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Autore: _ayachan_    30/08/2008    31 recensioni
A cinque anni dalle vicende de "Il Peggior Ninja del Villaggio della Foglia", che ne è stato delle promesse, dei desideri e delle recriminazioni dei giovani protagonisti?
Non si sono spenti con l'aumentare dell'età. Sono rimasti sotto la cenere, al caldo, a riposare fino al giorno più opportuno. E quando la minaccia è che la guida scompaia, quando tutt'a un tratto le scelte sono solo loro, quando le indicazioni spariscono e resta soltanto il bivio, è allora che viene fuori il carattere di ognuno.
Qualunque esso sia.
Versione riveduta e corretta. Gennaio 2016
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'eroe della profezia'
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06/01/2016

ATTENZIONE - PREMESSA INDISPENSABILE!


Buongiorno a tutti e buon anno!
Dopo qualcosa come sei anni dall'ultimo aggiornamento torno a prendere in mano questa storia per darle un degno (si spera) finale.
Per farlo, purtroppo, è stato necessario un corposo lavoro di restyling che è durato circa due anni. Volevo una storia che mi convincesse, a cui potessi dedicarmi con passione e non storcendo il naso, e per farlo ho dovuto praticamente riscriverla. C'erano sottotrame macroscopiche che mi infastidivano e dettagli che non mi piacevano, così ho tirato su le maniche e mi ci sono messa con impegno.
E' stata dura. Non volevo cancellare completamente quello che era stato fatto, ma volevo anche che si sentisse il nuovo amore che ci ho messo. Tanti anni fa, quando ho scritto questi capitoli per la prima volta, ero in un periodo difficile della mia vita e faticavo tantissimo a trovare l'ispirazione. Mi hanno detto che si percepiva, e in effetti devo ammettere che è vero. Spero che oggi le cose siano diverse, anche se vorrei aver mantenuto le atmosfere che erano state il successo della prima versione.
I capitoli verranno pubblicati inizialmente a piccoli gruppi (per non annoiare i vecchi lettori ma nemmeno scoraggiare i - forse - nuovi), poi, una volta raggiunto il punto in cui la storia diventa a tutti gli effetti inedita, rallenterò inevitabilmente il ritmo. Per il momento vi rassicuro dicendo che sono pronti già 31 capitoli... sempre che non la vediate come una minaccia!
Ricordo a tutti che questa storia è concepita come una prosecuzione alternativa di Naruto. Considerate che praticamente non tiene conto degli eventi dello Shippuuden (quindi Jiraya e Asuma sono vivi e vegeti), e soprattutto è il seguito di altre due storie precedentemente pubblicate: "Sinners" e "Il peggior ninja del Villaggio della Foglia"... Che sono scandalosamente lunghe, e quindi non vi biasimerò se interromperete qui la lettura.
Per ragioni personali molto forti, inoltre, non ho intenzione di cancellare i capitoli fino al 35, ma li lascerò vuoti e in sospeso fino al momento in cui saranno riempiti. Quei capitoli portano le tracce di qualcuno che non c'è più, e voglio che non scompaiano.
Prima di lasciarvi alla lettura, un'ultima cosa: in questi giorni ho riletto le recensioni a "Sinners" e ad altre opere che ho pubblicato in passato. Se qualcuno di quegli antichi lettori si trovasse a scorrere queste righe, sappiate che vi ringrazio dal più profondo del cuore. Mi sono commossa rileggendovi. Vorrei tanto riuscire a darvi di nuovo una cosa altrettanto coinvolgente e trascinante. Grazie a tutti! Mi avete fatto riassaporare la vecchia atmosfera di efp, quando il fandom di Naruto era casa mia e i buoni autori si conoscevano tutti tra loro... Grazie davvero.




Clà, tutto questo è dedicato a te.












Prologo




Era rimasto così poco di quel tratto di foresta.
Lo sguardo spaziava per centinaia di metri percorrendo una desolazione quasi assoluta, sorvolava tronchi anneriti, foglie accartocciate che turbinavano nella brezza, dune di cenere che si alzava e mulinava infilandosi giù per la gola. Un deserto bianco e nero.
Ma, nei suoi occhi, ancora scarlatto, oro e giallo. E rovente.
Eppure in quel momento faceva freddo. La pelle d’oca sulle sue braccia non era dovuta alla paura, all’ansia, all’angoscia che aveva provato davanti alle fiamme, ma soltanto al vento gelido che soffiava sullo spiazzo. Un tuono rombò tra le nubi basse. I lampi correvano da una parte all’altra del cielo, inseguendosi rapidi come un battito di ciglia. La prima goccia di pioggia cadde su un mucchietto di cenere; uno sbuffo bianco si sollevò nell’aria, poi un altro e un altro ancora. Nel giro di pochi minuti il terreno si trasformò in un pantano grigio e vischioso in cui i resti di legno carbonizzato emergevano come isolotti solitari.
Kotaro non sentiva le gocce che picchiettavano sulle sue spalle né i capelli che si appiccicavano alla nuca. Non sentiva il freddo, anomalo per quel mese, insinuarsi sotto i vestiti, sotto le bende, fino alla carne, non sentiva nemmeno il suo cuore che batteva. Nelle orecchie avvertiva soltanto il rombo lontano dell’incendio, davanti agli occhi vedeva divampare le fiamme. Abbassò lo sguardo allontanandolo dai resti lasciati dal fuoco, e rivoletti d’acqua gelida gli corsero lungo il collo senza strappargli alcun brivido.
Si sentiva inutile. Debole e inutile. Per questo i ricordi trovarono il modo di insinuarsi ancora una volta oltre le sue deboli difese.

