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Autore: Love_in_London_night    10/07/2014    2 recensioni
L'amore ha più forme, l'amicizia è la più pura tra queste.
A inizio maggio, dopo aver rimandato le tappe in Sud America, Shannon si chiude in una clinica per curare il proprio malessere.
Droga? Alcool? No, disturbi alimentari dovuti a un crollo psicologico, ecco spiegata la magrezza di inizio anno.
Qui ci sarà Reed, ragazza introversa e non incline alla chiacchiere come lui. Riuscirà ad aiutarlo o lascerà Shannon ai suoi demoni?
Che tipo di rapporto si instaurerà tra loro?
SHOT DIVISA IN DUE PARTI PERCHE' MOLTO LUNGA, ho preferito evitarvi una specie di divina commedia.
Dal testo: "«Per te è così?»
«Una cosa per volta, Shannon. Hai tutto il tempo per scoprirlo, non bruciarti subito la tua unica distrazione qui dentro, ora che ne hai una». La bocca sottile dritta, lo sguardo assente e rigido. Sembrava non volesse parlarne, anche se aveva cercato di camuffare la cosa con un velo di mistero e l’alone di rendere la loro permanenza in quel posto un minimo eccitante.
"
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte 1 - The dark side

Inizio maggio 2014
 
Il posto era meraviglioso: una grande villa bianca immersa nel verde con dei tocchi di azzurro dati da sobrie fontane che zampillavano pacifiche. Il gorgogliare dell’acqua si mischiava al canto degli uccelli che abitavano i tanti alberi presenti nell’immenso prato, dove creavano piacevoli zone d’ombra in cui la gente era solita rilassarsi nei momenti liberi.
Il sole splendeva e tutto, lì intorno, comunicava pace e serenità, cose che a Shannon sembravano strane, dato che a lui quelle sensazioni erano diventate estranee da troppo tempo, lasciando il posto al vuoto e all’apatia.
Sospirò, agguantò la maniglia del trolley nero e fece un passo verso l’entrata della clinica, solo poi si concesse di voltarsi per guardare la madre e il fratello.
«Ti voglio bene». Constance, commossa, lo abbracciò un’ultima volta.
Jared imitò il gesto della madre. «Mi dispiace».
E Shannon strinse le braccia attorno al fratello. Il minore si dispiaceva per non essere stato in grado di aiutarlo, ma la verità era che Jared non poteva fare di più di quello che aveva già fatto, ovvero tutto, anche l’impossibile.
«Spero di vederti il prima possibile, lo Shannon di sempre». Gli occhi azzurri preoccupati e commossi, sciolti in quell’emozione che raramente Jared lasciava trasparire.
Come poteva dirgli che, probabilmente, le sue aspettative sarebbero rimaste deluse?
Shannon sapeva che questa volta si era perso davvero, e non era sicuro di ritrovare la retta via verso se stesso; non si sentiva più dentro il proprio corpo, non si riconosceva. Un estraneo che abitava le pareti di carne che un tempo gli erano appartenute.
Avrebbe voluto scusarsi con loro, dispiacersi per il casino in cui aveva trascinato la sua famiglia, eppure un nodo alla gola – stretto dalla confusione e la rabbia – gli aveva impedito di dar voce ai propri pensieri.
«Vi voglio bene». L’unica certezza che gli era rimasta, anche se forse non era più abbastanza.
«Ci vediamo presto». Lo salutò la madre con una lacrima prima di risalire in auto.
Shannon le diede le spalle, una pessima sensazione alla bocca dello stomaco: non era sicuro che sarebbe avvenuto così presto come tutti si auguravano.
Guardò la villa con paura e si avvicinò ostentando sicurezza, come se fosse stata il nemico da abbattere, peccato sapesse perfettamente che, in quella battaglia, era lui il peggior nemico di se stesso.
Così era finito in una clinica che si occupava di riabilitazione.
Al contrario di quello che  pensavano tutti in giro per il mondo, era afflitto da anoressia dovuta a un crollo psicologico che aveva avuto intorno a fine novembre. Aveva cercato di evitare di ascoltare i segnali, ma il cibo era diventato costrizione e sforzo, un qualcosa di rabbioso e non voluto; come la musica. Suonare non era più una via di fuga o una catarsi, ma un obbligo che pesava sull’anima. Christine non era la sua migliore alleata, ma una tortura. Era stato risucchiato dall’odio, corroso da un circolo vizioso a cui non trovava via d’uscita.
Suonava  senza volerlo davvero una musica che non gli apparteneva, non più.
