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Autore: Waanzin    11/07/2014    2 recensioni
Vivere in un mondo post-Apocalittico è già difficile di per se, ma lo è ancora di più se un tempo eri solo un allegro cartone animato. Riusciranno Tigro e gli altri a salvare la loro umanità in questo mondo spietato, o forse le loro anime sono già inevitabilmente perdute?
Genere: Azione, Dark, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorpresa
Note: AU, Cross-over, What if? | Avvertimenti: Violenza
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Ascolti consigliati durante la lettura di questo capitolo: Tom Waits, "Hold On" (per la prima parte); Blondie, "Dreaming" (per la seconda parte/ finale). 

CAPITOLO 1 - SUNDAY NEVER COMES UNTIL IT'S TOO LATE.


La voce raspante di Tom Waits mormorava toni nostalgici che risuonavano a malapena sopra il frastuono del vecchio pick-up, mentre lo stereo ce la metteva tutta per non cedere del tutto e smettere di far girare quell'ormai consumato nastro Stereo 8. 

Sotto un sole cocente ed inesorabile, il vecchio Toyota sfrecciava lungo il deserto del Mojave, lasciando alle proprie spalle una grossa nuvola color creta, non dissimile dalla scia di una grossa nave in mare aperto. Le rifiniture cromate della carrozzeria erano sparite ormai da tempo e il resto combatteva una battaglia persa contro la ruggine da quella che sembrava un'eternità. Qua e la, schizzi di quello  che sembrava sangue coagulato tradivano un passato burrascoso non troppo lontano.

Dall'abitacolo, Tigro fissava lo sconfinato deserto davanti a lui, la mano destra stretta distrattamente intorno allo sterzo mentre la sinistra ciondolava placida fuori dal finestrino, aperto in un inutile tentativo di contrastare l'afa e il caldo torrido. Di tanto in tanto, scorreva le dita sulla pelliccia umida e appiccicosa per darsi un tono, ma era evidente che aveva smesso di far caso al proprio aspetto da più di qualche giorno. Gli abiti di cuoio marrone che indossava non avevano nulla da invidiare al pick-up in quanto ad angoli logori e vecchie macchie rossicce.

Proprio mentre il nastro giungeva al termine, il veicolo giunse traballante di fronte ad un vecchio casolare in legno, un prefabbricato che un tempo doveva essere stato il centro nevralgico di qualche ranch di buona famiglia. Al momento, tutto ciò a cui faceva da centro era la desolazione del Mojave. Due robuste moto da cross, la vernice sbiadita dal tempo, erano parcheggiate di fronte ad una piccola veranda, sotto la quale ciondolava placida una figura su di una vecchia sedia a dondolo.

La portiera si chiuse alle spalle del felino con un cacofonico "thunk",  prima che lui potesse portare l'attenzione all'asino che si dondolava all'ombra delle assi di legno. L'espressione di Ih-Oh, che lo scrutò di rimando con l'aria di chi non aveva più la forza neppure di alzare lo sguardo, parlava da sola: lui non era ancora rientrato. Con un sospiro, Tigro si limitò a raggiugere il retro del pick-up, dal quale iniziò silenziosamente a scaricare alcune casse di cibo in scatola. 

«Non è tornato.» mormorò l'asino mentre lui si preparava a tirare giù le ultime casse. Lo colse talmente di sorpresa che quasi sobbalzò, ma si affrettò a puntargli addosso uno sguardo accusatorio. Sapeva dove il suo vecchio amico voleva andare a parare.

«Lo so. L'avevo capito.» Borbottò Tigro, tentando con tutto se stesso di sembrare indaffarato e al tempo stesso annoiato da quella conversazione improvvisata. Ma Ih-Oh non gli diede soddisfazione, incalzando con quel suo tono melenso e depresso.

«Sono passati tre giorni, Tigro.»
«Lo so.»
«Nessuno di noi è mai stato più di un giorno lontano dal ranch.»
«Lo so.»
«Non pensi che a questo punto...»

«Ascoltami attentamente.» Lasciando cadere maldestramente l'ultima cassa di cibo a terra, la tigre percorse a larghe falcate lo spazio che lo separava dal suo interlocutore, gli occhi fiammeggianti di rabbia. Con uno scatto quasi automatico del polso, tirò fuori da una fondina di pelle raggrinzita una vecchia Colt .45 a tamburo.

