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Autore: Ely79    11/07/2014    1 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 35
35

Patch era assuefatto agli ospedali. Guardava distratto i muri bianchi tappezzati di manifesti che declamavano le proprietà di questo o quel farmaco, ribadivano le norme igieniche fondamentali e mostravano gli ultimi ritrovati meccanici in termini di protesi articolari, ignorando le figure in camice che si muovevano tra le tende che separavano i letti.
Come cazzo si potrà andare in giro con una gamba a molle concentriche? Ogni duemila passi ti devi fermare a ricaricarla! Tanto varrebbe rimpicciolire un motore e attaccarcelo, pensò svogliato.
Girò lo sguardo su Clay, che invece non aveva perso di vista un secondo Boy.
Avevano portato Ozone al Reine Lia Hospital, temendo il peggio. Il vecchio era livido ed emetteva gorgoglii inquietanti, come se avesse i polmoni pieni di lubrificante addensato. Boy non aveva spiegato cosa fosse successo, limitandosi a dire di averlo trovato in quelle condizioni steso sul pavimento, tuttavia nessuno riusciva a credergli. C’era qualcosa nel guizzare improvviso dei suoi occhi, nel torcersi le mani o nello strattonare i piercing, una nota nell’ansia che lo pervadeva, che dava alle sue reazioni un che di esagerato, quasi fosse consapevole di mentire e essere prossimo all’essere smascherato.
Probabilmente aveva a che fare con il passato del motorista, giacché l’avevano registrato solo grazie all’amicizia di Patch con le segretarie dell’accettazione: sia Ozone che il ragazzo avevano rifiutato categoricamente di fornire le generalità.
«Boy, sei l’unico che conosca abbastanza il vecchio da aiutare i medici. Digli quello che sai» disse Clay scrollandolo con gentilezza.
L’apprendista scosse la testa fissando il pavimento di piastrelle grigiastre. Stava al centro della corsia, rannicchiato sulle ginocchia, infischiandosene di chi lo urtava o dei lamenti degli altri degenti.
«Se lo dico, lo ammazzo. E lui… sta già morendo» rispose parlando fra le pieghe dei pantaloni da lavoro.
La notizia colpì i colleghi dritto allo stomaco. Patch lasciò cadere la testa contro il muro e Clay esalò un sospiro pesante e affranto, scostandosi di un passo.
«È da un po’ che non lo vedevo bene, ma non pensavo… » commentò.
In quel momento, il medico emerse dalle tendine chiamando il ragazzo. Patch l’aveva presentato come il nipote del ricoverato: senza quella scusa, non gli avrebbero permesso di seguirlo. Boy non sentì neppure cosa l’uomo in camice stesse dicendo, limitandosi ad annuire meccanicamente prima d’infilarsi dietro il separé.
Il corpo di Ozone era rattrappito fra le lenzuola bianche di disinfettante, una macchia di unto essiccata sulla stoffa. Di colpo era diventato minuscolo. La pelle sembrava cadergli di dosso quasi fosse un vestito troppo largo, strinto e stropicciato, e le trecce di cui andava tanto orgoglioso si erano trasformate in due catene di ragnatele.
Jessie si avvicinò, gli scarponi che cigolavano sul pavimento.
«Ehi, vecchio. Vuoi farmi prendere un colpo?» si sforzò di ridacchiare, sfoggiando una smorfia che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere di totale biasimo.
Si scambiarono un interminabile sguardo, mentre dietro il sipario di cotone filtravano lo sferragliare dei carrelli e i piagnucolii dei malati.
Boy si chinò fin quasi a sfiorargli il naso col proprio.
«Più forte, Ozone, non riesco…» ma le parole gli morirono in bocca.
Gli occhi del motorista erano colmi di lacrime quanto la sua testa di silenzio. Si sentì mancare la terra sotto i piedi. La sua voce era svanita, dissolta. Nemmeno uno stridio era sopravvissuto.
«Dai, cazzo, finiscila di fare il sentimentale. Se è tutta una scusa per farmi tirar giù i pantaloni, guarda che non ci casco. Il mio culo non lo vedrai mai!» tentò di scherzare, artigliandogli disperato la spalla.
Ozone accennò un sorriso amaro fra le trecce grigie e gli prese il polso. Stava cercando di stringerlo o semplicemente si trattava di un ultimo tentativo di trasmettergli una parola, un verso, una vibrazione.