Distrutto, nauseato, divorato da quella che un tempo era stata la usa ragione per combattere: la musica. Lo stesso motivo che l’aveva riportato nel baratro.
Aveva cercato di nascondere il problema a Jared e Tomo, oltre che a se stesso. Lo stomaco chiuso, la nausea, l’odio verso la batteria e tutto ciò che avevano costruito insieme con fatica e sacrifici.
Fingeva che non fosse un problema, che avrebbe smesso quando più gli sarebbe piaciuto. La verità era che l’odio cresceva e con esso l’inappetenza e il rifiuto verso il cibo.
Si era dato a qualunque cosa per dimenticare lo squarcio vuoto che si apriva in lui a ogni concerto: sesso, alcool, sport; eppure il suo appetito non veniva mai saziato.
Più il problema si ingigantiva, più la sua fame di salvezza chiedeva giustizia e appagamento. Fu così che si era ritrovato a pochi millimetri da una striscia di cocaina.
Era fuggito. Impaurito, spezzato, infranto e corrotto. Scappato dal fondo che si era ripromesso di non toccare più per ritrovare in esso l’unica via d’uscita dopo anni. Trovare soluzione nel suo più grande problema l’aveva terrorizzato.
Spaventato, aveva chiesto finalmente aiuto; aveva chiamato un’ottima clinica che lavorava sui disturbi alimentari legati a quelli psicologici per mettere fine a tutto, alla paura.
Non ci credeva davvero, ma scappare dalle prigioni che lui stesso si era costruito era l’unica via d’uscita che gli era venuta in mente. Qualcuno che gli avrebbe detto dove stava sbagliando e che avrebbe rimesso a posto ciò che in lui non andava, come se fosse stato un articolo rotto.
La verità era che non aveva capito che partiva da lui, e che in se stesso doveva ritrovare gli stimoli per mettere fine al proprio malessere. Ma in fondo era lì proprio per capire quale percorso intraprendere per uscire da quel baratro, se mai ci fosse riuscito o l’avesse desiderato davvero.
Fu così che si ritrovò in una stanza singola, tutta completamente bianca e asettica. Non c’era nulla di personale, sembrava che da lì non ci fosse passata alcuna persona con una storia da raccontare, cosa che invece chi combatteva con i propri demoni possedeva.
In quella clinica c’erano varie opzioni di cure, e Shannon – nemmeno a dirlo – aveva scelto la più costosa e la più dettagliata. Dato che doveva spendere dei soldi preferiva farlo per qualcosa che, sperava, ne valesse la pena.
E così si era ritrovato a seguire un programma personalizzato, dove lavorava molto più da solo che con gli altri degenti. Sedute con gli specialisti individuali anziché collettive, attività da svolgere per conto proprio al posto che in gruppo, e più tempo libero da dedicare a se stesso. Shannon aveva deciso di passarlo o nel parco o in palestra, dove potevano entrare solo i pazienti con più privilegi, come lui.
Non era abituato a parlare molto, specialmente davanti alle telecamere e durante le interviste, eppure quel trattamento così atipico l’aveva fatto chiudere in un mutismo assordante, infestato dai propri pensieri che dentro lo squarciavano. Gli stessi pensieri da cui aveva sperato di fuggire rifugiandosi lì.
Era convinto che non fosse una cosa positiva: il suo umore non migliorava, e le parole dei medici non attecchivano in lui, non facevano breccia nel suo inconscio.
Erano passate due settimane e l’unica cosa che aveva ripreso spessore era il suo tono muscolare.
L’unica cosa che aveva notato era che ogni paziente che aveva visto o con cui aveva scambiato qualche chiacchiera di circostanza aveva lo sguardo perso e vuoto come il proprio, privo di quella vita che vedeva negli occhi di chi non provava alcun disagio.
E, nonostante a volte parlasse con qualche altro degente, si sentiva esattamente come quando era fuori, in mezzo al tumulto che la sua vita aveva creato per lui: solo.
Nessuna affezione, nessun contatto, era arido come prima di entrare lì dentro, si sentiva ormai incapace di provare dei sentimenti. Gli mancavano la madre, Jared e Tomo, ma a spaventarlo era il fatto di averli persi di vista come punti fondamentali mesi prima, e non avrebbe saputo dire quando, né il perché. Provava nostalgia per Christine, ma non perché sentisse il reale bisogno di suonare, di fare della musica il centro del suo mondo e la sua ragione di vita, più per abitudine: la parte che comunque – nonostante non avesse più uno scopo da rincorrere – riempiva le sue giornate che, altrimenti, sarebbero risultate ancora più vuote. Come lui.