«La vedi, questa? La riconosci?.» Puntava la canna grigio scuro direttamente in mezzo agli occhi dell'asino, seppur lui non faceva altro che limitarsi a fissarlo, probabilmente indeciso se la paura che provava valeva la pena di scomodarsi dal suo costante, irritante stato di apatica disperazione.

«Ci sono soltanto due colpi nel tamburo.» Incalzò Tigro, ignorando completamente la passività dell'amico, la voce tremante di frustrazione. «Significa che ne ho usati quattro. Quattro proiettili. Oggi ne ho uccisi quattro, Ih-Oh.» Piegandosi in avanti, piantò gli occhi dritto in quelli del suo interlocutore, deciso a non dargliela vinta nella sua passività.

«Quattro persone che una volta avevano una vita, dei sogni, magari una famiglia. Quattro persone che ora non volevano altro che un pezzo di me, quattro persone a cui ho dovuto far saltare il cervello perché TU potessi mangiare per il resto della fottuta settimana!» Gesticolando per buttare fuori tutta la rabbia, terminò quello che a tutti gli effetti era diventato un breve monologo quasi gridando. 

«Perciò, la prossima volta che decidi di aprire bocca» concluse, respirando lentamente mentre tentava di ricomporsi «sarà bene che ti ricordi chi è che ti mette il piatto in tavola qui. E se io ti dico che lui non è morto, vuol dire che lui non è morto. Capito?» Ih-Oh si limitò ad annuire, mentre gli occhi dell'asino si riempivano di lacrime. Tigro voltò a testa, tentando di evitare che il senso di colpa gli attanagliasse lo stomaco. Faceva fatica a ricordare un tempo in cui tutto ciò di cui aveva bisogno il suo vecchio amico sarebbe stata una sana risata.

Sforzandosi di non pensare a ciò che l'asino gli aveva appena detto, spalancò una robusta porta di legno scuro per entrare nella casa vera e propria. La polvere e l'odore dei mobili usurati dal tempo dominavano incontrastati, ma nonostante tutto, l'ampio salone aveva un aspetto accogliente per quanto disordinato. 

Un robusto divano dominava la sua destra, circondato da lattine di cibo in scatola vuote e bottiglie di liquore, mentre la parte sinistra era stata riempita con vecchie casse di munizioni ammaccate accatastate senza criterio accanto allo sbocco che dava sui corridoi e le camere da letto. Sullo sfondo, un tavolo era stato riempito con strumentazioni elettroniche collegate a un vecchio baracchino, alimentato da un piccolo generatore a gasolio che borbottava sotto la finestra poco distante. La parete adiacente quasi non esisteva più, seppellita sotto decine e decine di ritagli di giornale appesi, tutti risalenti ai primi giorni in cui il Morbo aveva lentamente demolito la società dall'interno. 

Appollaiato su di uno sgabello alto il doppio di lui, un porcellino rosa trafficava convulsamente con le manopole del baracchino.

«Pimpi.» Disse Tigro, la voce rassegnata che ormai tradiva una profonda stanchezza. «Ho portato il cibo per la prossima settimana. Cinque casse di pollo e fagioli. Spero vi piacciano, perché non c'è altro. Ho bisogno di qualcuno che mi dia una mano a portarle dentro.»

«Lascia, faccio io.» La voce non era quella di Pimpi, ma proveniva da una scala a pioli posta poco lontano dal grosso divano che portava direttamente in una postazione di vedetta improvvisata sul soffitto del ranch. Con passi scaltri nonostante gli anni, Tappo vi era appena sceso, probabilmente dopo aver avvistato Tigro e il suo pick-up rientrare. 

Tigro, dal canto suo, si limitò ad un muto ringraziamento con un cenno del capo, poi seguì la sagoma del coniglio mentre spariva dietro il pesante portone di legno che dava sulla veranda. Povero Tappo, si scoprì a pensare. Il Morbo aveva chiesto a lui forse più che ad altri e, seppure non aveva mai mancato un istante di essere d'aiuto ai suoi amici, il peso degli anni lo mostrava in ogni sua claudicanza, ogni sospiro di troppo, ogni chiazza di pelo mancante.

