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Autore: Soqquadro04    10/07/2014    3 recensioni
[AU!Delena – tutti umani | Tematiche piuttosto delicate (kainotetophobic!Elena & cherophobic!Damon | OOC]
[…] L'uomo-in-ritardo compare quella mattina nuvolosa, con i suoi occhi azzurri stanchi e il passo incerto di chi dentro la vita ci zoppica, ormai – le si siede davanti e la stupisce, una pressione sottopelle perché non l'ha mai visto in città, e non la riconosce, le chiede un bicchiere di bourbon con una voce che non avrebbe mai pensato potesse essere sua, bassa e graffiante come quella di un fumatore.
Elena è terrorizzata dal cambiamento, in qualsiasi sua forma – ma lui è arrivato un giorno d'estate e niente è stato più lo stesso (ancora non lo sapeva, perché il loro primo incontro non è neppure un incontro, è un sorriso non ricambiato in un sala d'aspetto – quando la vita ti mette davanti il tuo futuro tu non te ne accorgi mai fino a che il momento non è passato).
Damon ha paura di cedere alla felicità, di lasciare ancora il cuore a quello che il mondo gli ha dimostrato di essere – troppe persone se ne sono andate e troppi momenti gli hanno distrutto l'anima, eppure lei rimane.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Autore: Soqquadro04
Disclaimer: se fossero miei mi odierebbero per questa cosa, ne sono abbastanza sicura – anche se comunque non posso aver fatto peggio di quelli a cui appartengono per davvero.
Generi: Malinconico, Sentimentale, Romantico, Fluff (forse)
Avvertimenti: AU!Delena (tutti umani), OOC, tematiche piuttosto delicate (kainotetophobic!Elena, cherophobic!Damon)
Rating: Verde
N/A - Note dell'Autrice:
Questa storia è la mia bambina, sappiatelo. L'ho rifinita, cancellata, riscritta, a volte odiata, e ci sono tremendamente affezionata.

È strana, comunque – frenetica, interna, ci sono pochi dialoghi, è molto pensata, quasi completamente un flusso di coscienza. E resta sospesa, non ha neppure una vera fine.
Coordinate di base: la kainotetofobia è la paura del cambiamento, la cherofobia quella della felicità (cosa non pensi quando tua cugina inizia a chiacchierare di psicologia).

Premetto che, nonostante mi sia informata prima di scrivere castronerie improponibili, è comunque possibile che io abbia effettivamente scritto castronerie improponibili. Nonostante le ricerche, non sono un'esperta né pretendo di esserlo, quindi se trovate qualsiasi cosa che è fuori posto/completamente sbagliata/esagerata/assurda/altro, avvertitemi. Non mordo, né mi offendo (per cosa, poi? Perché correggete qualcosa che ho sbagliato? Semmai dovreste offendervi voi, perché non ho ricontrollato abbastanza).

Poi, siccome ultimamente sembra la fiera del “ricicliamo strutture già usate”, stavolta ho preso quella de “L'uomo che aveva gli occhi azzurri”, anche se in realtà qualcosina di diverso c'è. Però la base è sempre lei, ecco.

Gli ultimi dialoghi sono presi direttamente dalla 5x20/5x21 perché mi andava #random <3

Non credo di avere trasformato il tutto in una cosa sul genere “l'amore può guarire ogni cosa”.
… va bene, non sono sicura. Perdonatemi e mi scuso in anticipo per chiunque possa ritenersi urtato, sinceramente – e nel caso avvertitemi. E fustigatemi perché odio causare potenzialmente dispiacere a una persona a causa di un argomento che non ho trattato con la dovuta delicatezza/competenza/attenzione.

Se avete voglia, ascoltate questa canzone mentre leggete - c'entra relativamente, ma è bellissima e quando avevo bisogno di riprendere in mano la storia dopo un po' mi dava una gran carica, quindi diciamo che va bene lo stesso u.u



Note tecniche:
*1 Sì, quella Rose. *dove posso la cito perché sì*

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Phobia

Guardandoti negli occhi ricordo soltanto di aver visto il tuo volto in sogno.
Tagore

 

Hanno spostato l'appuntamento con Rose*1 – hanno chiamato, avvertito, chiesto conferma (sospira e scuote la testa, ringraziando con un cenno del capo Madeleine, mentre il familiare senso d'ansia inizia a risalire in gola, pressante ossessivo costanterespira, è solo un'ora, solo un'ora – e pensa che forse in fondo sarebbe stato – molto – peggio cambiare giorno, quindi riuscirà a farselo andare bene così).