Lingue di fiamma s’alzavano e abbassavano con ritmo irregolare, risucchiando l’aria e la vita stessa, portando via anni, sentimenti, tutto un passato. Parole dolorose gli rintronavano in testa, ossessive e terribili. Avevano sbagliato qualcosa; no, lui aveva sbagliato tutto. Sentiva il calore del fuoco sulla pelle, il dolore dei polmoni che cercavano ossigeno, eppure avanzava, stordito, incapace di comprendere, di realizzare; avanzava e gridava la forza della sua convinzione, anche se quella forza defluiva come un torrente ad ogni nuovo passo.
Alla fine cadeva, impotente. Cadeva, precipitando nel nulla più oscuro...

«Maledizione...» mormorò tra i denti serrati convulsamente. «Maledizione!» ripeté in un grido, il collo teso e i muscoli doloranti, i capelli che stillavano gocce d’acqua gelida.
Una fitta alla schiena lo colse impreparato, saettando lungo la spina dorsale ed espandendosi dalla testa ai piedi; le gambe cedettero e cadde in ginocchio, affondando nella cenere impastata. Ansante, sentì le mani immergersi nella poltiglia sotto di sé - cadaveri - e ne provò disgusto.
«Non doveva finire così!» ansimò, stringendo i pugni attorno alla melma grigia. «Non così!»
In quel momento, ancora offuscati dai residui del dolore, i suoi occhi distinsero qualcosa accanto allo scheletro di un tronco. Con gesto automatico Kotaro tese la mano e lo estrasse dalla cenere. Era una piuma, un oggetto tanto fuori dal contesto da sembrare surreale. Una piuma sporca, bagnata, grigia, ma sorprendentemente intatta. Sapeva qual era il suo vero colore oltre la crosta.
«Non doveva essere così...» gemette di nuovo. Le sue spalle si piegarono sotto il peso del rimpianto, di tutto quello che avrebbe potuto fare e non aveva fatto, delle promesse non mantenute e della delusione cocente della realtà sbattuta in faccia.
Un’ombra, nascosta tra gli alberi poco distanti, sorrise nell’oscurità. Un lampo fece brillare sinistramente una fila regolare di denti bianchi e poco più in basso, tra le dita, barlumi di metallo affilato.
«Hai perfettamente ragione.»
Un sibilo veloce, che si confuse con lo scroscio della pioggia, e il breve luccichio della lama che fendeva l’aria.
Un tonfo leggero e attutito, un gemito involontario.
Dalla sua posizione tra i rami l’ombra vide il kunai affondare nel dorso dello shinobi, infilandosi tra le coste e perforando i polmoni. Le sue labbra si incresparono di nuovo mentre il ragazzo cadeva riverso in avanti, gli occhi stupiti che si accecavano nella poltiglia grigia.
Uno sbuffo di fumo disperso dall’acqua e l’ombra scomparve.
Testimoni di ciò che era accaduto restarono soltanto la pioggia, e piume nella cenere.
















Piume nella cenere






Capitolo primo

Festa di compleanno




Singhiozzi sommessi, fruscii impercettibili di piedi che scivolano sul legno.
«No, per favore no...»
Una supplica, fatta con voce tremante e quasi impercettibile da un angolo del pavimento polveroso.
Non era una vera e propria capanna. Era più un riparo di fortuna, quattro assi messe insieme per difendersi dalle intemperie. C’era uno spiraglio che fungeva da finestra sulla parete opposta alla porta, ma era sprangato e lasciava entrare soltanto listarelle di luce grigia in cui la polvere si muoveva lentamente.
«Ti prego, lasciami andare... Non uccidermi, per favore, non volevo nulla di tutto questo...» Di nuovo la stessa voce di ragazza, il fruscio irregolare, un respiro spezzato nella penombra. «Ti prego!»
In un altro angolo giaceva un involto macchiato di sangue, gettato con malagrazia sul pavimento ammuffito e lì dimenticato. Un’ombra si muoveva nello spazio ristretto della baracca.
«Zitta» sibilò malevola prima di raggiungere la finestra sprangata e guardare fuori.
Nella foresta regnava la quiete del mattino, nulla si muoveva tra le foglie. Una risata tagliò l’aria viziata.
«Li abbiamo seminati, eh?» chiese la voce. Il suo proprietario, un uomo giovane dalla barba mal rasata, si passò una manica sulla fronte imperlata di sudore. Con passo leggero raggiunse l’angolo da cui proveniva il pianto sommesso e si accucciò appoggiando i gomiti alle ginocchia. Un raggio di luce gli attraversava la faccia da zigomo a zigomo, evidenziando gli occhi affilati e un coprifronte con inciso il simbolo della Roccia. «Su, non fare così. Guarda il lato positivo: non dovrò ucciderti per creare un diversivo.»
Un gemito si sollevò dal corpo che tremava nell’angolo. «Per favore! Non volevo nemmeno fare questo lavoro, io volevo solo vivere una vita tranquilla! Lasciami andare, ti prego...» implorò la voce, e una mano leggermente abbronzata si tese nel raggio di luce verso il ninja della Roccia.
«Lasciarti andare?» rise quello, afferrando il polso che si protendeva verso di lui. Con il pollice accarezzò rudemente il palmo graffiato. «Ma no» decise, socchiudendo le palpebre. «Ho un’idea migliore.»
L’uomo tirò a sé il braccio, e il corpo di ragazza ad esso attaccato fu strattonato avanti contro la sua volontà. Capelli neri trattenuti da una coda alta frusciarono sul pavimento polveroso mentre la mano libera frenava la caduta all’ultimo secondo.
«Come kunoichi sei pessima, ma non sei male come femmina» commentò l’uomo tirandola in ginocchio a forza. «Quindi, visto che i tuoi compagni ti hanno abbandonata, posso occuparmi io di te, almeno per un po’» le sollevò il mento, facendo in modo che la luce fioca le illuminasse il viso, scorrendo su occhi neri spaventati e una cicatrice che tagliava il sopracciglio sinistro in una linea quasi bianca.
«Per favore, non...» iniziò la ragazza aggrappandosi alla sua divisa da Jonin, ma lui bruscamente strinse le mani sulle sue braccia.
«Com’è che ti chiamavano?» chiese ignorando le sue lacrime. La spinse schiena a terra, scivolando carponi su di lei. «Ah, ora ricordo...» nella penombra sporca e polverosa sorrise come davanti a un’importante conquista, e il nome che arrotolò sulla lingua aveva una morbidezza lasciva da far accapponare la pelle: «Chiharu, giusto?»


