento una mano dietro la schiena e una sotto al gomito. Mi aiuta a sollevarmi anche se sono perfettamente in grado di farlo – accompagnandomi fino alla mensa. Oggi mangio con gli altri, lo dicevano come se fosse una conquista, qualcosa di cui andare fiero. Non ci sono vittorie per me, che ho lasciato Annie in balia di Capitol City.

Sento un dolore al petto che mi fa piantare i piedi al pavimento, vorrei strapparmi la camicia dell’ospedale e aprirmi il torace, afferrando quel poco che è rimasto del mio cuore e donarlo ad Annie, in modo da farla resistere fino a quando qualcuno andrà a prenderla.

Devono andare a prenderla. O almeno prendere Peeta – se non è morto – e quando vedranno lei la raccoglieranno da terra. Come ho fatto io che la raccoglievo dal pavimento della sua stanza dopo la sua vittoria ai Giochi.

La mano senza corpo dietro la mia schiena mi dà un colpetto, automaticamente riprendo ad avanzare verso la mensa. Ma è Annie quella che ho in testa: Annie e le sue paure, Annie e i suoi pianti, Annie e la sua disperazione mentre rimane bloccata e trema senza accorgersene. Annie che ha bisogno di abbracci e sussurri per essere calmata ma che ora non ha niente. Sarà ancora a terra, appoggiata a quelle lenzuola senza profumo mentre dalla finestra vede le luci brillare e le persone del Distretto ignare del dolore che Annie ha dentro. Perché non è stata la testa del suo compagno di Distretto ad essere tagliata via, ma la sua.

La ragazza pazza del Distretto 4.

«Puoi sederti qui» mi indica la donna, ubbidisco perché so che se sto in piedi potrei cadere a terra in un milione di pezzi.

Alzo il volto e vedo Katniss con i capelli raccolti all’indietro e il volto ancora più inespressivo del mio. Poi colgo la rabbia nei suoi occhi e la confusione in quella linea sottile delle sue labbra. La disperazione le ha scavato il viso e mette in risalto gli zigomi più di quanto non lo fossero già. Il suo camice bianco racconta che è ancora in ospedale – come me.

Siamo due Vincitori che avrebbero preferito morire nell’Arena.

Ricordo il pavimento bianco e poi un tappeto di serpenti che lo ricopre ma che solo lei vede. Le urla erano le sue e se parlasse le risentirei. Le sono grato per stare in silenzio.

Gale si siede vicino a lei, posandole davanti un vassoio. Katniss non reagisce e vorrebbe sparire piuttosto che essere ancora lì, ma prende il cucchiaio e inizia a spezzettare la carne che si trova davanti. Si fa forza.

L’infermiera mi serve allo stesso modo e il pezzo di carne mi guarda, lasciando decidere a me il suo destino. Mi guarda come faceva la lampada sopra di me.

Non ho la stessa forza di Katniss, non riesco nemmeno a mangiare qualcosa per non morire. Chiudo gli occhi sentendo le lacrime che vogliono uscire, mi premo le mani sulle palpebre e il mio respiro  rimbomba nella mia testa. Devo essere forte? No. Non devo niente a nessuno. Se faccio qualcosa è solo per Annie, ma qui – al 13 – è tutto inutile. Mangiare non l’aiuterà a stare meglio.

«Ciao Finnick».

Voglio tornare nel mondo dei sogni, rimanere sulla sabbia del Distretto con Annie che dorme appoggiata sul mio petto. Voglio il suo respiro che mi sfiora la pelle e le sue mani che stringono la mia maglia. Voglio tutto quello che non posso avere.

«Ciao Finnick».

E questo posto fa schifo – perché lei non c’è. Annie è un fantasma che mi aspetta sul lettino dell’ospedale per abbracciarmi e dirmi che un giorno ritornerà. Le sue parole sono frasi che conosco, la raccolta di tutto quello che mi ha detto da quando ci siamo conosciuti. Finnick, il mio nome è più bello quando lo dice lei – è meno sporco di sangue e profumi di Capitol City. È il Finnick prima dei Giochi e dei segreti.

«Finnick».

Batto le mani sul tavolo quando Gale mi chiama. La sua voce è tremenda e troppo alta per il mio livello di sopportazione. Stringo i denti e sento le lacrime scavare sulla mia pelle: non fanno altro da giorni. Bruciano le cellule che sfiorano e ogni mio nervo trema per il dolore.