Si lascia cadere sulla poltroncina, sfinita, esausta – quel maledetto caldo non lascia respiro, una cappa pesante e avvolgente e umida come solo la Virginia in estate può vantare.

A quanto ha capito, si è aggiunto un altro paziente alla lista e, a quanto pare, l'unico modo per riuscire a infilarlo è stato ritardare di un'ora tutti gli altri appuntamenti del martedì – sono cinque anni (otto mesi e sedici giorni) che la sua seduta è il martedì alle cinque e adesso dovrà riorganizzare un po' tutto ma va bene così, non è un problema così enorme.

Scruta i volti sconosciuti che la circondano – altri clienti, altre persone. Le piace arrivare in anticipo di una mezz'ora, di solito – ha conosciuto una signora tremendamente gentile e adorabile, piccolina e tonda come una mela, con cui condivide biscotti e the da un thermos rovinato (le ha detto che suo marito è morto da poco – meno di un anno – e che le manca così tanto, che fa ancora così male) –, per chiacchierare un po' con gli altri pazienti in attesa – alcuni sono diventati più che conoscenti, altri quasi amici, alla fine. Ma ora è fuori dal giro, altra gente, altre storie.

Non sarebbe niente se lei non fosse lei – non è niente anche se lei è lei (ferma, convincente – ha sopportato di peggio, deve semplicemente spostare un paio di appuntamenti il martedì, non è nulla).

La kainotetofobia l'accompagna da quando i suoi genitori sono morti – aveva diciassette anni e ricorda le sirene e i lampeggianti rossi e blu, ricorda che quella notte pioveva (ricorda che aveva sentito suonare il campanello e aveva già intimamente compreso, anche prima di aprire la porta, anche prima che il mondo le si sgretolasse fra le mani – dopo le dieci di sera non sono mai buone notizie).

Ora di anni ne ha ventitré e sa che sono quelli che restano che hanno paura – sa anche che è sempre stato un tratto latente del suo carattere, quel suo essere restia ai cambiamenti, che il trauma l'ha fatto scoppiare, e le fobie sono amanti gelose, qualcosa di crudele che ti si scatena dentro senza che tu possa fare nulla per fermarlo (e, all'inizio, l'aveva resa niente più che uno degli aborti fragili del mondo, una ninfa magra di nervi e ossessioni – lacrime paura domande sussurrate urlate al cielo notti abbracci angoscia –, nel petto i cocci di un cuore e la testa incapace di accettare qualsiasi dettaglio che non fosse assolutamente com'era stato).

L'analisi l'aveva aiutata – è l'unico modo per tenere sotto controllo una malattia come la sua (probabilmente dovrà rimanerci tutta la vita, ad aspettare in quell'anticamera opprimente le sei del pomeriggio dei suoi martedì).

 

Alle sei e venti chiunque abbia preso il suo posto è ancora dentro e lei è un poco inquieta – si agita sulla sedia, Madeleine le lancia un'occhiata di sbieco (la moquette ha ventisette sfumature diverse di azzurro – a seconda di quanta polvere sì è depositata, negli angoli, o di cosa ci sia caduto sopra o di quali mobili siano stati spostati da un punto all'altro; è sorprendente come, quando non c'è nulla da fare, persino il pavimento si trasformi improvvisamente in qualcosa di interessante). Arriccia il naso in un moto di fastidio – almeno la puntualità, si tratta di buona educazione, niente di più.

Non fa in tempo a finire di pensarlo che sente la porta aprirsi col tipico cigolio dei cardini male oliati – alza lo sguardo su un uomo dagli occhi chiari (occhi azzurri, di un azzurro molto diverso da tutti quelli della moquette), alle sue spalle i capelli scuri e svolazzanti di Rose (gli sta sussurrando qualcosa, non capisce – né dovrebbe capire, c'è il segreto professionale, non è gentile origliare, neanche se si tratta di qualcuno che non è stato particolarmente corretto nei tuoi confronti perché venti minuti in più sono parecchi da prendersi; però gli sorride appena, di quel suo sorriso frantumato, pieno, esausto, perché incrocia quegli occhi azzurri-non-azzurro-moquette, solo per un secondo, e ci vede dentro qualcosa che la fa sorridere come quelli che ti dicono che andrà tutto bene anche se lei è una di quelli che sanno che non è così)