Voleva cambiare quel disagio che percepiva dentro di sé e che non riusciva a delineare con tratti precisi, ma non sapeva come fare: la sua paura più grande era tornare indietro, camminare verso la sua vecchia vita che tanto gli piaceva e non essere più lo stesso. Come avrebbe potuto occupare un posto che non gli apparteneva più, con tutte le aspettative delle persone a lui care pronte a farlo affogare di nuovo?
La verità era che tra i due fratelli era stato sempre Shannon il più debole e il più influenzabile. La vera roccia era Jared, aveva tenacia da vendere, una buona dose di arte della manipolazione dalla sua e forza, quella che lui aveva sempre sentito vacillare e che da quasi un anno aveva perso del tutto, senza nemmeno rendersene conto.
Forza psicologica, forza fisica, non avrebbe saputo dirlo e, tantomeno, distinguerle; sapeva solo che qualcosa in lui se ne era andato e non era sicuro che potesse tornare.
Come si combatteva l’apatia senza le giuste armi? Non era stupido, sapeva  che per sconfiggere qualcosa prima si doveva capire cosa colpire, e lui non aveva ancora compreso quale fosse il suo problema, quindi non poteva impugnare nessuna soluzione.
«Non volevo rubarti la panchina, ma qui c’è ombra». Una voce bassa ma abbastanza chiara lo risvegliò dai pensieri che lo tormentavano e lo corrodevano dall’interno, facendolo voltare a sinistra verso una ragazza non meno strana degli altri pazienti della clinica. «A dire il vero volevo rubartela. È la mia panchina, ma tu di solito non ci sei mai nelle nostre ore d’aria, quindi non puoi saperlo. Così mi sono seduta qui lo stesso, al mio solito posto, per abitudine e per capire il motivo del tuo mistero e, perché no, privilegio».
Aveva appoggiato i gomiti allo schienale in una posizione troppo mascolina e non l’aveva mai fissato, come se non importasse che aspetto avesse Shannon o il fastidio che gli si poteva leggere sul volto, la ragazza in questione era lì con un intento preciso e non se ne sarebbe andata finché non avesse ottenuto le risposte che desiderava, questa era chiaro al batterista.
Nonostante i suoi modi fossero molto sicuri, lo sguardo con cui la sconosciuta vagava sul nulla faceva intendere il suo nervosismo, rendendola simile a lui. Per qualche strano motivo Shannon non parve essere infastidito dalla sua presenza o da quella insistenza, era semplicemente stupito che una persona, all’improvviso, si fosse interessata a lui.
No, non era nemmeno una cosa così campata in aria: lei sapeva che lui lì aveva un programma diverso e che non passava la maggior parte del tempo con i pazienti, la ragazza l’aveva studiato da lontano, come lui aveva fatto con gli altri in quella clinica.
Difatti sapeva che lei non era molto incline al sorriso, ma nessuno lì dentro lo era. La vedeva nella sala ricreativa mentre pitturava o si dedicava ad altro ma, al contrario di altri pazienti che tra di loro avevano socializzato e intessuto rapporti quieti e amichevoli, la ragazza in questione era sempre sola. Circondata da un’aura che faceva capire quanto non volesse essere disturbata.
Si scoprì più simile a lei di quanto non pensasse, voglioso di capire cosa l’avesse spinta lì, dato che sembrava combattere una silenziosa battaglia con il proprio orgoglio per avergli rivolto parola.
«Come hai detto tu stessa svolgo attività diverse rispetto alla maggior parte dei pazienti qui dentro. Immagino tu sappia che ci sono diversi trattamenti di cura e, a quanto pare, ho scelto quello personalizzato e che mi fa lavorare da solo».
«Hai una voce profonda e graffiante, così diversa dalle urla isteriche a cui tutti qui dentro si abbandonano prima o poi, mi piace». Convenne la ragazza dal volto pieno e segnato da occhiaie che non tentava nemmeno di nascondere. Il sorriso, da indifeso, divenne amaro e scaltro. «Ma non mi incanta la cosa, in poche parole mi stai dicendo di aver acquistato il pacchetto VIP, quindi fa di te, beh… un VIP. Avanti, chi sei? Un aspirante attore, un modello, un musicista o un mancato regista? Non hai un viso famigliare».
