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Autore: Paradichlorobenzene_    11/07/2014    6 recensioni
[Dolcetta][Lysandre][Armin][Castiel]
La pioggia scendeva ormai copiosa, un temporale che il cielo lo mandava. Le principesse non piangono. Le principesse non piangono. Parole, queste, che risuonavano continuamente nella mente di Erech mentre un’ultima lacrima le scendeva sul viso abilmente nascosta dalla pioggia. Sembrava fosse fatto apposta. La ragazza si alzò, i capelli fradici la seguirono in un’elegante onda, la mano passò sul viso, asciugandolo parzialmente. Si tirò il cappuccio del mantello, non del tutto bagnato, sugli occhi e riprese la strada per tornare al castello.
Adesso sapeva qual era il suo posto, il suo ruolo in tutta quella storia.
Storia scritta a quattro mani con Gozaru. Amate, onorate e rispettate quella ragazza.
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin, Castiel, Dolcetta, Lysandro
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Infine, era giunto anche il momento di partire per il fronte.
Armin non era spaventato, era stato preparato per anni a questo momento e sapeva che alla fine sarebbe arrivato. Tuttavia, c’era ugualmente qualcosa che lo distraeva. Qualcosa che sapeva molto di preoccupazione. Non era rivolta a se stesso, o alla sua vita. Era preoccupato per lei. Fin da quella mattina si chiedeva se la ragazza ce l’avrebbe fatta, se sarebbe sopravvissuta agli orrori della guerra. L’ansia lo stava lentamente distruggendo, ma non sapeva comportarsi in qualsiasi altro modo. Era fin troppo delicata, e in quel momento anche troppo fragile, per riuscire a uccidere. Se voleva salvarsi, nonostante questo, doveva farcela. Bussò alla porta consapevole che, di là da essa, era rimasta soltanto Erech. Non rispose nessuno, così il ragazzo decise di entrare.
«Erech, dobbiamo andare …»
La ragazza, seduta sul letto con il volto tra le mani, non rispose. Armin, indeciso sul da farsi, si sedette accanto a lei, accarezzandole i capelli.
«Lo so che è difficile, ma ormai è fatta. Non puoi tirarti indietro adesso.»
«…. Ho paura.»
Lui sbarrò gli occhi. Quelle parole erano inverosimili dette da lei, pronunciate con la voce spezzata e appena percettibile come se lo stesse ammettendo a se stessa e a nessun altro. Non sapeva cosa fare per calmarla, così la abbracciò, almeno finché non si fosse tranquillizzata. Erech recuperò la spada, pallida e poco convinta. Era determinata ad andare eppure incredibilmente terrorizzata.
«Erech … » Lei si girò, guardando il ragazzo, che strinse la presa su di lei.
«Ti prometto che non morirai. Te lo giuro sulla mia vita. »
 
Il fronte era peggiore di quel che Erech si aspettava. L’odore acre del sangue era più forte del previsto e lei stava per sentirsi male. Guardandosi attorno non si percepivano che l’odio e la violenza. Guardando in basso l’ennesimo soldato, l’ennesima vittima, cadeva a terra con un tonfo sordo. Il viso esangue e gli occhi spenti. I volti cerei di persone che non avrebbero voluto trovarsi qui e che sono costrette, per motivi che lei ignora, a uccidere e a rischiare di uccidersi, riuscendoci molte volte. La ragazza, che non aveva mai imparato a uccidere – e che mai avrebbe voluto imparare! – Cercava in ogni modo di tenersi lontana dalle prime linee e limitarsi ad aiutare i compagni in difficoltà. Capitava, tuttavia, che qualcuno cercasse di attaccarla. A quel punto lei cercava solo di far perdere i sensi al malcapitato di turno cosciente del fatto che qualcun altro, spaventato dalla morte quanto lei, avrebbe finito il lavoro al posto suo.
Almeno finché la sua spada non incrociò quella di un giovane biondo, alto e più grande di lei.
Sentì le forze venire a mancare e dovette reggere la spada con entrambe le mani per non farla cadere a terra, guardando il giovane con occhi increduli.
«… Aspetta … Erech?... »
«Sei tu, Zephir? … Cosa ci fai al fronte? …» La sua voce era un sussurro pronunciato a labbra strette. Il terrore. La rabbia. Il risentimento. L’odio che non aveva mai provato.
«Potrei porvi la medesima domanda, Principessa.»Pronunciò quell’appellativo quasi con scherno, Erech non riuscì a trattenere l’espressione disgustata.
«Non chiamarmi in quel modo, Zephir. »
«Oh, cara cugina, certo che con voi non si può proprio scherzare! »
Continuarono a combattere quasi senza accorgersene, le lame delle spade che si scontravano sempre più forte, sempre più velocemente. Rischiavano di rompersi.
«Speravo di non vederti mai più. Mi rifiuto di credere che tu sia mio cugino. »
«Narwain, Helevorn e Camlost non s’allieterebbero nel sentirvelo dire. Loro che mi volevano così bene …»
Il volto di Erech si fece livido, gli occhi accecati dall’ira nascosti dai capelli che vi ricadevano, complice la testa tenuta bassa. Perse la presa sulla spada, che cadde a terra, seguita dal corpo della ragazza. Lei riafferrò l’arma, ma le mani le tremavano come ogni volta che era nervosa, e riuscì a difendersi quasi per miracolo.
«Tieni fuori i miei fratelli da questa storia. Quello che è successo non è stato per colpa loro. »
«Ne siete sicura? Se loro ci fossero stati, avreste subito tutto ciò ugualmente? »
 