Lui non ricambia il sorriso, mentre le passa di fianco, la fronte aggrottata e le spalle pesanti, nemmeno la nota – la urta per sbaglio mentre si alza con la borsa a tracolla, neppure si scusa, Elena aggrotta la fronte e decide che l'uomo-in-ritardo non vale la pena di farsi venire il sangue amaro (Rose l'aspetta sulla soglia, le labbra incrinate e la solita ruga fra gli occhi, scavata nella pelle a forza di ascoltare la gente che va e viene e la carica dei propri problemi per sentirsi un po' meglio, senza curarsi mai di quelli che sono i suoi – dopotutto è il suo lavoro, Elena lo sa, ma a volte le dispiace vederla stanca, stanchissima, senza sapere perché. Sono i giorni in cui la sente più vicina a un'amica che a una psicologa, quando la vede seduta a gambe incrociate sulla poltrona, un giornale fra le mani e la borsa abbandonata sul pavimento, occhiaie pesanti sotto gli occhi).

Non è una di quelle volte – sembra preoccupata ma lei sembra sempre un po' preoccupata, è normale, la rassicura perché quel giorno sono andate storte un po' troppe cose e ha ripensato un po' troppo al passato per poter essere tranquilla e ha già dimenticato l'uomo-in-ritardo.

 

«Scusa per il ritardo, Elena. Qualche problema con il nuovo paziente.»
«Non fa nulla.»
«Come stai?»
«Stanotte ho sognato i miei genitori.»

 

***
 

Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.
Alessandro Baricco – Oceano mare

 

Rivede l'uomo-in-ritardo una settimana dopo, di mercoledì, mentre asciuga distrattamente un bicchiere, lo rimette sullo scaffale, ne prende un altro – il locale è quasi vuoto, pochi avventori sistemati in un angolo lontano a giocare a carte o seduti a un tavolo con un'insalata davanti.

Elena lavora al Grill da quando aveva quindici anni e sua madre l'aveva spronata a cominciare a mettere da parte qualche soldo – per viaggiare, per il college, per la pensione (per qualsiasi cosa, in effetti). Al college c'è andata, la pensione è ancora lontana, viaggiare è fuori discussione – sta bene, lì, in quella cittadina piccola con piccole persone (persone che le sono state vicine tutta la vita – persone come Matt, che le sorride da una parte all'altra della stanza, un sorriso ancora da ragazzino, dal quarterback che era, il suo primo amore e il suo migliore amico; persone come Bonnie e Caroline, quelle amiche che ti rispondo anche se chiami alle tre di notte in preda a una crisi di panico e vengono a casa in cinque minuti perché sanno che essere soli in quei momenti è molto peggio di qualsiasi altra cosa), e allora davvero non capisce perché dovrebbe voler stravolgere quella vita su misura per andare da qualche altra parte.

L'uomo-in-ritardo compare quella mattina nuvolosa, con i suoi occhi azzurri stanchi e il passo incerto di chi dentro la vita ci zoppica, ormai – le si siede davanti e la stupisce, una pressione sottopelle perché non l'ha mai visto in città, non la riconosce, le chiede un bicchiere di bourbon con una voce che non avrebbe mai pensato potesse essere sua, bassa e graffiante come quella di un fumatore.

«Non serviamo alcolici a quest'ora.» in teoria potrebbe ma prova a protestare, sono solo le undici, non è il caso di bere – lui le lancia un'occhiata che non ha bisogno di altre parole, allora si arrende e si mette sulla punta dei piedi per raggiungere la bottiglia, un po' troppo in alto per lei. Rischia di rovesciarla ma alla fine ce la fa, versa tre dita di liquore in un bicchiere pulito e glielo serve davanti, le sopracciglia corrugate.

«Eccoti.» lui la guarda per un istante, un po' più attentamente di quanto abbia fatto fino ad allora, ed Elena crede di vedere un lampo di riconoscimento in fondo alle iridi chiare.

Ne ha la conferma quando lui parla, un tono curioso – no, non curioso, se ne rende conto con un attimo di ritardo (c'è dentro della malizia, una spolverata, un flirt velato – un modo per stuzzicarla o per iniziare a lavorarsela ai fianchi per tentare di portarsela a letto o per tutte e due le cose).

«La ragazza della psicologa – a proposito, scusa per esserti venuto addosso. Non ero molto in me.» increspa solo metà del viso nell'imitazione di una smorfia dispiaciuta, Elena è troppo impegnata a indignarsi internamente per farci caso – al solo pensare di poter essere sfiorata da uno sconosciuto, di avere in casa qualcuno di cui nemmeno sa il nome, quel campanello d'allarme che le inietta la paura nelle vene ha iniziato a trillare come impazzito, la nausea che le sale in gola (non perché l'uomo-in-ritardo non sia di bella presenza, al contrario – assomiglia a un modello delle vecchie riviste patinate, una bellezza fiorente, lineamenti magnetici nel significato più puro del termine, uno di quegli uomini che vengono definiti belli per antonomasia).