Era come se fosse incuriosita da lui ma non volesse ammetterlo, quindi tentava di demolirlo e sminuirlo con frecciatine non molto velate, forse nel tentativo di mettersi in una situazione superiore alla sua, competizione che si era costruita da sola, perché Shannon non si credeva al di sopra di nessuno.
«Sono il batterista di un gruppo abbastanza famoso»
«Quale?» sembrava volesse essere lei a decretare l’effettivo successo della band.
«I Thirty Seconds To Mars».
Rispondere a monosillabi gli era più consono e famigliare, una sorta di zona di agio in cui gli piaceva muoversi.
«Leto…» mormorò tra sé quasi quella parola fosse sfuggita dalle labbra mentre arrivava alla giusta conclusione. «Jared?»
Domandò più ad alta voce nella speranza di aver indovinato. Era evidente che conosceva qualcosa della band, ma non in profondità.
«No, Shannon. Il fratello maggiore. Tu sei?» a Shannon il fatto che lei fosse in vantaggio iniziava a stare stretto. Sapeva più cose su di lui di quante avrebbe voluto, ed era stato lui la fonte di tali informazioni.
«È importante?» si girò per puntare gli occhi chiari in quelli del batterista.
Era una ragazza strana. Capelli corti e biondi ossigenati con un ciuffo che cadeva di lato e la ricrescita a vista, il naso grazioso e il viso pieno. Era in sovrappeso ma si capiva che ne aveva perso molto nell’ultimo periodo, i tratti del viso iniziavano a delinearsi e il suo corpo a perdere la morbidezza che lei ancora si vedeva addosso, lo percepiva dal suo sguardo freddo e distaccato. Così furbo e arido che scavava a fondo per far sentire a disagio e non mostrare niente del dolore che la affliggeva.
Il problema era uno: anche lei era lì dentro perché aveva problemi come tutti lì, non aveva diritto di credersi al di sopra degli altri pazienti.
«Abbastanza se vuoi continuare la conversazione» rispose serio e coinciso. In fondo non era l’unica brava a fare la stronza, su quella panchina. Era sempre stato una persona impassibile in pubblico, non gli costava poi molta fatica ripagarla con la sua stessa moneta.
«Reed, ma non ti dirò che è un piacere». L’aveva quasi ringhiato, si vedeva quanto non fosse abituata a essere messa alle strette, soprattutto da quando era nella clinica.
«Non me lo aspetterei, si dice quando ci si congeda e solo se lo è stato davvero». Sorrise furbo, sapendo di aver segnato un punto a proprio vantaggio.
«Quindi Shannon, perché sei qui?» il tono finto condiscendente che trasudava saccenza.
Eppure non lo irritava, conosceva troppo bene la debolezza che si nascondeva dietro tutta quella ostentazione.
«Per la tua stessa ragione, suppongo». Ciò non gli impediva di prendersi gioco di Reed, seppur nei limiti del possibile. Era una sfida tra due anime aride e in convalescenza, e lui aveva dalla sua la poca pratica con la cura a cui doveva essere sottoposto, al contrario di lei, che sembrava essere lì da tempo.
«Non mi sembra che tu sia qui a causa di un disturbo da alimentazione incontrollata» disse serrando la mascella.
Quindi mangiava in modo compulsivo, ora che aveva scoperto qualcosa in più su di lei poteva ritenersi soddisfatto.
«No, sono qui per un principio di anoressia causata da stress, che mi ha portato a un crollo nervoso e un po’ di depressione». Lo sguardo fisso davanti a sé che quasi accarezzava lo zampillare placido della fontana mentre, per la prima volta, dava un nome a ciò che gli era successo.
Sentì la sua mascella irrigidirsi come quella di Reed poco prima, e non poté far nulla per impedirlo.
«Comunque legato al cibo»
«Se no non sarei qui».
Silenzio. Se avessero ascoltato i rumori naturali avrebbero potuto dire di essere in paradiso, ma le parole non dette che aleggiavano tra loro erano sufficienti a delineare il disagio che li aveva portati sulla stessa strada.
«Già, saresti a farti disintossicare. Strano che non sia così per una rockstar». Una frase detta per alleggerire la tensione, pronunciata senza presunzione ma che lasciava adito a più strade, cosa che a Shannon non piacque per nulla.
«Mi è già successo una volta e ci sono andato vicino di nuovo, ecco perché ora ho una merdosissima stanza bianca in questo posto così triste».
Aveva fugato ogni dubbio con la sua solita sintesi.
«Bene, vedo che non sono l’unica a vedere la clinica per quello che è: una prigione. Il problema si presenta quando inizi a percepire un senso di familiarità in questo posto, quando inizierai a sentirti al sicuro e non vorrai più uscire perché il mondo là fuori ti spaventerà di più del senso di soffocamento qui dentro».