«Ti ho sentito discutere con Ih-Oh, là fuori.» Pimpi parlò all'improvviso, senza distogliere lo sguardo dal baracchino che ora stava smontando con un cacciavite. A quanto pare, aveva ascoltato tutto, seppure senza dar segno di aver capito. Tipico di lui.

«Non dovresti.» continuò, distrattamente, tradendo una certa ansia nei confronti del lavoro che svolgeva così assiduamente con i suoi marchingegni elettronici. «Sai bene che non è mai stato il più resistente di noi.» 

«Nemmeno tu.» Rispose Tigro, deciso. «Eppure hai imparato a superare le tue ansie, a renderti utile facendo quel che ti viene meglio. Neppure balbetti più da quando siamo qui.» Concluse, sforzandosi di abbozzare un sorriso.

«T-t-tranne q-q-qualche volta.» Si affrettò ad aggiungere il suino, imbarazzato. 
«Resta che Ih-Oh non ha fatto nulla. Deve capire che dove non c'è speranza, non c'è sopravvivenza. Abbandonarsi così non è utile a nessuno.» 

Dopo aver lanciato un'occhiata a Pimpi che non ammetteva risposte, con un gesto distratto la tigre afferrò una bottiglia di liquore vuota per metà, distrattamente abbandonata da qualcun altro del gruppo su uno dei braccioli del divano. Buttando giù un rapido sorso di quel liquido caldo fece vagare lo sguardo sui ritagli di giornale.

«L-l-l'ho trovato, sai.» Riprese, timido, Pimpi, tentando di riacquistare la sicurezza in se stesso che l'imponente presenza di Tigro doveva avergli fatto perdere. «Il punto zero.» Indicò uno dei ritagli appesi alla parete, dove un trafiletto di poco conto era stato cerchiato di rosso. «Qualsiasi cosa abbia fatto nascere il Morbo, era giù in Delaware. 15 Settembre di cinque anni fa, un vecchio cane malato nella provincia di Dover. Li è cominciato tutto.»

Tigro sospirò. Cinque anni. Non avrebbe mai creduto che la vita potesse scorrere tanto lentamente, che un lustro sarebbe potuto durare secoli. Che lui potesse cambiare così tanto in soli cinque anni. 

«...bene. Continua pure il tuo lavoro.» Si affrettò a concludere, tradendo una nota di scetticismo nei confronti dell'utilità delle ricerche del suino. Con la stessa sufficienza con cui l'aveva presa, abbandonò la bottiglia di liquore al suo precedente posto. «Io ho un dannato bisogno di una doccia.»

...

Avvolto in una disadorna calzamaglia sfibrata, Tigro fissava il soffitto della sua camera da letto sul quale danzavano le ombre proiettate dalla robusta candela sul comodino. Sdraiato sul materasso giallognolo, reso rigido e per nulla confortevole dal tempo, lasciava vagare la mente a tempi più felici.

Quando spostò lo sguardo sulla parete, dove una vecchia foto era stata inchiodata al muro con un chiodo arruginito, una morsa gli strinse la bocca dello stomaco.

«Dove sei?» Sussurrò a se stesso, gli occhi pieni di lacrime. «Abbiamo tutti bisogno di te qui.» Ingoiò un paio di singulti mentre sperava che il sonno lo avvolgesse... poi sgranò improvvisamente gli occhi. Aveva sentito qualcosa.

«NEMICI IN AVVICINAMENTO!»

Il grido di Tappo confermò tutte le sue paure. Con uno slancio che non credeva possibile ai suoi muscoli stanchi e doloranti, si rimise in fretta gli abiti di cuoio temprati e infilò la Colt nella fondina, prima di schizzare in corridoio.

«Resta qui, vado da Tappo!» Esclamò a Pimpi, che confuso e disorientato era appena uscito dalla sua stanza, ancora avvolto in una sottile calzamaglia di lino, se possible in condizioni ancora peggiori di quella di Tigro.

«Qual'è la situazione? Cosa sta succedendo?» Chiese la tigre frettolosamente dopo aver salito la scala a pioli più in fretta che poteva. Seduto al suo sgabello sotto una tettoia improvvisata con vecchie lamiere, un grosso binocolo in una mano e il fedele Winchester ad avancarica nell'altra, Tappo guardava l'orizzonte con aria preoccupata, tentando di distinguere sagome lontane alla luce fioca della luna, avvolta da rare nuvole scure che attraversavano il cielo desertico.