Si tira indietro come se l'avesse scottata, risponde bruscamente – vede una sua occhiata confusa, il volto rimodellato dalla sorpresa.

«Proprio io – e non fa niente. Davvero.» la agita averlo davanti, non lo conosce e lei conosce tutti in quella sua minuscola città, pensava fosse solo un altro viso da catalogare a Richmond e invece eccolo lì, qualche ruga attorno agli occhi – dev'essere più grande di lei, forse sulla trentina, ha la pelle chiarissima e scuri capelli di petrolio, ciocche arruffate, sfibrate.

Sta per voltarsi e tornare a quello che stava facendo, indispettita – lui fa un movimento improvviso, rapido, la prende per un polso, per trattenerla (tira la mano indietro di scatto, il cuore che pulsa nella gola, è grata che lui non insista, forse perché vede qualcosa, guardandola negli occhi, che gli sussurra dentro la sua stessa canzone).

Ancora il timbro roco di tabacco e saliva bruciata – tutto il resto del mondo sembra silenzio, lui sembra quasi più dolce, ha capito qualcosa che lei non afferra.

«Scusami – veramente. Io sono Damon, comunque.» sorride al pensiero che allora l'uomo-in-ritardo ha anche un nome – lo vede scrutare il suo sorriso, che non è neppure un vero sorriso, giusto un accenno di leggerezza sulle guance.
Stringe le labbra, poi – gli mormora il suo, di nome, sottovoce, senza guardarlo negli occhi.

«Elena.» l'uomo-in-ritardo – Damon – alza il bicchiere nella sua direzione e brinda con uno sguardo – beve con eleganza, un paio di sorsi lunghi, il respiro di fuoco.

«Alla tua salute, Elena.»

 

Due ore dopo Damon se ne va – ubriaco, probabilmente – e lei finisce il suo turno – appende il grembiule al gancio nel suo armadietto, nel retro, liscia con le mani il cardigan verde, un po' stropicciato dopo che non si è preoccupata di piegarlo (si sono scambiati solo qualche altra parola, un paio di volte lui per chiederle da bere, per un paio di domande di cortesia – ha risposto con il caldo che le si appiccicava addosso, le mani nell'acqua, una scintilla di curiosità nei suoi confronti; non gli ha chiesto perché è da Rose, lui non l'ha fatto con lei, e le fa paura sentire qualcosa nel petto che assomiglia a una vertigine; le fa più che paura, la immobilizza nello spavento). Torna a casa a piedi, si ferma a fare le spesa – sbuffa quando si accorge di avere dimenticato le chiavi, spera che Jeremy sia in casa (c'è – l'aiuta a portare le borse in cucina, Jenna è seduta in salotto a leggere un libro, le dice che domani sera a cena ci sarà anche Alaric, con un vecchio amico tornato in città da New York; si era trasferito una decina d'anni prima, erano buoni amici, vuole fare una rimpatriata).

Annuisce e, ancora una volta, non ci dà peso – stavolta sta pensando all'uomo-in-ritardo e alla sua gola mentre deglutiva, a quella ferocia sofferente negli occhi, verso il mondo, verso la vita.

 

«C'è un uomo, ultimamente – mi spaventa.»
«Ti ha fatto del male, pensi che voglia fartene?»
«No, no, lui... non mi spaventa così. È arrivato di colpo, come una bufera, e sembra spezzato in due dal vento.»

 

***
 

La vita è un'avventura con inizio deciso da altri, una fine non voluta da noi, e tanti intermezzi scelti dal caso a caso.
Roberto Gervaso

 

È una persona silenziosa, Elena – taciturna, una creatura enigmatica dalle iridi scure, qualcosa di segreto dietro le palpebre socchiuse –, quella sera non fa eccezione.

L'amico di Ric è Damon, sorprendentemente – ha aperto la porta, ridendo per qualcosa che le diceva Jenna, e se l'è trovato davanti all'improvviso (ha sentito una morsa allo stomaco e il fiato che le usciva di colpo dai polmoni, lui sta infiltrandosi nella sua realtà con una serie di coincidenze assurde, discreto, costante – colando come miele fra le fessure della sua vita).