La rabbia scosse il colpo della ragazza come una scarica elettrica. Si risollevò sulle ginocchia, tremante di rabbia. Zephir non sarebbe stato risparmiato.
 
«Ti ho detto di lasciarli fuori da questa storia! »
«Lascia che questo voto millenario risuoni fino ai confini della terra …»
 
 Il ragazzo cantò, a voce bassa e tetra. Gli occhi, dello stesso colore della pietra da cui lui traeva il proprio nome, scintillarono di pura crudeltà. Erech, dal canto suo, sembrava aver perso ogni forza di volontà e si muoveva come un fantoccio. Zephir lo sapeva, che quella canzone sarebbe stata sempre il punto debole di Erech, lo sapeva che grazie ai ricordi che destava nella ragazza sarebbe stata sempre la sua arma più potente, da utilizzare contro di lei.
 
«Sta zitto Zephir …»
«Una ninna nanna legata ad un destino di distruzione …»
«Basta, ti prego, basta …»
 
“Potremo sentirci soli, a volte, ma se potrò vedere il tuo sorriso, andrà tutto bene . ”
 
«Dovevi fare la coraggiosa, giusto, Erech? Hai dovuto accettare il carico del regno sulle spalle!
«Ma cosa stai dicendo? …
«Se tu avessi rifiutato di ereditare la corona al posto dei tuoi fratelli, se tu non ci fossi stata, Alyon sarebbe stata mia! Invece no, dovevi rendere tutto così difficile … Si sono dimenticati tutti di me, dal giorno della tua nascita, e continuano a farlo. Per loro sono diventato solo un peso, per colpa tua … Quindi ho deciso di prendere da me quello che non ho potuto ottenere da altri. E così ho eliminato i miei problemi, uno dopo l’altro.  Il cuore di Camlost era sanissimo, Erech. Peccato che non ha resistito al veleno che avevo messo nel suo bicchiere, qualche ora prima che morisse … Era un buon veleno, in effetti. L’ho pagato a caro prezzo, quella volta … »
La rabbia lo accecò tanto che Zephir non si rendeva più conto di quel che diceva.
 
 
“Mi prometti che non piangerai, Erech? Me lo prometti?”
 
Erech iniziò a ricollegare i pezzi di un puzzle persi da tempo. Zephir, che aveva rifiutato per cause di forza maggiore, di partire per il fronte, sette anni prima. Zephir, che aveva pianto – o aveva fatto finta – quando i messaggeri portarono la notizia della morte di Narwain e Helevorn. Zephir che, in qualche modo, aveva trovato un modo per uccidere anche Camlost e che, adesso, voleva uccidere lei. Sotto le maniche della maglietta, i marchi a fuoco iniziarono a bruciare. Non come la prima volta, non era un dolore fisico. Era come se pulsassero, e sotto di loro tutte le sue emozioni, tutti i suoi sentimenti repressi provati in quegli anni di sofferenza e sopportazione. Ma aveva sempre mantenuto la promessa fatta a Camlost, e si era rifiutata di piangere. Era un lusso che lei non poteva permettersi, anche se non aveva più la forza di difendersi, di sollevare la spada.
 