Non provava attaccamento per quel posto, ma capiva il discorso legato al mondo fuori, anzi, era proprio per quello che si trovava chiuso tra quattro mura. Avrebbe smesso di fargli paura lo stesso mondo che prima aveva desiderato con tutte le sue forze?
«Per te è così?»
«Una cosa per volta, Shannon. Hai tutto il tempo per scoprirlo, non bruciarti subito la tua unica distrazione qui dentro, ora che ne hai una». La bocca sottile dritta, lo sguardo assente e rigido. Sembrava non volesse parlarne, anche se aveva cercato di camuffare la cosa con un velo di mistero e l’alone di rendere la loro permanenza in quel posto un minimo eccitante. «Ora vado, ho il corso di educazione alimentare. Scusa se tu non devi partecipare a queste stronzate a cui noi, invece, siamo obbligati».
Gli sorrise amara con un angolo solo della bocca mentre si alzava, lasciandolo in compagnia del proprio sarcasmo pungente.
«Buona lezione. È stato un piacere… parlare con te, Reed». Imitò il suo gesto, anche lui era bravo a dissimulare la realtà, e non le avrebbe mai detto che parlare con qualcuno, con lei nel caso particolare, l’aveva fatto sentire un po’ meglio, non le avrebbe dato quel potere.
«Non avevo dubbi, sono l’unica ad averti rivolto la parola qui dentro». Gli lanciò un’occhiata profonda prima di rivolgergli un sorriso sincero. «Alla prossima, vedrai che prima o poi avremo modo di tornare sui nostri demoni personali, ma vedi di non farlo con il tuo culo scheletrico posato sulla mia panchina preferita. Ricorda che sei l’ultimo arrivato, fama o meno».
Lo salutò con la mano, lasciando entrambi nella certezza che non sarebbe stato così, il giorno dopo si sarebbero ritrovati su quella panchina alla stessa ora, in una sorta di tacito accordo che andava bene a entrambi.
 
Shannon l’aveva osservata con un occhio di riguardo rispetto agli altri pazienti della clinica nei giorni successivi: l’aveva spiata durante il corso d’arte, beccandosi uno sguardo inceneritore da parte di Reed, oppure la fissava mentre, nella sala comune, armeggiava con dei fili in un tavolo isolato, anche se non capiva a cosa si dedicasse.
Nei giorni successivi si erano ritrovati sempre nello stesso posto ma mai avevano affrontato il discorso riguardo certi sguardi, si ferivano con silenzi carichi di significato e con le domande di Shannon che, puntualmente, non trovavano risposta. Reed continuava a ripetergli che c’era tempo, come se sapesse che i loro animi affini fossero destinati a farsi compagnia in quel lungo percorso.
«Ora puoi dirmi cosa intendevi la prima volta in cui ci siamo parlati?»
La giovane lo guardò confusa, non capiva a cosa si stesse riferendo.
«Hai detto che è la fine quando inizi a preferire stare qui piuttosto che fuori, o qualcosa del genere». Non amava dover dipendere dagli altri Shannon, ma aveva bisogno di risposte e si trovava nella clinica per questo motivo, e Reed sembrava l’unica in grado di fornirgli le spiegazioni che cercava.
Anche perché era arrivato lì proprio per sfuggire alla realtà che lo soffocava, nonostante non pensasse di potersi trovare bene in una casa di cura, non era certo si potesse trovare protezione e una sorta di affezione per un posto simile.
«Devo proprio spiegarmi?» alzò un sopracciglio, la bocca tirata in una linea che non permetteva di capire cosa stesse provando in quel preciso istante.
«Devi».
Reed non amava dilungarsi in discorsi proprio come Shannon, ed era per questo che si era avvicinata a lui dieci giorni prima. Avevano molti tratti in comune, quindi aveva deciso di mettere da parte l’orgoglio e il fastidio di essersi abbassata a rivolgergli la parola per godere di quella silente compagnia che, in qualche modo, riusciva a farla sentire meglio.
Sospirò mentre riordinava le idee, poi iniziò a parlare esponendo un discorso lineare, il più lungo che Shannon le avesse sentito fare ma che – era convinto – le avesse permesso di esprimersi con una certa concisione.
«Il problema inizia quando cominci a stare meglio e ti viene la paura, il terrore di uscire e affrontare tutto. Allora prolunghi la tua permanenza, anche se sai di non poterlo fare in eterno».