Ha sorriso, ha abbracciato Alaric, salutato lui – ora gli è seduta davanti, ragazzina svuotata da un bicchiere di vino in più, al sicuro nel nido confortevole della sua casa, ascolta con un orecchio solo la conversazione (Alaric gli chiede come sta, sottovoce, ha scoperto che di cognome fa Salvatore – lei e suo fratello erano nella stessa classe di Storia alle superiori, quando ha accennato alla cosa l'ha visto irrigidirsi e allora si è chiusa le labbra col fil di ferro).

 

Più tardi lo sente entrare in cucina, c'è solo lei che lava i piatti sovrappensiero – le piace la sensazione delle mani nell'acqua e nel sapone, è familiare, un'abitudine (lo precede l'odore del fumo, soffocante, rude, inaridisce la lingua – gli lancia un'occhiata da sopra la spalla, la sigaretta è già spenta fra le sue dita ma la infastidisce ugualmente).

«Potresti almeno aprire la finestra?» non lo vede annuire, la finestra è giusto davanti a lei – lo sente sporgersi per girare la maniglia (corpo contro corpo, per un attimo, un muoversi distratto – poi l'attimo passa, c'è l'aria della notte sul suo volto e Damon Salvatore alle sue spalle).

Se qualcuno li vedesse ora potrebbe pensare qualsiasi cosa – Elena sa che non la sta corteggiando, per nessuno scopo, c'è una vena di tristezza che gli solca il volto, ferite nascoste sotto gli abiti, ci sono solo le distrazioni, l'infatuazione è fuori discussione (fuori discussione).

«A martedì prossimo, allora.»

 

«Come va con l'uomo di cui mi hai parlato? L'hai rivisto?»
«È il migliore amico di Alaric – il compagno di mia zia. Lo vedrò spesso.»
«Ti fa ancora paura?»
«Non lo so. Forse mi dispiace per lui – sembra stare così male, Rose. Mi assomiglia.»

 

***
 

Non lo vede mai il martedì, in realtà, mentre si siede su quella poltroncina scomoda nello studio di Rose e le parla e le racconta cose che non sa nemmeno di pensare – è il mattino dopo, una figura scura appoggiata al bancone, il bicchiere pieno davanti e un posacenere accanto (è un uomo rotto dentro, Damon – polmoni di catrame e la voglia di uccidersi addosso, senza gesti plateali, lentamente, lasciar cedere il fegato –, un uomo che starebbe bene in una vecchia fotografia d'epoca, marinaio sfiancato col destino scritto negli occhi).

A volte parlano.

Verso la fine del suo turno, quando anche gli ultimi clienti se ne vanno, ogni tanto con una bionda appesa al braccio e ogni tanto solo con lo stesso respiro di liquore di lui, afferra uno sgabello e gli si siede di fronte, come sta facendo ora, la testa appoggiata a una mano – chiacchiera del più e del meno, Damon ormai è un'abitudine, quasi un amico (lo vede quasi tutte le domeniche, quando hanno quei pranzi da famiglia allargata – Alaric, lui, Bonnie, Caroline e sua madre, un gruppo traballante, di persone che ne hanno perse altre, persone sole che cercano di essere un po' meno sole).

E lui ha bisogno di essere salvato, in qualche modo – sta annegando, Damon, e lei non sa come fare.
«Che lavoro fai? Non sono ancora riuscita a capirlo – dimmi che non c'entra la mafia.» arriccia il naso, lui stira appena le labbra.

Mormora una risposta senza guardarla, a distanza di sicurezza per un motivo che non capisce – tiene gli occhi fissi nell'ombra dorata del bourbon.

«Niente mafia – solo gente snob col cravattino. Ero proprietario di una galleria d'arte, a New York, ora non faccio nulla.» poi aggrotta la fronte, abbassa la voce, fino a che deve quasi toccargli le labbra per sentirlo, «Una volta dipingevo.» e un sorriso molto più che amaro gli disturba i tratti.

Vorrebbe chiedergli perché ha smesso, si morde la lingua – scavare nel passato non fa mai bene, è solo una palata in più di terra fuori dalla fossa –, si arrende.

«Non più?» stavolta alza lo sguardo, la intrappola con quegli occhi troppo chiari e troppo grandi, con troppe cose nascoste in fondo – le respira sul volto, sono troppo vicini, si allontanano entrambi nello stesso istante.
«No.» non gli chiede perché – lui non le dice che non prende in mano un pennello da sette anni (da Katherine), che il suo lavoro gli gravava addosso come una condanna, soffocando tutto quello che era, quello che è (tutto quello che è stato, una volta, e che non sarà più – e sembra così lontano).

 

«Non puoi salvare tutti, Elena.»
«Lui sì.»
 