«Non credo siano più di una dozzina, da quel che riesco a vedere. Ma...»
«Ma?»
«Non sono a piedi, T. Stanno venendo qui con dei mezzi a motore.»
«Maledizione

Non erano in molti ad usare ancora mezzi a benzina, in quel mondo dimenticato da Dio. Rari sopravvisuti, più spesso qualche predone del deserto, intento a sfruttare il mondo morente nelle maniere più perverse possibili. Ma Tigro sapeva, in cuor suo, che non si trattava di semplici razziatori. Non erano così fortunati.

«La banda di Cangu?»
Tappo esitò.
«...si. Le sagome corrispondono.»

Tigro avrebbe voluto gridare al cielo la sua frustrazione, o lasciarsi andare alla disperazione come faceva Ih-Oh già da un pezzo, ma sapeva di non poterlo fare. Tutto il gruppo contava su di lui per guidarli, per dar loro un punto fermo sul quale contare... specialmente da quando lui era sparito. 

«Corri al piano di sotto, avvisa Pimpi ed Ih-Oh. Preparate tutto per l'assedio, io sgombero qui e vi raggiungo.»

Prima che Tappo scomparisse nella botola, Tigro stava già accatastando tutto ciò che era in grado di trasportare in un solo viaggio, pezzi di legno da utilizzare per bloccare le porte, munizioni per il fucile dell'amico coniglio; il tutto mentre una lenta disperazione saliva dalle dita dei piedi come i morsi dell'ipotermia, così anacronistica in quel deserto afoso.

Nessuno sapeva perché Cangu e i suoi non fossero dei semplici cadaveri ambulanti senza cervello, come gli altri poveri disgraziati afflitti dal Morbo. Nessuno sapeva perché in loro la malattia si era sviluppata più come una sottile lama nel cervello, una malvagità che cresceva in maniera esponenziale con il decadimento dei loro corpi. Non-morti senzienti, ma senza un briciolo degli uomini e degli animali che erano stati un tempo.  

Tigro ricordava che Pimpi aveva delle teorie al riguardo, ma in fondo, nessuno lo sapeva e a lui non importava: quel che contava è che Cangu e la banda di depravati di cui si era circondato rappresentavano problemi. Grossi problemi, che ora per la prima volta erano giunti fino alle loro porte; alle loro fragili, patetiche mura di Jericho scolpite nel legno marcio di un vecchio ranch del Mojave. 

CRACK

Pimpi aveva appena finito di fissare con dei chiodi l'ultima tavola di fronte alla finestra grande del salone, quando la prima bottiglia di birra sbeccata s'infranse contro i vetri della suddetta mandandoli a spargersi sulla veranda.

«Vieni fuori, Tigro! Sappiamo che sei li! Vogliamo solo... invitarti a cena!»
«Già, tu sei la portata principale, KHAW KHAW KHAW!»

Le loro risate gutturali, rese distorte dai corpi nel pieno della putrefazione, imbrattarono l'aria di suoni volgari e depravati, superati soltanto dall'orrore del loro fetore. Da una fessura tra le assi, Tigro poteva facilmente scrutare i loro volti scarniti, lo sguardo un tempo colmo di gioia del suo vecchio amico canguro ora somparso in due giganteschi buchi neri. 

Sul volto di Cangu, la poca pelle che bastava a malapena per tenere su le grosse orecchie consumate s'incrinò in un ghigno diabolico, mostrando i denti gialli e sporchi. Alle sue spalle alcuni dei suoi uomini, putrescenti quanto lui, stavano tirando giù delle grosse taniche di benzina dai loro mezzi di fortuna, dei grossi Dune Buggy modificati per l'occasione con pezzi di carne e spuntoni fatti in casa.

Tigro ebbe un mancamento, impallidendo visibilmente sotto la pelliccia. Sapeva cosa stavano per fare.

«Ehi, Tappo è ancora lì con te?!» Esclamò Cangu, trattenendo a malapena un'altra delle sue sporche risate. «Perché stiamo per stanarvi tutti come lepri!»