Quelle parole lo colpirono molto. In Reed vedeva la stessa solitudine che lui provava da tempo, forse era stata quella a spingerli l’uno verso l’altra. Era la consapevolezza di essere soli e non voler cambiare lo stato delle cose perché erano troppo dentro la situazione, senza sapere come erano arrivati così lontani dalle altre persone e senza conoscere la via per uscirne, cosa che ormai non importava più.
«Tu hai prolungato la degenza?» Reed annuì soltanto, lasciandogli modo di porgerle un’altra domanda. «Da quanto sei nella clinica?»
«Quattro mesi e tre settimane. Me ne rimangono altre cinque, e sono terrorizzata». Ammise con fin troppa franchezza, stanca di tenere tra sé un simile pensiero.
«Perché?»
Shannon sapeva di aver toccato un argomento che gli interessava, ma aveva quasi paura nel conoscere una risposta, era conscio che quella verità sarebbe stata scomoda.
«Non fare il finto tonto, non attacca. Hai lo stesso mio terrore in fondo allo sguardo. Sai di cosa sto parlando, quantomeno lo immagini». Si prese del tempo per essere il più chiara possibile senza scendere troppo nel personale e lui ostentò ancora ingenuità.
Reed era distante, lo si percepiva dagli occhi più distaccati del solito. Non gli avrebbe detto di come era arrivata a quel punto, dei genitori che la trattavano come una nullità, del fidanzato che al liceo l’aveva umiliata davanti all’intero istituto, rendendola per tutto l’ultimo anno preda facile di ogni episodio di bullismo, non doveva sapere, non era utile a nessuno dei due.
«Hai voglia di riappropriarti della tua vita a un certo punto, ma sei quasi sicuro di non essere abbastanza forte per farlo, perché fuori sei soggetto ai soliti stimoli, che però recepisci come negativi, se no non ti troveresti qui». Fissò la fontana e gli schizzi d’acqua che da essa uscivano. «Sai di potercela fare con un po’ di impegno, ma avere gli sguardi delle persone attorno a te puntati addosso mentre aspettano un tuo passo falso… beh, non aiuta. Quindi cerchi scuse per rimanere qua, dove ti senti protetto, ma non può essere una soluzione definitiva».
Shannon sentiva quelle parole fluire sulla pelle e infilarsi in ogni poro, intossicandolo. Era la sua paura più grande: convincersi di essere guarito e scoprire di esserlo solo in superficie, una volta là fuori, e cedere ai propri demoni che lo inseguivano senza sosta.
Avrebbe fatto come Reed? Aveva la sensazione che non fosse stata l’unica ad agire in quel modo.
«E quindi come si fa?»
Cercava speranza, ma forse la chiedeva alla persona sbagliata.
«Non lo so, ma appena lo scopro te lo dico, così ti prepari al meglio. Anche se penso che basterebbe smetterla nell’essere il peggior nemico di se stesso, non più nostre vittime ma alleati, e tutto diventerebbe più facile. No ok, meno difficile».
Reed sembrava sicura di uscire prima di lui da quel posto, eppure lui avrebbe dovuto uscire da lì il sabato successivo, dato che aveva scelto il trattamento intensivo. Si sentiva pronto? No, ma ci avrebbe riflettuto il giusto.
«Sei saggia» concluse con la  sua solita essenzialità.
«No, è che qui dentro c’è troppo tempo per pensare, e io ho solo prolungato l’agonia».
 
Shannon, quando aveva preso a seguire Reed, aveva anche fatto richiesta per un cambio di terapia: il suo programma gli andava stretto. Aveva chiesto di poter interagire di più con i pazienti e frequentare gli strani corsi che altri avevano a disposizione. I dottori, colpiti in positivo da quella singolare richiesta, avevano acconsentito a quell’improvvisa voglia di integrazione, nella speranza che potesse essergli utile per trovare un nuovo approccio verso l’esterno che tanto in quell’ultimo periodo gli era mancato. Alla fine era nel relazionarsi che molti trovavano la forza in loro stessi, molto più che nelle sedute singole.
E fu così che si era trovato al corso di educazione alimentare, il secondo del mese. In questa nuova parte due pazienti – con disturbi agli antipodi – dovevano spronarsi l’un l’altro a tirare fuori il meglio di loro stessi dal proprio problema, in modo da correggere la dieta sbagliata del secondo.
Avevano a disposizione dei tavoli di lavoro con piani cottura e lavandini, mentre sotto il ripiano avevano un piccolo frigo più un posto in cui erano custodite le padelle.