***
 

Il vero nome della felicità quaggiù è consolazione.
Henri Frédéric Amiel

 

Non è che Damon non sorrida mai – Elena sa che la cherofobia non è questo, lo sa come può saperlo qualcuno che ha idea di cosa significhi il panico nello stomaco e la testa gettata in confusione, il terrore cieco di rovinare tutto (non gliel'ha detto lui – Alaric ha provato a chiederle un consiglio, a lei, misera viandante a spasso nella vita quanto lui; non ha saputo come rispondergli).

La cherofobia è la sensazione di non meritare, peggio, di non potere – un riflesso pavloviano contro natura, felicità come dolore, serenità come qualcosa di crudele ed estenuante –, qualcosa che ti logora dentro senza lasciarti respiro.

Scappa, Damon – scappa dalla sua stessa vita, ha paura persino di lei, lei che è distrutta quanto lui, che sta cercando di tendergli una mano che trema perché c'è qualcosa, lì nel suo petto, troppo vicino al cuore, e non è pronta ad affrontarlo, forse non lo sarà mai più (è qualcosa che significa che deve lasciarsi cadere, che qualcuno l'afferrerà – e lei è sicura che quel qualcuno non lo farà).

 

Damon è come uno di quei libri che non è che puoi leggerli e basta – devi sentirli, ascoltarli, toccarli. Viverli.
Damon ha paura quanto lei – paura di vederla andarsene e diventare solo un'altra ombra del suo passato, paura di permettere a se stesso di lasciarsi andare perché Damon è un uomo che ha dato tutto e a cui quel tutto ha sempre portato male (e lei sa che quel qualcosa dev'essere troncato ora che non è neppure niente, prima che spariscano del tutto le fitte d'ansia che le ricordano quello che è – perché non può funzionare, non è possibile. Non con Damon che è tormentato dal suo prima, Damon che non dorme – come lei – perché se chiudesse gli occhi arriverebbero i ricordi, Damon che è così imprevedibile e scuro e cangiante e davvero non può funzionare, non con lei, non per loro, povere anime strappate, accasciate sull'asfalto una notte di pioggia).

Non vuole fargli ancora del male – prima o poi guarirà, Damon. Troverà chi potrà rimanere, ma sicuramente non può essere lei, se non per il tempo di un'illusione, e nessuno dei due può permettersi di cadere, non prima o dopo o durante, non possono e basta.

Eppure lui è lì, l'aspetta, cinque minuti per farle un sorriso, quando si chiude la porta alle spalle, e quando vede la saletta familiare (gli stessi fiori finti e lo stesso tappeto macchiato e la stessa lampada pacchiana di sempre) si rende conto che è troppo tardi – è la consapevolezza improvvisa che le prende la gola, mentre si accorge di avere dato per scontato la sua presenza in quel momento della sua vita, e se sparisse ora probabilmente dovrebbe riformare da capo tutta una nuova organizzazione della giornata e non ne ha la forza, Elena. Non più.

 

«Sto... conoscendo una persona.»
«Ottimo, Elena, è una buona notizia. Come va? Immagino tu non la frequenti da molto, no? O hai preferito non parlarmene?»
«Non la sto frequentando. La sto conoscendo. Con calma – è difficile. Molto.»

 

***

 

Vorrei un bacio, di quelli che mi porti via i pensieri e i tormenti dell'anima.
Anonimo

 

Succede in autunno, un autunno di brezza e pioggia che si scioglie aghi sottili sui volti stanchi della gente, aria frizzante che fa sentire più leggeri – succede e non succede, a metà fra due mondi, due possibilità, due paure.

Ha imparato a proteggersi, Elena – soprattutto, sa che non dovrebbe fidarsi di lui (lui che quel pomeriggio l'accompagna fino a casa, lui che in quei mesi l'ha intossicata di fumo e presenze e che si è trasformato in qualcuno di familiare, qualcuno a cui voler bene, una cosa che ancora la inquieta e ancora la fa temere per l'integrità di quelle mura attorno al cuore).

Damon è diverso dall'uomo che ha incontrato quella mattina – non è felice, non è passato, è semplicemente diverso (diverso in un modo che non sa se essere buono o cattivo, un diverso più imprudente, più fresco – un diverso che dovrebbe spaventarli entrambi ma lui non sembra pensare, riflettere).