«Non arriveremo mai in tempo.»
Ansiti veloci, mescolati al fruscio delle foglie e agli schiocchi dei rametti spezzati sotto i piedi. Quando i ninja si muovono sono rapidi e silenziosi, ma quando sono di corsa riescono ad essere soltanto rapidi. Era un gruppetto compatto ma frettoloso quello che balzava in quel momento da un ramo all’altro della foresta, seguendo una pista quasi invisibile. Sui coprifronte di tutti i membri balenava il simbolo della Foglia, alle cinture erano appesi kunai e shuriken.
«Dici che non ce la facciamo?» domandò lo shinobi alla guida del gruppo stirando le labbra in un sorriso.
«Sì invece» disse tra i denti quello che lo seguiva più da vicino, un ragazzo dalle sopracciglia incredibilmente folte e dal taglio di capelli curiosamente ovoidale. «Dobbiamo solo aumentare la velocità!»
«Aumentarla ancora? E che facciamo, lasciamo indietro i polmoni?» ansimò il compagno alle sue spalle, un giovane dai lineamenti morbidi decisamente più attraente ma anche più affaticato.
«Non ti alleni abbastanza, Hitoshi!»
«Mi piace restare entro i limiti umani!»
«Se avete fiato da sprecare possiamo davvero aumentare il passo» intervenne lo scompigliato biondo che li guidava, scoccando a entrambi un’occhiata ghignante. Sembrava il più anziano dei tre, ma tutto nel suo atteggiamento provava a nasconderlo.
«Piano con le minacce!» gridò dal fondo una quarta voce, femminile questa volta. Qualche ramo più indietro l’unica ragazza del gruppo arrancava ansimando, con un solco di disappunto disegnato in mezzo alla fronte. Sopra l’occhio sinistro una cicatrice le tagliava il sopracciglio in verticale; sotto, un livido violaceo faceva bella mostra di sé. Il suo nome era Chiharu Nara.
«Non fare la pigrona, questo è tutto lavoro di gruppo» sentenziò il biondo con aria di rimprovero.
«E poi è colpa tua se siamo in ritardo» aggiunse quello che chiamavano Hitoshi, il ragazzo attraente che correva poco più avanti. «Tua e dei tuoi errori di calcolo» insinuò, sventolandole davanti lo stesso involto macchiato di sangue che era stato nella capanna polverosa.
La kunoichi sul fondo lo fulminò con lo sguardo. «Non ho sbagliato nulla» sbottò. «Era tutto previsto.»
«Anche il livido su quello zigomo? E’ davvero poco elegante.»
«Non confonderti, Uchiha, non stiamo parlando della tua faccia. Io non passo mezzora davanti allo specchio ogni mattina pensando a quanto sono affascinante.»
«Beh, è evidente che possiamo andare almeno al doppio dell’attuale velocità» li informò il biondo interrompendoli.
«Allenamento!» approvò lo shinobi dalle sopracciglia folte con un brillio di entusiasmo nello sguardo.
«Asp...!» iniziò la ragazza, ma non era arrivata ancora alla quarta lettera che l’intero gruppo era schizzato avanti. «Io li odio!» ringhiò tra i denti, e suo malgrado aumentò il passo.

Sarebbero dovuti passare di lì più di un’ora prima, secondo i piani.
Stavano portando a termine una delle banali missioni di livello A in cui dovevano recuperare un documento che una spia aveva sottratto ai loro archivi. Erano partiti all’inseguimento del ladro guardando l’orologio ogni mezzora, perché quella sera avevano un impegno a cui nessuno di loro voleva mancare, poi però avevano avuto il classico minuscolo intoppo che capita sempre quando si ha fretta: la spia si era rivelata più in gamba del previsto, la caccia si era trasformata in uno scontro all’ultimo sangue e loro avevano realizzato che non sarebbero mai tornati a Konoha in tempo.
Così Chiharu se ne era uscita con la sua brillante idea: fingere un errore, lasciarsi prendere in ostaggio, mostrarsi debole e impaurita e quando il ninja della Roccia avesse abbassato la guardia neutralizzarlo in fretta e senza tante storie. Era sembrato un buon piano finché non si era ritrovata sotto il nemico, con il suo alito acido a solleticarle il naso e un sasso scomodamente conficcato tra le reni. Allora aveva cercato di concludere in fretta con un calcio ben piazzato tra le gambe, ma l’altro, tra contorsioni di bruciante agonia, aveva tentato di ribattere con un pugno dritto in faccia, da cui il livido.
Quando il resto del gruppo aveva raggiunto la baracca nel bosco, dello shinobi rimaneva soltanto un fagotto tumefatto.
Ha fatto una cosa molto stupida” era stata la spiegazione di Chiharu, che continuava a tastarsi lo zigomo pulsante di dolore.
Spero di non farne mai, quando ci sei tu nei paraggi” aveva risposto Naruto.