Fissò subito Reed, confuso, mentre lei lo guardava truce con le braccia incrociate sotto il seno non molto grande. Non lo fissava per elemosinare compagnia, quanto più in una tacita costrizione di fare squadra con lei per non lasciarla nelle mani di Frank il sudaticcio o Mary la depressa. Non che gli altri fossero poi più felici, ma almeno non soffrivano di gravi disturbi psicologi come lei.
«Secondo te perché i nostri problemi sono legati al cibo? Nel senso: perché è la valvola di sfogo del nostro male?»
Era un modo per farla parlare e non dover esporsi a sua volta, nonostante ormai trovasse in Reed una compagnia gradevole. Certo, non era proprio amichevole, ma con lui si lasciava andare sempre più. Avevano instaurato una buona fiducia che li spingeva ad aprirsi con qualche frase di troppo.
Entrambi avevano capito il perché la gente legasse all’interno della clinica, come Abby e Joel, o Tim e Matt, che spesso facevano comunella con Jeff e Mandy. L’amicizia rendeva tutto più sopportabile, soprattutto la mancanza di chi, là fuori, era amico o qualcosa di più. Non si potevano avere rapporti con l’esterno tranne una chiamata a settimana dopo i primi quindici giorni, ma Shannon non aveva mai sfruttato la cosa.
Osservò Reed mettersi al lavoro per cucinare del salmone scottato nel succo di lime, un’insalata di arance insaporita da del tacchino e qualche altro ingrediente, non senza aver espresso il suo disappunto per quelle scelte insipide. Ma era il loro compito: cucinare qualcosa di sano ma comunque saporito, in modo da assecondare il volere di entrambi e non intervenire in modo drastico sulla dieta degli interessati.
«Io mangio… mangiavo in modo compulsivo per il nervosismo e perché sentivo la mancanza di qualcosa. Cioè… sentivo un vuoto dentro, una morsa allo stomaco che prendeva quando mi rendevo conto di determinate situazioni, e lo riempivo con il cibo. Mi abbuffavo di schifezze e, in quel momento, sembrava fosse la cosa giusta da fare e che il male che provavo scomparisse, finché il tutto non è degenerato per anni. Immagino che sia stato lo stesso per te, solo al contrario, no?»
Aveva parlato tanto per i suoi standard, e l’aveva fatto abbandonando il suo tono arcigno e strafottente di sempre. Aveva tagliato, sminuzzato e usato le padelle con grande disinvoltura, si vedeva che era più rilassata del solito, nonostante fosse sottopressione vista la difficoltà di muoversi in un ambiente amico e ostile allo stesso tempo come una cucina poteva essere.
«Beh, circa. Sentivo la morsa allo stomaco, il vuoto dentro, ma ero sicuro di poterlo controllare. Eppure il cibo sembrava riempirlo, e non mi stava bene, così ho iniziato ad avere un rigetto per il cibo. Sentirmi appagato in qualche modo mi faceva sentire… sporco».
Era la prima volta che parlava apertamente delle sensazioni che il suo malessere gli procurava, ma non si era sentito a disagio. Forse perché sapeva di comunicare con qualcuno che avrebbe potuto comprendere il proprio problema. Sì, per la prima volta da un mese a quella parte si sentiva capito.
«E ora?»
La domanda di Reed lo colse alla sprovvista, mentre impiattava il pesce.
Era diventata un’ottima osservatrice da quando era entrata lì dentro, inoltre sapeva come rintracciare informazioni riguardo ciò che le interessava. Da piccolo Shannon suonava le pentole della mamma come se fossero una batteria, ma aveva notato che, nonostante avesse dimestichezza in cucina, nulla lo portava a voler percuotere una qualsiasi superficie. Aveva il ritmo nel sangue, l’aveva visto all’opera in qualche video, era dunque sconvolta dal fatto che non potesse sentire la mancanza di un richiamo così naturale e radicato in lui. Nessun mestolo sul bordo di qualche padella, nessuna frusta sbattuta a tempo, nessun rumore ritmico che diventava armonia. Era alienato nel suo stesso elemento, in un certo senso.
«Ora non mi fa impazzire, ma non rifiuto più il cibo, basta che sia leggero». Arricciò la bocca davanti a quel piatto, non era sicuro che del salmone rientrasse nella categoria light. La cosa gli regalò un’occhiata tagliente di Reed, così si sentì in dovere di aggiungere: «Magari tornerò a mangiare bistecche unte e succose, ma ho bisogno sia una cosa graduale».