Succede e basta, anche se non dovrebbe succedere, con l'impertinenza dei bambini – succede perché lei è distratta e ha la coda di cavallo allentata, una ciocca di capelli che le scivola sugli occhi e le sue dita che la risistemano dietro l'orecchio con una dolcezza quasi strana, da assaporare sulla punta della lingua (succede che Damon si abbassa appena, lei alza il viso e non è neppure un bacio, è uno sfiorarsi intimidito – non voluto, è uno sbaglio, lo sente perché lui si tira indietro di colpo, si dice di no, vede il suo terrore alla possibilità che quel cuore che batte di nuovo torni a sanguinare).

Succede, quindi, succede un bacio che non è un bacio e la pioggia che si fa più fitta – succede che Damon trema e le scivola fra le dita, parlandole sottovoce di promesse infrante e non può, gli pare già di sentire il dolore dietro l'angolo, pronto a farlo inginocchiare sull'asfalto bagnato.

 

Si chiude la porta alle spalle senza curarsi di stare attenta, fa rumore, per una volta nella vita vuole farsi sentire, Elena – vuole dire al mondo che c'è anche lei, povera bambina ferita, troppo giovane e con troppe parole in bocca, strette, sfiatate, seduta dietro una porta chiusa con la schiena contro il legno, la nuca fredda e le mani vuote (inspira, espira – calma e pensieri che si rincorrono come nuvole nel vento, usignoli che cantano su un ramo una musica che non ha mai conosciuto).

Rimane immobile per ore, per giorni – pensa alle labbra dell'uomo-in-ritardo, a come abbia davvero un pessimo tempismo, se solo fosse arrivato qualche anno prima avrebbero potuto evitare così tanto dolore.

 

«Abbiamo rovinato tutto, Rose – era troppo presto, non eravamo pronti. Ho sbagliato tutto.»
«Lascialo elaborare – datevi tempo. Tutti e due. Solo datevi tempo, parlatene – vedrete come andrà a finire, non forzate le cose. Lasciatevi andare, se dovrete farlo. Non fatevi del male.»

 

***
 

Appena la raggiunsi la strinsi, la imprigionai con il mio abbraccio. Respirava aggrappata addosso a me.
Restammo così, non so quanto tempo, immobili e stretti.
«Ho avuto paura.»
«Di cosa?»
«Che non venivi più...»
Margaret Mazzantini – Non ti muovere

 

Tre settimane, quasi un mese, ha fatto di tutto per non vederlo, nemmeno per sbaglio – lui non è pronto e lei non è pronta, dovrebbero stare lontani anni, rinchiudere la paura in uno scrigno in fondo al cuore, prima di poter rivedersi (eppure Elena è lì, sta suonando il campanello di casa sua, donna incerta nel suo cardigan verde troppo leggero, anima di nuovo troppo fragile – lui non apre la porta, suona di nuovo, se perdesse il coraggio sarebbe la fine, non può rimandare).

Sente il suono dei suoi passi, lo sente esitare dietro il portone – sussurra un ti prego al nulla e lui apre, si affaccia dalla soglia come se fosse un'estranea (non parla, adesso, si scosta e la lascia entrare – la lascia entrare e questo è uno dei più bei regali che possa farle).

 

Dopo è seduta sul divano, una gamba ripiegata sotto il corpo, così, a piedi scalzi, potrebbe essere a casa – lui le è di fronte, un po' come sarebbe da dietro il bancone del Grill, non l'ha fatta parlare.

Racconta.

Con quella sua voce roca di fumo e passato, una voce che graffia la gola da dentro, si aggrappa con artigli gialli di nicotina alla laringe, fatica ad uscire.

Racconta.

«Non avevo un bel rapporto con mio padre, dopo la morte di mia madre – lui voleva che diventassi avvocato, io avevo imparato a dipingere da lei, rifiutavo le catene che voleva mettermi addosso. Ero giovane, volevo divertirmi, magari sarei andato a Parigi e avrei venduto caricature per strada, chissà. Non lo feci mai. Avevo vent'anni e Katherine era bella – me ne innamorai all'università, studiava Arte Drammatica. Convivemmo per quattro anni e Dio, Elena, quando ami una persona come amavo lei questa può annientarti con un gesto, uno schiocco di dita. E tu glielo lasci fare.» prende un respiro ansante, ha parlato di fretta, un fiume di parole – prima che passi il momento, che la determinazione cada come pioggia in un tombino, «Avevo ventiquattro anni e la trovai a letto con mio fratello – quello che conosci tu, il perfetto, meraviglioso Stefan, che ora studia Medicina a Chicago, vive con lei. Tornai a casa un pomeriggio, un po' prima del solito. Una storia banale – ci mancò poco che li uccidessi entrambi, che mi trasformassi in un orfano della gelosia. Non dipingo da allora – lei si è portata via tutto.» non si è nemmeno resa conto di stringergli la mano – intreccia le dita senza dolcezza, con una forza che non sapeva di avere, un modo per dire puoi farmi male, tu stringi e io sono qui, sono qui (Damon la guarda negli occhi e lei non ha idea di cosa dovrebbe vedere).