*


«Shh! Sei rumorosa quanto un branco di pecore!» sibilò una vocina irritata nell’oscurità.
«Gregge, non branco» la corresse un’altra.
«E’ la stessa cosa!»
«Di chi è il gomito nel mio stomaco?» chiese una terza voce, soffocata.
«Scusa» rispose una quarta.
Qualcuno sbuffò, e le foglie frusciarono scuotendo l’intero cespuglio.
«Ma perché mi sono lasciata coinvolgere?» mugugnò una quinta voce, leggermente più indietro.
«Zitta, Mei!» sibilò la prima. «Finalmente riusciamo a vedere qualc... oh!» squittì all’improvviso, eccitata. «E’ arrivato!»
Un breve sconvolgimento di rami e radici, e quattro corpi in posizioni contorte si ammassarono su un unico lato, sporgendosi fin quasi oltre il riparo offerto dalle foglie. Un sospiro collettivo si levò da otto polmoni diversi.
«E’ sempre il più bello» commentò una voce sognante.
«Beh, il termine di paragone è mio fratello» bofonchiò quella che prima si era lamentata. «Chiunque ne uscirebbe vincitore.»
«Zitta! Vuoi farci scoprire?» insorse di nuovo la prima voce, e il volume questa volta fu così alto da essere chiaramente udibile.
«Ha guardato di qua!» strillò un’altra con un misto di eccitazione e panico nel tono. «Oddio, si sta avvicinando!»
«Via!»
Altro burrascoso ammassamento di rami, braccia e gambe che si incastrano. Tra sibili e imprecazioni quattro ragazzine sui quattordici anni emersero dal cespuglio con le acconciature irrimediabilmente rovinate e le braccia coperte di graffi. Inciamparono nei loro stessi piedi, si insultarono e infine piombarono a terra sbattendo il naso sul terriccio umido.
«Bene bene... Violazione di domicilio, direi» commentò una voce flautata sopra di loro.
Quattro paia di occhi seguirono il contorno di un paio di piedi protetti da sandali neri, risalirono lungo le caviglie scoperte, i polpacci muscolosi e le gambe fasciate in pantaloni al ginocchio; e poi su, lungo la maglia a rete e il top che copriva il seno, fino a un viso terribilmente noto e spaventoso. Un viso il cui sopracciglio sinistro era tagliato da una cicatrice trasversale e che aveva un livido violaceo a decorarlo.
Chiharu Nara fissò le quattro intruse con un sorriso che sarebbe stato dolce se non fosse stato platealmente falso.
«Volete un pasticcino?» chiese accucciandosi alla loro altezza. «E’ la mia festa di compleanno, no? Siete venute fin qui, almeno mangiate qualcosa.»
«Ecco, noi, veramente...» balbettò la ragazzina sotto le altre, a corto di fiato.
«Dai, lasciale andare» sbuffò una voce alle spalle di Chiharu.
Le quattro a terra sentirono il cuore rimbalzare dalla gola all’osso sacro. Con timore e reverenza si spostarono in modo da vedere oltre le spalle della ragazza, per scoprire che si trovavano a meno di un metro dal protagonista indiscusso dei loro sogni d’amore, dall’obiettivo della missione di spionaggio di quella sera, dal sacro idolo che abitava le fantasie delle femmine di Konoha dai dodici ai vent’anni: Hitoshi Uchiha, in tutto il suo splendore di affascinante erede del clan Uchiha, per l’occasione di bianco vestito.
Se non fossero già state a terra sarebbero svenute sul posto.
«Si sono imbucate alla mia festa» disse Chiharu lamentosamente, appoggiando un gomito al ginocchio e il mento sulla mano. «Che almeno rubino qualcosa dal rinfresco.»
«Noi non volevamo...» pigolò una delle ragazzine, arrossendo fino alle orecchie.
«Farvi scoprire?» suggerì la kunoichi.
«Suppongo di no» commentò Hitoshi, le mani affondate in tasca. Gettò un’occhiata al cespuglio da cui le quattro erano spuntate e vide una quinta sagoma rannicchiata nella speranza di diventare invisibile. «Una c’era quasi riuscita.»
La ragazzina nell’ombra sospirò, rassegnandosi all’inevitabile, e di malavoglia scostò i rami e si tirò in piedi.
«Mei?» si sorprese Chiharu.
«Ci tengo a precisare che mi hanno coinvolta contro la mia volontà!» brontolò lei arrossendo, e cercò inutilmente di liberare i capelli corti dalle foglie che erano rimaste impigliate.
«Me lo auguro, visto che tu avevi un invito ufficiale e lo hai rifiutato» commentò Chiharu.
E certo che l’aveva rifiutato. Una quattordicenne a disagio alla festa dei diciotto anni della kunoichi più odiata e invidiata di Konoha, soltanto perché condivideva almeno il sette per cento del patrimonio genetico con un suo compagno di squadra? Quell’invito le era arrivato solo per dovere, solo perché era il quarto membro della famiglia Lee: non si sarebbe mai sognata di prenderlo sul serio.
«Le porto via» borbottò accennando alle ragazzine a terra. «Scusate il disturbo.»
«Ma no, è stato divertente» ghignò Chiharu, strappando un brivido alle intruse. «Tanto questa festa è un mortorio.»
Mei aiutò le amiche ad alzarsi, sospirò e rispose svogliatamente al cenno di saluto di Chiharu. Le altre si allontanarono incassando la testa tra le spalle e lei le seguì cupamente.
«Perché diavolo mi sono lasciata trascinare?» borbottò tra sé e sé.