 
“Mi dispiace, Maestà, i vostri figli sono deceduti sul campo di battaglia,
questa notte stessa.”
 
L’ultima cosa che Erech riuscì a vedere, prima di realizzare quanto fosse accaduto, fu un ragazzo dai capelli neri cadere in terra e la spada insanguinata del cugino estratta dal fianco di lui come dal fodero. Il biondo sorrideva soddisfatto, sapendo che aveva inflitto alla cugina un dolore ancora maggiore di quello che poteva darle uccidendola. Erech guardò il ragazzo in terra per qualche secondo, a occhi sgranati. Il sangue si spandeva sotto di lui in una sempre più grande macchia scura. Calcolò i tempi, tra qualche minuto entrambi gli schieramenti sarebbero stati richiamati all’ordine. Conosceva tutte le abitudini del cugino, e avvelenare le spade da combattimento era una delle preferite di quest’ultimo. Lei sollevò la spada sopra la testa. Imperdonabile. Colpì il ragazzo, che si era difeso con la spada, ancora sporca di sangue, più forte che poteva.
 
«Non dovevi. Non dovevi. »
 
Gettò quelle parole impregnandole dell’odio che provava, così, Zephir capì di aver firmato la propria condanna a morte.
 
«Erech! Erech, ascolta! Non volevo ucciderlo! Ti giuro che non volevo! »
 
Erech non lo ascoltava nemmeno. Sapeva che ciò che diceva non era vero o, perlomeno, non del tutto. Una sola parola nella sua mente. Imperdonabile. Un solo ordine giungeva al suo cervello. Uccidilo. Le loro spade s’incrociarono per l’ultima volta, i loro volti a qualche centimetro di distanza. Il sangue colava a rivoli stretti lungo la lama della spada, sporcando l’elsa e la mano del ragazzo. Egli guardava spaventato e incredulo lei che, al contrario, sembrava avere il fuoco dentro. I suoi occhi dorati scintillavano rabbiosi contro i suoi, azzurri. I capelli appiccicati alla fronte e il fiato corto, una leggera esitazione. Poi, Erech alzò la spada. Successivamente, cercò di trascinare Armin via da quel luogo di morte. Stavolta, nessuno avrebbe dovuto finire il lavoro al posto suo.
 
 
 