«Sono in terapia da quattro anni, dovrebbero essere di più ma la cherofobia è infida, è cattiva e feroce e discreta, non te ne accorgi fino a che rimani una mattina sdraiato in un letto vuoto e ti rendi conto che la tua vita non ha più senso, che ti stai trascinando attraverso i giorni come una larva infreddolita.» si stringe nelle spalle, come a dire tutto qui – come può essere tutto qui quando quest'uomo fragile, quest'uomo che ha avuto paura per così tanti anni è riuscito a dirle tutto questo, a darle questo cuore aperto (come può essere tutto qui quando lo sente tremare, di fatica e ricordi e paura – paura di lei, di quello che ora ha il potere di fare – e l'unica cosa che fa in realtà è gettargli le braccia al collo, da un lato all'altro del tavolino, anche se è scomodo e anche se sono in piedi, appoggiandosi l'uno all'altro. Continua a stringerlo con il naso affondato nell'incavo del suo collo, e lo ringrazia – sottovoce, senza neppure sapere se lui la sta ascoltando).

 

Ora sono sullo stesso divano, Elena ha la testa appoggiata alla sua spalla, gli tiene le mani fra le sue – è una posizione intima, è strano vederli così, è assurdo, ma sembrava giusto a entrambi, in qualche modo.
Gira il volto contro la sua spalla, mormorando qualcosa sulla stoffa della sua camicia – sussurra appena, titubante.

«Non dovrei essere qui – è evidente che non dovrei essere qui, come puoi stare bene dopo una cosa simile, come posso pretendere che...» lui non la fa nemmeno finire – registra solo il suo sguardo rassegnato e poi ci sono le sue labbra, labbra che sanno di bourbon, sottili, dure di freddo e vecchie lacrime, morbide di futuro (ci sono i suoi capelli sotto i polpastrelli, seta scurissima fra le dita, denti contro denti per ricordarsi a vicenda che sono loro, che sono lì, che in una qualche maniera andranno avanti perché sono andati avanti dopo molto peggio – c'è un braccio forte attorno alla sua vita, una mano sul suo petto).
C'è il fiato dell'altro, quando si allontanano appena, ancora abbastanza vicini da condividere il respiro – e le domande.

«Perché l'hai fatto?» non è abituata a tutto questo, Elena – sente la testa leggera e il ventre caldo, passa la lingua contro i denti, il suo sapore che le scende in gola, le entra nei polmoni come un odore infantile.
Lui non sorride, la bocca semiaperta contro la sua, le soffia dentro una risposta – la custodirà nel cuore per un po', abbastanza da dimenticare il resto del mondo.

«Perché ho avuto una giornata veramente terribile, un mese veramente terribile, e...» sospira, guardandola negli occhi «... ne avevo bisogno. E un po' anche per farti stare zitta, stavi blaterando.» l'unica cosa che può fare dopo è baciarlo di nuovo così, con la disperazione delle cose perdute e tutto l'amore di cui non è mai stata capace.

 

«Dovrei lasciarlo andare – dovrei, Rose, sento che potremmo anche non farcela e lui non può cadere, non si rialzerebbe. Ma non ce la faccio. Senza di lui non ci riuscirei io.»

 

***
 

Possiamo essere felici, saremo felici, dovremmo essere felici. Abbiamo il diritto di essere felici.
Darrin M. McMahon – Storia della felicità

 

«Hai finito?»
«Abbi un po' di pazienza, Elena – non mettere fretta alla mia creatività atrofizzata.»
«Damon, sono ore che rimango ferma nella stessa posizione, ho freddo – perché, se non te ne sei accorto, è dicembre e siamo in giardino – e vorrei davvero una cioccolata calda.»

«Quanto sei acida, amore
«Basta. Fammi vedere quel quadro – per quel che ne so potresti avermi disegnato dei baffi.»
«Ferma – ferma! O almeno stai attenta, è ancora umido.» un soffio fra i suoi capelli, un lungo silenzio.
«Ti piace?»
«È bellissimo. Non sembro nemmeno io, sembra una vera modella.»
«Fidati, sei tu. Non potresti essere nient'altro che tu.»

   
 
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