File di lucine gialle correvano al di sopra del giardino dei Nara intrecciandosi in corrispondenza di tavoli e sedie. Il cielo terso era solcato da una mezza luna piccola ma nitida, e un’arietta leggera portava tutt’intorno l’odore dei pruni selvatici che fiorivano in abbondanza nella vicina foresta del clan.
Il due maggio, alla festa di compleanno di Chiharu Nara, era presente metà della nobiltà di Konoha: i soli membri dei clan Hyuuga, Uchiha e Uzumaki avrebbero costituito di per sé materiale pregiato, ma per alzare la posta erano anche circondati da storici eroi della Foglia e personaggi dalle parentele illustri.
Al centro delle attenzioni c’era il capogruppo della festeggiata, il biondo Naruto Uzumaki, che si dava da fare per intrattenere gli ospiti raccontando chissà quale storia di gioventù. Da quando le sue missioni erano diventate ben poco allegre e molto condite di sangue e feriti aveva preferito variare il tema e buttarla sul ridere raccontando degli esordi. Sua moglie, ex membro del nobilissimo clan Hyuuga, era seduta a breve distanza accanto a Yoshino Nara, e di tanto in tanto alternava un’occhiata al marito e una ai tre figli che li accompagnavano, impegnati nella meticolosa esplorazione del giardino.
Appollaiati sulle varie sedie messe a disposizione dai Nara e sistemati in cerchio attorno a Naruto c’erano i Lee, marito e moglie, gli Akimichi, i coniugi Uchiha, Shikaku Nara e ovviamente i padroni di casa. Il tavolo degli stuzzichini era posizionato strategicamente a portata di mano di Choji Akimichi.
Eppure, nonostante la festa fosse per i diciotto anni di Chiharu, l’età media degli invitati era ben al di sopra dei vent’anni.
«Hai ragione, è un mortorio» dovette convenire Hitoshi dall’angolo scuro in cui aveva scoperto le piccole spie con Chiharu. «I racconti di Naruto fanno ridere solo chi c’era allora.»
«E’ già un miracolo che alla fine siamo arrivati in tempo. E poi meglio soli che male accompagnati» citò Chiharu in un tono che non convinceva neanche lei.
«La classica scusa degli asociali» sorrise lui scoccandole un’occhiatina di superiorità. «E comunque non sono del tutto certo che la compagnia qui sia ottima...»
Con un cenno del mento indicò il tavolo degli alcolici, dove Kotaro cercava di fare l’indifferente e intanto studiava ogni etichetta, ma soprattutto indicò il ragazzo biondo che si versava un bicchiere di sakè a qualche passo da lui. Doveva avere più o meno la loro età, e il colore dei suoi capelli era così acceso da indurre chiunque a definirlo giallo, più che biondo.
«A me Yoshi piace» commentò Chiharu in tono un po’ sostenuto.
«Bah» fece Hitoshi, frugando nelle tasche alla ricerca di qualcosa. «Almeno non c’è Sai» bofonchiò tirando fuori un pacchetto di sigarette.
Chiharu non commentò. Se non aveva invitato lo shinobi più impassibile di Konoha pur avendo invitato quasi tutti i suoi coetanei era per una buona, anzi un’ottima ragione.
«Allora, finalmente ti sei decisa a dare quel benedetto esame?» chiese Hitoshi dopo essersi acceso la prima sigaretta. Inspirò una boccata ed espirò, osservando il fumo che saliva lento verso la luna.
«No» rispose lei in tono vago.
«Mi fai incazzare... Sai che è praticamente una formalità, ma sei così pigra che non hai voglia nemmeno di iscriverti.»
«A che mi serve essere Jonin? Tanto le missioni di livello A me le danno comunque, dov’è il problema?»
«Non c’è nessun problema» disse Hitoshi mellifluo. «Se non che sulla carta io e Kotaro siamo a un livello superiore.»
Chiharu lo guardò storto. «Se questa è la tua strategia ti informo che non funzionerà due volte. Mi sono già fatta fregare con l’esame per Chunin, non ripeterò lo stesso errore.»
Qualche anno prima, in occasione delle selezioni per passare di grado, Kotaro e Hitoshi non solo avevano iscritto la reticente compagna a sua insaputa, ma erano anche riusciti a sobillarla nel bel mezzo di una prova, spingendola a darsi da fare per superarla come se ne andasse della sua vita. Era bastato farle trovare davanti Baka Akeru e la sua debordante strafottenza, aggiungere qualche parolina discreta, e Chiharu si era subito infiammata. L’esame poi era finito in fretta.
Hitoshi si strinse nelle spalle e sbuffò. Chiharu era l’unico essere umano in grado di farlo incazzare in meno di cinque parole di senso compiuto. Meglio di lei c’era solo Baka, ma lui partiva avvantaggiato perché era odioso a prescindere. Irritato, l’Uchiha aspirò una boccata dalla sigaretta e si massaggiò una tempia con le dita.
«Emicrania?» chiese Chiharu, appigliandosi alla prima distrazione per cambiare discorso.
«Colpa tua» bofonchiò lui.
«O magari della tua testaccia bacata» replicò lei puntigliosa. «Inizio a pensare che ti piaccia soffrire, visto che hai una madre medico e ti ostini a non farti fare un controllo come si deve. L’autolesionismo è un problema, sai?»
Hitoshi studiò per qualche istante la sua sigaretta, senza commentare, poi aggrottò la fronte. «Sta’ zitta, stupida: non si scherza su queste cose.»
Chiharu sospirò. «Guardandoti capisco quanto sono fortunata ad essere figlia unica.»
Hitoshi sorrise amaro e lasciò cadere a terra il mozzicone ormai esaurito, calpestandolo sotto un piede. Alzò lo sguardo per controllare che il cespuglio che lo nascondeva alla vista dei suoi genitori fosse ancora al suo posto, quindi scrollò le spalle.
«Dovresti compiere il tuo dovere di festeggiata e farti vedere tra gli invitati» mormorò ravvivandosi i capelli scuri.
«Giusto. E fermiamo Kotaro prima che porti via una bottiglia di sakè» sospirò lei accennando alla zona alcol.
Insieme si avviarono verso l’angolo del giardino da dove provenivano le risate degli adulti, e Chiharu sorrise a Naruto che le faceva cenno di avvicinarsi.
«Penso io a Kotaro» le disse Hitoshi separandosi da lei.
Il tavolo degli alcolici era poco distante da quello degli stuzzichini, ma lì le risate giungevano attutite e le voci smorzate. Hitoshi raggiunse Kotaro alle spalle.
«Lascia perdere, idiota» fu il primo gentile commento che gli rivolse.
Il giovane Lee trasalì e fece un passo indietro.
«Non stavo facendo niente!»
«Lo sai che non puoi toccarne neanche un goccio» replicò Hitoshi, e con gelida perfidia prese un bicchiere e lo riempì lentamente.
«Non è colpa mia se non lo reggo» si lamentò Kotaro affranto. «E’ colpa di papà. Avrebbe dovuto abituarmici pian piano...»
«O magari avrebbe dovuto evitare di trasmetterti i geni sbagliati. Con la sbornia facile poteva passarti almeno la tecnica dell’ubriaco, invece niente» ribatté l’Uchiha, bevendo il primo sorso e ricacciando giù le spontanee smorfie di disgusto. Non era un grande amante dell’alcol, ma stuzzicare Kotaro era uno dei suoi passatempi preferiti.
«Tuo padre invece ti ha trasmesso la simpatia» brontolò Kotaro tra i denti.
Lui e Hitoshi rimasero in silenzio per qualche minuto, fissando gli adulti che ridevano tra loro. Più oltre, nella zona buia del giardino, cinque bambini sbucavano e scomparivano tra i cespugli fingendosi grandi ninja in missione.
«Dov’è Haru?» chiese Kotaro corrugando la fronte.
Hitoshi la cercò con lo sguardo tra gli adulti ma non la trovò, e nel contempo si rese conto che mancava anche un’altra persona. Prima che potesse controllarsi gli sfuggì una smorfia di irritazione.
«Guarda caso è sparito anche lo stupido pulcino» mormorò studiando il sakè nel suo bicchiere.
Kotaro si rabbuiò a sua volta. «Cosa ci trova in lui, poi...»
«Sono idioti uguali, probabilmente. Lei perché è lei, lui perché si è ossigenato anche il cervello quando si è fatto biondo» commentò Hitoshi.
Kotaro si lasciò sfuggire un sorrisino e prese un bicchiere vuoto.
«Kanpai» disse in tono rassegnato, stringendosi nelle spalle.
L’Uchiha toccò il bicchiere con il suo, e la plastica scricchiolò nell’aria tiepida.