Armin non ricordava che il dolore causato dagli squarci fosse così intenso. Bloccato a letto, il suo pensiero era interamente rivolto alla ferita sul fianco e non riusciva a muoversi. Pensava alla disperazione che lo invase quando vide quel ragazzo scagliarsi su Erech. Le aveva fatto una promessa che andava rispettata, ed era riuscito a mantenerla. Adesso di morire non gli importava più. Aveva riconosciuto il dolore, il violento pulsare causato dal veleno, e si era rassegnato al fatto che non sarebbe arrivato a vedere l’alba dell’indomani. Sembrava sereno, oltre la carne squarciata, la maglia intrisa di sangue e il colore cereo del suo volto. Teneva gli occhi socchiusi e respirava a fatica. La gola riarsa e il bruciore insistente che consumava interamente il suo corpo. Sentì, poco dopo, di avere qualcosa tra le mani. Qualcosa di delicato e nemmeno tanto grande. Seguì con gli occhi il prolungamento del braccio, fino a giungere al collo e quindi al viso della ragazza, che sembrava essersi addormentata. Anche mentre dormiva sembrava perseguitata da chissà quali tormenti. Guardò fuori dalla finestra, scorgendo, con suo grande stupore, i primi violacei bagliori dell’alba. Sorrise debolmente, e si sentì svuotato da ogni rancore. Poco dopo sentì una fitta lancinante al fianco, e gli passò ogni gioia che, poco prima, poteva provare sapendo di essere ancora vivo anche se per poco. Un rumore umido proveniente dalla ferita, come quando si immerge la mano nella melma e questa si separa. Il bruciore della carne che, pezzo per pezzo, si consuma da sola. No, non adesso. Come svegliata dalla fievole luce, la ragazza si mosse. Due occhi grandi, dello stesso colore dell’oro, lo guardavano colmi di preoccupazione. La bocca rosea, che pareva dipinta a fior di pelle, si mosse.
 «Buongiorno – La precedette lui, continuando a sorridere, mesto. »
«Come ti senti? »
Armin avrebbe voluto evitare quest’argomento. A quanto sembra, precederla non era servito. Un’altra fitta, ancora più dolorosa di quella di poco prima. Un colpo di tosse trattenuto. Il sapore ferreo del sangue in gola. Dammi solo altri cinque minuti!
«Bene, Erech. Come vuoi che stia? »
«Non è vero, non stai bene. »
Non le si poteva nascondere nulla e il ragazzo, ormai rassegnato, lo sapeva bene. Un’altra fitta, straziante. Si sentiva squarciare in due. Lo spasmo che lo colse gli fece serrare gli occhi in un tentativo disperato di trattenersi dall’urlare o dal rompere qualcosa. La sentiva benissimo la carne viva che bruciava, che marciva sotto la ferita. Sapeva benissimo che l’effetto del veleno era ritardare la morte, pur causandola, e far soffrire il più possibile.
«Armin! »
«S-Sto bene …. Erech … Mi … Mi passerà …»
Lei sapeva bene che non gli sarebbe mai passata, ma non era pronta per rimanere sola. Non di nuovo. Aveva già assistito a troppe morti, era già stata al fianco di troppi capezzali. Quello di sua madre, quello di Camlost, aveva ucciso il cugino e adesso anche questo.
Armin, dal canto suo, si era arreso al fato e al dover morire, ma non voleva lasciare questo mondo guardando la disperazione sempre più vivida negli occhi di Erech. Lui aveva vent’anni, dopotutto, e a quell’età le cose, seppur in punta di morte, voleva farle come si dovevano fare. E non voleva nemmeno morire lasciando in sospeso un discorso mai iniziato. Un colpo di tosse lo bloccò, inizialmente. La mano, andata a coprire la bocca, venne ritratta coperta di sangue.
 
La ragazza stava per alzarsi e andare a chiamare qualcuno, ma venne  trattenuta dall’altra mano del ragazzo, ancora stretta su quella di lei, che fino a quel momento era stata silenziosa spettatrice della morte.
«Erech … Se ti facessi una domanda … Mi risponderesti sinceramente? …»
«Si … » Ormai, la voce rotta sembrava impedirle anche solo di parlare.
«… Che cosa sono io per te? »
Le aveva chiesto di indovinare la data della fine del mondo. Per Erech, quella domanda equivaleva a questo. La verità è che lei non lo sapeva, non ci aveva mai pensato seriamente e nella sua mente si rifiutava di rispondere. Ma aveva detto che avrebbe risposto sinceramente.
«Non lo so. »
Armin sorrise, se la aspettava una risposta del genere. Le lasciò la mano.
«Io l’ho capito … Chi sei veramente …» 
Erech, che ancora stava cercando di capire perché le aveva lasciato la mano, si stupì di come lui potesse avere la risposta a tale domanda.
«Ti ho sentita … Mentre quel ragazzo … Ti parlava ….»
Con uno sforzo incredibile, porto la mano a sfiorare la guancia della ragazza, che ormai tratteneva le lacrime a stento. La luce azzurra dell’alba illuminava la stanza e dava inizio a un nuovo giorno.
«Promettimi che non piangerai …»
Erech vide Camlost in Armin e serrò gli occhi nella disperazione più totale.
Per un attimo – uno soltanto – pensò ad Armin come al proprio fratello maggiore. I suoi sentimenti per lui però erano qualcosa di diverso, questo lo sapeva. Magari era vero, magari non lo amava, ma in lui aveva trovato tutto. Aveva trovato l’amico nelle difficoltà, il fratello che ti aspetta a braccia aperte, l’amante nell’azzurro – nel blu, nel nero - della sera. Però sapeva anche che l’amore non può nascere sul letto di morte di qualcuno che non sai cosa sia stato, fino a quel momento. Di qualcuno che hai amato o non hai amato non importa, te ne sei resa conto tardi.
Era troppo tardi per poter fare una promessa che aveva già iniziato a non mantenere. Le lacrime le stavano già rigando il volto pallido. Non le importava se le principesse piangono o no.
Manteneva sempre le promesse fatte, ma questa volta proprio non ci era riuscita.
Armin portò la mano dalla guancia ai capelli di Erech, attirando a sé la ragazza per quanto il suo stato glielo consentisse. La sua pelle gli era sembrata così calda e già sapeva che gli sarebbe mancata. Non voleva più morire, non così. Non lasciandola nella disperazione. Chiuse gli occhi, cercando di essere forte stringendo Erech ancora di più. In quel momento, uno dei due doveva esserlo, non importa chi.
«… Io lo so, perché hai lasciato Alyon … E so anche perché non mi ami …»
Le parole la ferivano come se stesse camminando sui cocci di vetro. Erano ovunque, e tagliavano come lame. Armin, con un mezzo sorriso dipinto sul volto, le accarezzò la guancia con la mano pulita. Cercò di sollevarsi sul gomito, anche se non vi riuscì completamente.
«Hai preferito il Generale a me, non è vero? … Non mi è rimasto niente … Ci hai mai pensato, che può essere triste morire così? … »
 