La mia schiena si incurva mentre le vertebre gemono e grattano contro quelle vicine. Sono un puzzle troppo debole per rimanere intatto a lungo e al primo soffio mi spezzo. Tutti si affrettano a raccogliermi ma nessuno sa come rimontarmi.

I rumori mi confondono e mi tappo le orecchie rendendo tutto più ovattato, sento il sangue che scorre e mi ricorda che sono ancora vivo. Che forse anche Annie lo è – che magari c’è una possibilità.

Delle mani mi afferrano facendomi alzare dalla sedia, non controllo i miei movimenti ma sento la schiena rigida e il mio corpo sembra di plastica dura e incolore, perché nessuno sembra vedere quanto sto male. Sono un cumulo di ossa disperate che vuole gridare ma non riesce e allora piange per tutto: perché la missione della sua vita non l’ha portata a termine, perché non ha raggiunto il lieto fine, perché se stanno maltrattando Annie alla Capitale sarà per colpa sua.

La mia schiena incontra il materasso e non so da quanto tempo sono steso sul lettino. Spalanco le palpebre e oltre il velo di lacrime c’è il soffitto familiare dell’ospedale.

«Non è ancora pronto».

Non lo sono.

«E adesso che si fa?».

Si riporta indietro Annie. Qui. Con me. In modo che possa abbracciarla e dirle che va tutto bene, che finirà tutto presto e stavolta per sempre. Non ci sono Giochi da giocare o Mietiture da sopportare.

Il mare non scappa e aspetta solo noi.

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE

 

Una settimana esatta, ed eccomi qui.

Questo capitolo non avrà note lunghissime, perché non mi piace (soprattutto dopo che ho scritto il capitolo dodici, eh…) – ma andiamo avanti.

Di… “importante” c’è da sapere che la scena dei serpenti è stata scritta dalla Collins, per chi non ricordasse, Katniss dice che durante la sua convalescenza ha avuto parecchi deliri ed allucinazioni e, una di queste è stata – appunto – il vedere il pavimento dell’ospedale coperto di serpenti. Ho voluto aggiungerlo semplicemente per tenere la storia ben ancorata alla trama del libro.

Inoltre, la prima parte della fan fiction – just leave me your stardust to remember you by conterà 11 capitoli e saranno aggiornati circa quasi una volta a settimana (come questa volta). Ma essendo avanti a scrivere sarete sempre informati uwu

Detto questo, grazie per essere arrivati fino a qui e buona giornata

      

       radioactive,

 

 

Un gentile ed onesto grazie a:

Tutto il gruppo di Ultraviolenceh (♥) con cui parlo sempre volentierissimo ogni giorno e mi trovo bene – cosa complicata di questi tempi.

Singolarmente, ringrazio Deb per essere stata la prima con cui ho trattato l’argomento “fan fiction” che poi si è evoluta in B&B; LaGattaImbronciata perché «Finnick per te è come Peeta per me» e perché ha coniato il mio termine preferito (disagimantica).  Le ringrazio anche come Il Pavone  e la Piantana – per Colors, per avermi permesso di fare i banner a tutte le storie che pubblicano in quella serie e per la concessione di Boats and Birds, che considero (forse con un po’ troppa modestia) una sorta di piccola costola di Colors. Una figlia illegittima ecco, magari anche un tributo al vostro lavoro.

In tutti i casi, qualsiasi cosa io faccia spero che teniate presente che è “giustificato” (che brutto termine in questo contesto) dalla massima stima che ho verso di voi.

Gabryweasley, che è diventata la nostra mascotte, ma ci fa sempre urlare ed esultare quando si fa sentire. Solo buone cose (e attenta quando fai gli esercizi sulla palla!)

E ultima ma non meno importante, yingsu, con cui ho passato – fino ad ora – tre anni stupendi, a cui auguro tutto il bene del mondo magari insieme a me, eh e che non abbandonerò mai, neanche se dovessi fare una rivoluzione per ribaltare la politica dell’Italia e tu fossi la ragazza pazza del mio Distretto. Lo so che hai una sorta di indigestione di Hunger Games, ma non posso fare a meno di citarti per tutto il bene che mi fai.

Ovviamente, un saluto va anche a tutto il gruppo di A Panda piace fare le bolle d’assenzio, che mi tengono occupata (anche quando non devono), magari qualcuna di voi si metterà a seguire questa fic, chissà

 

I pezzi di Mockingjay che trovate ogni tanto all’inizio dei capitoli sono tratti dalla traduzione del libro da parte del blog fromabooklover.blogspot.

   
 
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