«Ok. Nessun pericolo.»
«Nulla nemmeno di qui.»
«Qui neppure.»
«Allarme!»
Cinque sagome balzarono fuori dai cespugli e si avventarono sull’ombra che, incauta, aveva osato avvicinarsi abbastanza da costituire una minaccia. Ci fu una breve colluttazione, infarcita di strilletti acuti, imprecazioni ingenue e tonfi, dalla quale emersero in posizione eretta soltanto due ragazzini.
«Hanno cinque anni!» protestò quella tra i due che sembrava una femmina, additando i bambini che si rialzavano doloranti.
«Mi hanno attaccato» replicò l’altro. «Sapevano cosa aspettarsi.»
«Sì, il trattamento riservato ai bambini di cinque anni!»
«Zitta Hina!» scattò il primo dei piccoli che si era rialzato, premendo una mano sulla guancia arrossata e tenendo le mascelle contratte nel tentativo di impedirsi di piangere. Biondo e scompigliato, aveva occhi di un azzurro molto chiaro ed era probabilmente il più basso del gruppo. «Siamo ninja, sappiamo come funziona!» decretò orgoglioso.
La ragazzina che li aveva difesi grugnì e incrociò le braccia sul petto, roteando gli occhi candidi. «Ninja!» ripeté sarcastica. «Non sai nemmeno raccogliere il chakra, che ninja vuoi essere?»
Il bambino arrossì indignato. «Ho solo cinque anni!» sbottò con voce vibrante d’orgoglio. «Vedrai che quando ne avrò quindici dovrai rispettarmi, stupida sorella!»
«Intanto tu vedi di rispettare me» sibilò Hinagiku Uzumaki facendogli arrivare un pugno sulla nuca. «Forza, andate a giocare altrove, sciò» aggiunse poi, rivolgendosi questa volta anche agli altri tre bambini.
«Io?» balbettò quella un po’ più grande, una bambina con i suoi stessi occhi chiari.
«Anche tu!»
«Sì, andiamocene» con un brillio malvagio il bambino biondo scoccò un’occhiata al ragazzino che aveva cercato invano di attaccare, ora silenzioso e vagamente incuriosito. «Mia sorella deve dire a Jin che lo ama tanto» concluse perfido.
Hinagiku avvampò di rabbia. «Ti ammazzo!» gridò, facendo per avventarsi sul fratello, ma quello con un gridolino sgusciò via.
«Scappiamo!» rise, e corse tutto allegro verso il centro del giardino e la salvezza rappresentata dagli adulti. «Abbiamo tante altre missioni da portare a termine anche senza di te!» aggiunse prima di sparire dietro il tavolo degli stuzzichini, regalandole un’ultima boccaccia. L’altra sorella lo guardò incerta, poi notò gli occhi furenti di Hinagiku e decise di accodarsi in tutta fretta. Gli ultimi due bambini, rispettivamente un maschio dagli sconvolgenti capelli rosa e una femmina castana e paffuta, sbuffarono.
«Stupido Micchan, perché finisce sempre così?» si lamentò la bambina. «Dobbiamo correre, correre e correre quando c’è lui di mezzo...»
«Sappiamo com’è fatto» commentò il bambino stringendosi nelle spalle. Aveva un occhio verde e uno di un rosso intenso, che insieme ai capelli rosa lo rendevano particolarmente poco mimetico. «Andiamo a mangiare qualcosa?» propose.
«Sì!» gli occhi azzurri della bambina si accesero di entusiasmo, e con un ciao frettoloso entrambi corsero via.
Hinagiku digrignò i denti. «Ehi, guarda che non diceva mica sul serio!» scattò subito, fissando ansiosamente il ragazzino che le stava davanti.
Lui ricambiò lo sguardo senza scomporsi, gli occhi blu pacati e vagamente divertiti. «Ma certo.»
«E’ uno stupido bambino idiota!» continuò lei infervorata. «Cioè, pensa te se io devo... Con te, poi, che a volerla dire tutta mi stai anche antipatico!»
«Davvero?»
«No!» si affrettò a negare lei, arrossendo di nuovo. «Cioè, un po’. Ma solo un pochino. Insomma, sei un po’ troppo bravo in... in... beh, in tutto, per essere simpatico.»
«Immagino di sì» constatò lui, riflessivo.
Hinagiku si maledisse mille volte. «Comunque non mi piaci» ci tenne a chiarire assottigliando gli occhi.
«Va bene» l’altro annuì. E lei si sentì un po’ delusa. «Devo ancora dare il suo regalo a Chiharu» continuò lui, cercando la festeggiata con lo sguardo.
Hinagiku sentì un piccolo peso sullo stomaco. Aveva aspettato che Jin Hatake arrivasse per metà della serata, e appena faceva la sua comparsa se ne andava da un’altra? Forse non avrebbe dovuto unirsi al finto attacco dei suoi fratelli, prima; aveva pensato che fosse un modo scaltro per avvicinarlo, ma probabilmente lo aveva solo indispettito.
«Dieci minuti fa stava parlando con il suo amico biondo» borbottò, notevolmente più fredda. «Ora non so dove si siano cacciati.»
«Lo darò a sua madre» Jin la guardò un istante più del dovuto, come se esitasse. «Mi accompagni?»
Hinagiku si illuminò. Accorgendosene schiarì la voce e cercò di darsi un contegno. «Va bene» disse noncurante, stringendosi nelle spalle in maniera così innaturale che si stirò un muscolo del collo. «Comunque ti faccio notare che prima non mi hai atterrata» aggiunse dopo un momento, tutta orgogliosa.
Jin sorrise senza farsi vedere. Era appena rientrato da una missione di livello A insieme a un Jonin che aveva fatto parte degli Anbu. Hinagiku, per quanto avesse solo un anno meno di lui, non aveva ancora finito l’Accademia.
Certe cose non accadono per caso.