Qualcosa portò Erech a pensare che Armin non ragionasse più. Il dolore, forse. Il veleno. Non lo capiva più nemmeno lei che avrebbe potuto iniziare a delirare da un momento all’altro come credeva stesse facendo il ragazzo. Armin continuava a tenerle la mano sulla guancia di lei perché a muoverla non ci riusciva. Avvicinò il suo viso a quello di lei e per la prima volta credette che la morte potesse avere un sapore dolce, ma la verità non la scoprì mai. La mano ricadde accanto al corpo esanime al quale apparteneva, sul letto. Un ultimo sospiro, all’alba di una fredda mattina di settembre, s’era portato via il bacio che Armin non era riuscito a dare ad Erech, il ti amo che non era riuscito a dirle e la promessa che le aveva fatto e che aveva mantenuto.
 
Non mi è rimasto niente …
 
Erech corse via da quella stanza, incapace di sopportare la vista della pace perfetta sul volto di Armin. Incapace quasi di continuare a respirare.
Non c’era più ordine, nella sua mente vi era il caos. Vagava per i corridoi del castello tenendosi la testa tra le mani, rischiando di strapparsi i capelli a ciocche da quanto la teneva stretta. Il respiro spezzato. Il passo accelerò e divenne corsa. La corsa la portò via, lontana dal castello, su una stradina scoscesa.
 
Io l’ho capito chi sei veramente …
 
Il promontorio avvolto dalla tetra atmosfera del mattino, sotto il cielo coperto di nuvole grigie, le fece paura. Guardò quel paesaggio, quell’incredibile spettacolo che, la prima volta, s’era rifiutata di ammirare a causa della sua paura del vuoto. Da un lato Calimon, con le case bianche che splendevano, anche se il sole era coperto e il palazzo, bianco anch’esso e con le cime delle torri interamente ricoperte d’oro. Le radure e i prati verdeggianti che circondavano il regno si estendevano a perdita d’occhio. A nord est, la radura diventava prateria, che si tramutava in spiaggia, che si perdeva nel mare. Sulla sabbia, al confine tra la spiaggia e la steppa, sorgeva quella che un tempo era stata la prosperosa Gaerys. Era una delle poche città che si ergevano sul mare e che erano provviste di porto. Il villaggio era piccolo ma ricchissimo, grazie alle coltivazioni vicine e alla pesca. Adesso rimaneva solo il porto, accompagnato da qualche capanna superstite ricostruita da chi, troppo attaccato a quelle terre, non voleva allontanarsene. Procedendo verso ovest, la foresta delle Terre di Confine, dove si allenavano maghi e alchimisti. Si diceva fosse abitata da creature magiche e pericolosissimi troll, ma lei, quando l’aveva attraversata, non aveva visto che alberi dalle foglie di smeraldo e cascate e torrenti dentro i quali scorrevano cristalli. La foresta era parte del regno di Alyon, che si trovava all’estremo ovest delle Terre-Di-Non-Dove. Il regno sembrava circondato da un’aura di mistero. Le case, in marmo bianco, brillavano debolmente alla luce del sole. Il palazzo, completamente in marmo anch’esso, sovrastava la capitale dalla posizione in cui si trovava, nella parte alta della città. Era circondato da un vasto giardino e le cime delle torri erano state scolpite dello smeraldo, da qui il nome del castello. Dietro di esso si intravedeva la torre di cristallo in cui vi era la sala del trono, e, alla destra di quest’ultima, i disegni d’oro che ornavano la torre in cui vi era la sua stanza. Il regno, i villaggi e i possedimenti del re suo padre si estendevano fin oltre l’orizzonte. Essi erano circondati dalla catena dei Monti Argentei, così chiamati per le loro numerosissime miniere d’argento e pietre preziose. Sulle loro cime, spesso si vedevano volare i draghi bianchi che, si diceva, potevano concedere i miracoli.
Se un giorno ne avesse incontrato uno, la ragazza si sarebbe rivolta a lui.
Erech si gettò all’indietro, cadendo distesa sull’erba. Le braccia aperte a croce e gli occhi tenuti chiusi sotto le gocce di pioggia che, com’è giusto che sia durante le piogge di marzo, lentamente, iniziavano a scendere.
 