Entrambi infilzarono un po’ del salmone per gustare la pietanza e trarre il verdetto finale a riguardo.
«E per il disagio psicologico?» Reed non usava mai giri di parole, una dote che Shannon apprezzava, tranne quando lo riguardava in modo diretto.
«Ci vorrà più tempo. E tu?» la risposta più mesta e sincera che potesse darle.
Un colpo al cuore. Ora sapeva cosa doveva fare.
«Ci vorrà del tempo».
E rimasero in silenzio, per le persone che erano avevano parlato pure troppo.
 
«Ciao»
«Shannon, Dio mio! Eravamo preoccupati! Come stai?» la voce piena di Jared.
Era come un’oasi nel deserto nel peggior momento di arsura. Non era in grado di descrivere il sollievo che si espandeva nel cuore dopo averlo sentito come se fosse lì, accanto a lui.
«Sto. E tu? Mamma? Tomo e Vicki?»
«Stiamo bene, ma ti pensiamo sempre». Cercava di essere positivo, voleva nascondere la preoccupazione per non averlo sentito per quasi un mese.
«Anche io vi penso spesso. Mi dispiace». Essenziale ma sincero. Più se stesso che mai.
Non riusciva a cancellare il senso di colpa per aver fatto angosciare le persone che a lui più tenevano.
«Tranquillo Shan, non deve essere facile»
«No, per nulla».
«Allora, cosa mi racconti?» Jared era felice di sentire il fratello. Non era il solito Shannon che stava al gioco, ma aveva trovato la forza di cercarli, doveva pur essere un passo avanti degno di nota. Così almeno si sforzava di pensare.
«Ho bisogno di tempo. Più tempo, in realtà»
«Senti il bisogno di fermarti ancora un po’?»
«Almeno un altro mese».
Reed, lei l’aveva sempre saputo. Quante cose aveva capito più di lui? Non apprezzava il vantaggio che lei sembrava avere, ma la cosa lo spronava a fare sempre meglio.
«Non c’è problema, lo sai. È per il tuo bene, noi ti aspettiamo. Ti vogliamo vedere in forma come sempre. Rimanderemo le date di giugno, tranquillo». Il fatto che Shannon fosse disposto a chiedere aiuto aveva rincuorato il fratello minore, più sereno nel sentire la sua richiesta nonostante prolungasse il suo allontanamento di altre quattro settimane.
«Grazie, ti voglio bene». Sentì la verità di quelle parole attanagliargli la gola in un nodo che mozzava il fiato.
«Anche io. E anche mamma e Tomo. E pure i milioni di Echelon che ogni giorno si preoccupano per te. Tieni duro»
«Lo farò, ora devo andare. Buona giornata». Stringato come suo solito, ma pur sempre lui.
«Anche a te».

 



Seeera!
Eccomi qui con una shot molto particolare che tende a rivedere i fatti da inizio maggio, ovvero da quando Shannon ha mancato l'apparizione agli iHeart radio festival e giorno in cui sono stati rimandati i concerti in Sud America.
Ho fantasticato sulla situazione, approfittando della perdita di peso che Shannon ha accusato a inizio anno, e ho unito il tutto alla mia nuova fissa: i braccialetti dell'amicizia.
Ne è venuta fuori questa cosa.
Non ho assolutamente idea di come si affrontino queste cose e quindi la clinica e i suoi programmi sono totalmente inventati dalla sottroscritta, e la parte riguardante il cibo l'ho immaginata un po' come il programma "Grassi contro magri" di real time, anchse l'ho visto poco perchè io gioco nel #teamgrassi e non avevo voglia di farmi molte pippe mentali.
Siccome è una shot abbastanza lunga (14 pagine di word con carattere 11) e introspettiva, ho deciso di dividerla in due parti.
Questa è la dark, dato che è più cupa per contenuti, la prossima sarà bright, perchè troveremo la conclusione della vicenda.
Spero che possa esservi piaciuta.
L'ho voluta postare oggi per via del giorno particolare per Shannon, non volevo che il giudizio del processo e - si spera - una sua ricomparsa viziassero la mia percezione personale della vicenda e tutti i film che ci ho ricamato sopra, quindi l'ho scritta di getto prima del verdetto, nella speranza che ci siano solo buone notizie.
Mi auguro che possa esservi piaciuta, spero di sentire i vostri pareri a riguardo... Ci si sente sabato o, molto più probabilmente, domenica per la seconda e ultima parte.
Mars hugs, Cris.
   
 
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