«Come al solito!» sbuffò Naruto piegando la testa all’indietro. «Io l’ho sempre detto che quell’uomo non era adatto a fare l’Hokage! Non riesce neanche a liberarsi per un paio d’ore, roba da matti!»
Jin, davanti alla sua sedia, si strinse nelle spalle. «E’ arrivato un blocco di messaggi un attimo prima che finisse di lavorare, così l’assistente lo ha blindato nel suo studio» spiegò. «Sembra che ormai le pile di documenti raggiungano il metro d’altezza, ma potrebbe anche essere una leggenda.»
«Come se non fosse perfettamente in grado di svignarsela!» Naruto rialzò la testa e guardò male Jin, in mancanza di Kakashi. «Te lo dico io: sta sfruttando la situazione per leggere L’esperienza della Pomiciata, l’ultima schifezza che ha sfornato quel vecchio porco di Jiraya!»
«E che anche tu hai letto, prima della pubblicazione» sottolineò una voce alle sue spalle. Chiharu comparve dietro la sua sedia e gli batté una pacca affettuosa sulla spalla.
«Che stai dicendo?» scattò lui, sulla difensiva.
«Jiraya mi ha mostrato la copia da mandare in stampa» spiegò lei con un sorriso. «Se non sbaglio al capitolo tre c’era un tuo commento su una certa scena, che avevi definito... Com’era? Troppo poco...»
«Ehi, la roba che scrive Jiraya non è vietata ai minori?» si intromise Temari Nara, drizzando le orecchie al primo segno di scorrettezza.
«Questa festa non è per i miei diciotto anni?»
«Quindi quando hai letto la bozza non eri affatto maggiorenne! Perché Jiraya non è qui? Devo dirgli un paio di cose...»
«Lascia perdere» gemette Shikamaru, esausto consorte.
«Io non ho lasciato nessun commento sulla bozza del libro!» sottolineò Naruto gesticolando per attirare l’attenzione.
«Ammetti di averlo letto, però» puntualizzò Chiharu.
«No!»
«E tu invece?» sibilò Temari alla figlia.
«Se vado a prendere mio padre semplifichiamo le cose?» propose Jin pieno di buona volontà.
«Ma di che libro parlano?» chiese Hinagiku.
«Allora, sulla quarta di copertina dice che...»
«Non ti azzardare a dire un’altra parola!» strillò Naruto, tappando convulsamente le orecchie di Hinagiku.
Shikamaru esalò un sospiro profondo quanto l’inferno, svuotò il suo bicchiere di saké e lo tese flemmaticamente a Choji perché lo riempisse. E fu allora che emerse il commento più inaspettato di tutti, proprio dal rassicurante, tondo, tranquillo Akimichi: «Io l’ho letto quel libro. Non è scritto male.»


Gli ultimi ospiti se ne andarono quando la luna sfiorava il tetto di casa Nara, disegnando ombre lunghe nei punti del giardino non illuminati. Sul tavolo del buffet restava solo una tovaglia coperta di briciole, su quello degli alcolici bottiglie vuote e bicchieri rovesciati. Le sedie ancora sparse per il prato erano fredde e deserte, una brezza leggera faceva svolazzare un tovagliolo di carta nel silenzio della notte. Davanti al cancello tre sagome parlottavano a bassa voce.
«Come abbiamo potuto distrarci?» sospirò Chiharu scuotendo tristemente la testa.
«Io non so» replicò Hitoshi asciutto. «Ma tu ci riuscivi abbastanza facilmente.»
Lei inarcò un sopracciglio, quindi si lasciò sfuggire un mezzo sorriso, cogliendo il riferimento a Yoshi.
«Un Uchiha geloso, tu guarda» commentò dolcemente, e Hitoshi arrossì nel buio.
«Stronzate» ringhiò. «Buonanotte, eh.»
Kotaro, accasciato sulla sua spalla, gemette nel sonno quando lui si voltò. «Piano...» biascicò in un mormorio, e dalla sua bocca l’odore dolciastro dell’alcol si diffuse nell’aria.
Chiharu guardò i due che si allontanavano, le ombre sovrapposte in un grottesco superuomo bitorzoluto, quindi gettò un’occhiata alla luna alle sue spalle. A giudicare dalla sua posizione dovevano essere quasi le due.
Perfetto.