Una bambina stava intrecciando dei fiori bianchi con aria scocciata.
I lunghi capelli lisci che le scendevano lungo la schiena, sfiorando l’orlo della gonna bianca. Avrebbero fatto invidia a chiunque, ma a lei sembravano dar solo fastidio.
I suoi capelli lasciati sciolti senza nessun fiocco a tenerli su le piacevano molto di più.
“Erech! Erech! Che fine avevi fatto, ti abbiamo cercata ovunque!”
La bambina si voltò, mettendo il broncio sul suo bel visetto.
“Si sono dimenticati tutti del mio compleanno. Anche tu, sei cattivo, Camlost.”
“Ci stai ancora pensando? Mi tieni il broncio da mesi, Erech. Mesi. Il tuo compleanno è stato quasi quattro mesi fa, sei insopportabile quando fai così.”.
Il bambino ci rifletté su un secondo, poi prese una margherita e ne fece un anello.
“Questo è il tuo regalo, Erech! Tanti auguri!”
Glielo mise al dito sorridendo, la bambina si mise a ridere.
“Su, torniamo a casa. Stasera c’è la festa del solstizio e papà ha detto che devi prepararti!”
Le porse la mano per aiutarla a rialzarsi. Probabilmente, Camlost era il miglior fratello che potesse esistere.
 
La pioggia iniziava a farsi battente. Una serie di ricordi spezzettati nella mente di Erech iniziavano a farla rinsavire dalla confusione iniziale, ma lei non voleva alzarsi.
Poco le importava se pioveva e lei era distesa su un promontorio e si sarebbe presa il raffreddore, o, più probabilmente, una polmonite. Non le importava più di nulla.
Era colpa sua. Se avesse avuto il coraggio di uccidere Zephir subito, se non si fosse bloccata davanti a un ricordo del passato, a una stupida canzone, Armin non sarebbe morto.
Ne era convinta.
 
È colpa mia … È solo colpa mia! …”
 
I bambini, entrambi coperti da mantelli più grandi di loro, si tenevano per mano evitando così di perdersi.
Il padre, anche lui coperto dal mantello, si manteneva poco più avanti. Ad ogni passo, i bambini rischiavano di cadere rovinosamente in terra, inciampando nelle vesti.
“Camlost, papà dice che i  nostri nomi hanno un significato. Cosa vogliono dire?”
“….Il tuo mi sembra che significhi Lancia Solitaria.”
“E quelli di Narwain e Helevorn?”
“ … Nuovo Sole e Vetro Nero.”