All'interno del ranch, tutte le candele e le lanterne erano state spente, in un tentativo vano di dare l'idea che non ci fosse nessuno, ma anche nella fioca luce proveniente dai fari dei mezzi della banda di Cangu, Tigro poteva chiaramente scorgere la disperazione nei volti dei suoi compagni di sventura. Ih-Oh, seduto in un angolo, cominciò a singhiozzare a quelle parole. Doveva aver capito anche lui.

Non c'è più niente da fare, pensò la tigre. Forse dopo tanto tempo, dopo tutto quello che avevano fatto per sopravvivere, era giunto il momento che tutti temevano sin dall'inizio: quello in cui avrebbero dovuto usare i proiettili restanti per se stessi, piuttosto che cadere preda delle fauci di un loro vecchio amico. I tristi giochi del destino, in un mondo finito da tempo. 

BWAAAAAAAM.

L'esplosione illuminò per un lunghissimo secondo l'interno del ranch, durante il quale tutti, compreso Ih-Oh, si affrettarono verso le finestre per vedere cosa stava succedendo attraverso le fessure delle pesanti assi che vi avevano applicato.

Con suo immenso stupore, Tigro constatò che una delle taniche era appena esplosa tra le mani di uno degli uomini di Cangu, coinvolgendo nell'esplosione almeno altri due. L'inferno di fuoco scatenato dall'esplosione stava rapidamente attecchendo sopra uno dei Buggy, ma il gruppo era troppo distante dalla veranda perché potesse minacciare il ranch.

«Che diavolo sta succedendo?!» esclamò Cangu nel suo innaturale tono mortuario. Di tutta risposta, il più vicino dei suoi leccapiedi si ritrovò con un dardo incendiario conficcato nella testa. Cadde senza emettere un suono mentre il cranio si scioglieva in preda alle fiamme.

«Ritirata! Ritirata!!» come un gruppo di lepri spaventate dall'improvvisa apparizione del leone, i Non-morti che prima facevano i gradassi e sghignazzavano come iene si ritrovarono a correre per salvarsi la vita, afferrati dal cupo terrore della morte che pensavano di non poter più provare.

Tigro osservò tutta la scena, troppo incredulo per essere felice di ciò che stava succedendo, maledicendo il fatto che le fessure non gli permettessero di capire da dove provenivano quei dardi. Quando finalmente il Dune Buggy ancora intero si allontanò portando quel che restava della squadra, si lasciò dietro solo la carcassa fumante dell'altro mezzo improvvisato e una manciata di cadaveri, tutti con l'immancabile dardo conficcato all'altezza della testa. Una sagoma, finalmente, apparve nel fumo. 

Senza aspettare, Pimpi esclamò un acuto «Siamo salvi!» e sfrecciò ad aprire la porta bloccata da numerosi chiavistelli di cui si liberò con una velocità che sorprese Tigro. Prima che lui potesse dire qualcosa, il suino era già in veranda ad accogliere a braccia aperte il presunto salvatore. Tigro, ancora preoccupato, lo rincorse tentando invano di fermarlo con un «Aspetta!» a mezza bocca.

Davanti a loro, mentre Ih-Oh e Tappo scrutavano intimiditi, nascosti dalle tenebre all'interno del ranch, si parò uno spettacolo surreale: una ragazza dai capelli rossicci stava al limitare della veranda, con un ghigno sul volto e una balestra in spalla. Portava quello che un tempo doveva essere stato un maglione non troppo interessante, ma che gli anni avevano trasformato in una bizzarra t-shirt a collo alto, priva di maniche e di un arancione chiaramente sbiadito. Anche la gonna, rossa e a pieghe, aveva più di uno strappo e a tratti penzolava come un pareo.

A completare il quadretto, dei pesanti anfibi che cozzavano con il resto, un paio di occhiali da vista chiaramente riparati con del nastro adesivo in più punti e un gigantesco, terrificante alano alle sue spalle, che con aria noncurante annusava i corpi semi-carbonizzati dei membri defunti (questa volta per davvero) della banda di Cangu, probabilmente alla ricerca di qualcosa che fosse ancora commestibile. 

«Io sono Velma, questo è Scooby» disse, la testa piegata all'indietro e le labbra in un sorriso saccente: «ma voi potete anche chiamarci "Grazie mille per averci salvato il culo."»

 
Winnie The Pooh & Scooby Doo:
I Giorni dell'Apocalisse.
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