Shikamaru e Temari Nara, mentre si infilavano sotto le lenzuola discutendo degli inopportuni gusti letterari di Chiharu, pensarono che la loro unica figlia avesse deciso di accompagnare a casa i compagni di squadra per aiutare quello sobrio a trasportare quello ubriaco. Quando non la sentirono rientrare non si preoccuparono né ebbero alcun sospetto. Si limitarono a sbadigliare, posare la testa sul cuscino, rannicchiarsi l’uno accanto all’altro e chiudere gli occhi, la fronte di lei contro la schiena di lui in una diplomatica tregua notturna.
Se avessero anche solo sospettato la verità probabilmente non sarebbero riusciti a chiudere occhio.
Chiharu in quel momento si muoveva sui tetti di Konoha: evitava la luce delle stelle passando rasente i muri, saltava di palazzo in palazzo senza fare rumore. Le bastarono pochi minuti per arrivare in un quartiere anonimo del villaggio, una zona densa di condomini e piccole abitazioni senza giardino, e una volta lì si fermò nel cono d’ombra tra due edifici.
Nel buio, da sola, si concesse un ultimo minuto per ripensarci. Cinque anni erano tanti e le persone cambiavano... Magari lui non ricordava neanche più quella promessa. Era molto probabile, in effetti, quasi sicuro. Però lei la ricordava ancora. E lavorando in team con Hitoshi e Naruto il suo già ampio ego si era sviluppato fino a diventare piuttosto invadente, il che le impediva di ignorare le spacconate sparate in gioventù. Era una questione di principio.
Lo ricordò a sé stessa mentre si costringeva ad accantonare gli ultimi dubbi, calandosi lungo la parete fino a una finestra precisa.
Non è il momento di fare l’adolescente, si rimproverò sistemandosi meglio sul cornicione.
Prima che il suo corpo potesse opporsi bussò al vetro.
Per un attimo non accadde niente. Poi, all’improvviso, un viso bianco comparve nel riquadro disegnato dal telaio e la finestra si aprì con un lieve cigolio. Chiharu si costrinse a sembrare adulta e sicura di sé mentre Sai, dall’interno, la fissava con lo sguardo assonnato di chi è stato appena tirato giù dal letto.
«Che ci fai qui?» le chiese senza offrirle di entrare.
«Oggi è il mio compleanno» rispose lei, incapace di trattenere un sorriso nervoso.
«Auguri» commentò Sai senza capire. «Se l’avessi saputo prima mi sarei procurato un regalo... Credo.»
Chiharu non si lasciò smontare dalla freddezza del Jonin, e invece lo studiò lasciando indugiare il sorriso sulle labbra. «Non sono qui per quello.»
«Allora che ci fai alle due di notte sul mio davanzale?»
Il cuore di Chiharu accelerò. «Ti do una mano: quanti anni compio oggi?»
Sai fece un rapido calcolo. «Diciotto?»
«Esatto. E cosa ti avevo promesso che sarebbe successo una volta che fossi diventata maggiorenne?»
All’improvviso un guizzo di comprensione brillò negli occhi del Jonin, seguito dalla sorpresa più pura. Allora non se ne era scordato proprio del tutto.
«Stai dicendo sul serio?» domandò. Gli capitava raramente di essere colto impreparato.
Chiharu arrossì nel buio. «Ero serissima cinque anni fa, e la sono anche adesso.»
«Ah» fece lui, suo malgrado incuriosito. «E quindi saresti qui per...?»
«Di certo non pretendo risultati immediati» sbottò Chiharu stizzita. «Ma devo pur incominciare da qualche parte.»
«A sedurmi?» chiese Sai, incurvando un angolo della bocca in un sorrisino ironico.
Ora ricordava tutta la conversazione in ospedale. Chiharu aveva promesso che una volta diventata maggiorenne gli avrebbe fatto perdere la testa. All’epoca sembrava determinata a costringerlo a sposarla, ma poi le occasioni per vedersi si erano diradate e lui non aveva più pensato alla ragazzina arrogante che si era presa una cotta per il maestro dell’Accademia. Dopo tutti quegli anni, lei ancora...?
«Dovresti prendermi sul serio» la ragazzina ormai cresciuta interruppe il flusso dei suoi pensieri.
«E come faccio?» Sai sospirò. «Potrei essere tuo padre.»
Chiharu strinse i denti irritata. Aveva aspettato di essere maggiorenne proprio perché tutti riconoscessero ufficialmente che era adulta, adesso lui cambiava le carte in tavola e iniziava a trattarla come una bambina?
«Potresti essere mio padre, è vero, ma io non poterei mai essere tua figlia» mormorò.
E, prima che lui ribattesse, si sporse attraverso il telaio della finestra e lo baciò. Labbra contro labbra, per la prima volta nella sua vita: era una sensazione più delicata di quel che aveva immaginato, ma ugualmente elettrizzante. Si ritrasse quasi subito, incapace di reggere alla tensione, e si concesse un sorriso di trionfo.
«Primo passo» mormorò, grata alla notte perché nascondeva il suo rossore.
Schivando gli occhi sbalorditi di Sai balzò sul tetto della villetta accanto, ansiosa di allontanarsi e scaricare i nervi. Si sentiva pervasa da un piacevole senso di conquista, rovinato solo dal sospetto di essere passata per ridicola. Ma il primo bacio è il primo bacio, non si scappa, e Chiharu aveva diciotto anni e un grande successo di cui compiacersi.
Se non fosse stata in mezzo al villaggio in piena notte avrebbe gridato la sua vittoria al mondo.


Altrove, sotto lo stesso cielo, una lampada da tavolo illuminava un foglio di carta coperto da una calligrafia minuta.
La mano che lo teneva stretto era bianca, grande e immobile. Ma il suo proprietario, il sesto Hokage del villaggio della Foglia, fissava il codice e il messaggio che racchiudeva con gli occhi sbarrati e le palpebre tremanti.




La scintilla.



           

  
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