“E il tuo? Il tuo cosa vuol dire?”
A Camlost non era mai piaciuto il significato del suo nome, per lui “Camlost” era un nome triste.
“….Vuol dire Mano Vuota.”
Lo disse come se gli dispiacesse o se stesse chiedendo scusa a qualcuno. La bambina gli strinse la mano, lasciandogliela poi di scatto per coprirsi le orecchie non appena iniziarono i fuochi artificiali.
La spaventavano a morte.
Il bambino strinse le sue mani sopra quelle della sorella, finché non fu sicuro che lei non sentisse più niente.
Una fitta al torace, nella parte sinistra. Le mani strinsero più forte. Gli occhi si chiusero.
Cos’era che lo faceva stare, da quel mattino, così male?
“Camlost? Cos’hai? I fuochi sono finiti e non te ne sei accorto.”
“Non … Non ho niente. Non preoccuparti ….”
La bambina annuì, poco convinta. Non gli credeva affatto.
“Erech …. Qualsiasi cosa succeda, promettimi che non piangerai.”
“Ma come si fa a non piangere? Come faccio quando sono triste?”
“Le principesse non piangono, Erech. Mi piace di più vederti felice!”
Il ragazzo canticchiò, a bassa voce:
“Lascia che questo voto millenario echeggi fino ai confini della terra, una ninna nanna legata ad un destino di distruzione. Potremo sentirci soli a volte, ma se potrò vedere il tuo sorriso sarà tutto apposto.
Ce l’aveva insegnata la mamma, non te lo ricordi? Tu avevi cinque anni e io sette …”
“… Ed eravamo stonati come le campane del villaggio”.
 
Ma come faccio a non piangere mai, Camlost?
Come dovrei fare, in momenti come questo, a non piangere? Fattene una ragione.
Erech aprì gli occhi, piegando la testa all’indietro. Per un attimo sentì la voce del fratello, risponderle. Il ricordo di ciò che successe quella notte bruciava come il sale sulle ferite a carne viva. Serrò gli occhi, di nuovo. Non voleva ricordarselo.
 
La bambina aveva sentito di nascosto suo padre che parlava con un medico. Era preoccupata anche lei per la salute del fratello, ma nessuno voleva dirle niente. Così origliò, e scoprì che il fratello, agonizzante da quasi due giorni, era in fin di vita per cause sconosciute.
Lei si precipitò nella stanza immersa nel’angoscia più totale.
“Camlost! Camlost …”
Si gettò tra le braccia del fratello morente che, nonostante tutto, le tese le braccia.
Il ragazzo, che qualcuno di più forte di loro stava trascinando inesorabilmente tra le braccia della morte, sorrise alla sorella in lacrime.
Nei suoi incubi, avuti durante la notte, il dolore che provava dovuto ai suoi battiti frammentati lo faceva sprofondare nel vuoto, Cloto lo fissava, torva.
“Hai già dimenticato cosa mi hai promesso, Erech? Avevi detto che non avresti pianto.”
La bambina non lo ascoltava nemmeno. Aveva otto anni ed era un suo sacrosanto diritto piangere fino a prosciugarsi le orbite. Tuttavia, Camlost non sembrava dello stesso parere.
“Canteresti per me, Erech?...”
La bambina, sollevatasi dal materasso, ma ancora in ginocchio, lo guardò con i suoi grandi occhi inondati di lacrime. Il visino pallido e il labbro tremulo. Memore delle lezioni di canto, Erech schiuse la bocca e cantò, pronunciando le parole in una serie di mormorii sommessi, come soffi di vento.
Ascoltandola, Camlost chiuse gli occhi, consapevole che non li avrebbe mai più aperti.
“Sii felice, Erech. Sii felice anche per me.”
Disse debolmente, morendo.
 
La pioggia scendeva ormai copiosa, un temporale che il cielo lo mandava. Le principesse non piangono. Le principesse non piangono. Parole, queste, che risuonavano continuamente nella mente di Erech mentre un’ultima lacrima le scendeva sul viso abilmente nascosta dalla pioggia. Sembrava fosse fatto apposta. La ragazza si alzò, i capelli fradici la seguirono in un’elegante onda, la mano passò sul viso, asciugandolo parzialmente. Si tirò il cappuccio del mantello, non del tutto bagnato, sugli occhi e riprese la strada per tornare al castello.
Adesso sapeva qual era il suo posto, il suo ruolo in tutta quella storia.
Tuttavia, al funerale di Armin nessuno la vide. Il giorno dopo questo, sulla tomba del ragazzo, una tra le tante dedicate ai soldati caduti in battaglia, c’erano due splendide rose rosse.
Fine Prima Parte.
   
 
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