«Dai… non fare così… cazzo, Marcus, troveremo un sistema. Sai scrivere…» mormorò, ma lo vide scuotere appena il capo.
Con grande fatica, Ozone sillabò muto: sei in gamba, Jessie. Hai un grande dono.
Le sue labbra si muovevano lente, schioccando molli come vecchie guarnizioni che stavano cedendo.
«Chi se ne fotte! Che me ne faccio? Noi… non possiamo dirlo. È pericoloso, non te lo ricordi? Mi hai rincoglionito a forza di farmelo promettere».
Una raffica di singulti fece sobbalzare il torace dell’uomo.
Basta segreti. Guarda dove sono arrivato con i miei. I ragazzi capiranno.
Ogni frase prendeva sempre più tempo e lo sguardo di Ozone si faceva appannato.
«E se fanno come Pancake? Se hanno paura?» protestò flebile Jessie abbassando gli occhi.
Era terrorizzato all’idea che lo cacciassero, molto più alla prospettiva di essere arrestato e internato.
Sotto la barba del vecchio sembrò far capolino un sorriso di garbato rimprovero.
«Ozone, smettila. Merda, tirati su. Vado a cercarti Cleopatra, ci stai? La tua amichetta col culo stretto che ti piace tanto. C’è la Grönaghen da finire, devi spiegarmi cosa cazzo fare. Non ho mai visto una roba così, non so dove mettere le mani!» lo supplicò.
Citare la drag queen con cui il vecchio aveva bazzicato per un paio di settimane non sortì l’effetto sperato, solo un vago sospiro. Il suo interesse era rivolto al futuro del discepolo.
Parla al metallo. Governalo. Fallo vivere. Ti obbedirà. Tu puoi farlo, ne sei capace.
Si sentì la tenda che scorreva e Clay che con un mezzo fischio richiamava il ragazzo.
«Che c’è?» ringhiò continuando a dargli le spalle.
Non voleva si accorgesse di quanto le parole di Ozone gli avessero rivoltato le budella per l’angoscia. Ora che aveva finalmente trovato qualcuno capace di aiutarlo, di capire il suo disagio e il suo potenziale, non riusciva nemmeno a fare in modo che la sua guida potesse avere un senso. Sapeva troppo poco delle sue capacità e delle loro applicazioni. E poi Ozone era stato il solo a dargli le dritte giuste per riuscire a distogliere l’attenzione di Benny da sua madre e uscire vivo dai suoi pestaggi.
«Ci stanno buttando fuori perché non siamo parenti e Patch non può tirare troppo la corda. Vieni, ti accompagniamo a casa» disse Lomann avvicinandosi.
Non si azzardò ad affiancare l’apprendista: era già abbastanza penoso vederlo tremare come una foglia.
«Io resto» s’intestardì.
Seppure a malincuore, il capofficina acconsentì, ribadendogli di presentarsi al lavoro il giorno successivo. Poteva capire quanto Jessie fosse sconvolto, imporgli di tornare a casa avrebbe solo peggiorato le cose. Era successo così quando nel letto c’era stato Scorch reduce da un pestaggio, lui era al posto di Boy e nelle sue vesti c’era stato suo padre. Era stato spinto a reagire, a pensare ad altro. E aveva funzionato.
«Ehi, Ozone. Vedi di muovere quelle vecchie chiappe o mi sa che il ragazzo ti porterà via il posto».

***

«Cognac».

«Non mi pare il momento, Hito. Stiamo lavorando» rampognò Iron, assestando un vigoroso giro di chiave ai bulloni.
Non ce l’aveva con il collega né con i pannelli della Grönaghen che faticava a liberare dai supporti: una sorsata di liquore l’avrebbe buttata giù volentieri a dispetto del caldo. Il suo malumore aveva radici ben diverse. Quel mattino aveva avuto l’impressione di scorgere Delmar lungo un marciapiede, una montagna di vestiti malconci che i pochi passanti schivavano con ribrezzo. Era sceso quasi in corsa dall’omnibus, solo per scoprire che si trattava di un accattone, che teneva al sicuro negli abiti troppo larghi un cane e i suoi pochi averi. Qualche giorno addietro, Jeff aveva saputo che Pancake girava dalle parti di Weston Road, in compagnia di un bestione biondo e di un altro tizio. Non aveva un bell’aspetto e dato che non rientrava a casa da parecchio, il terrore che ora vivesse per strada, tra delinquenti e rifiuti della società, aveva rapidamente messo radici nella mente del fratello.
Scoprire che quell’ubriacone acciaccato e fetido sul marciapiede non era Del, non aveva però risollevato il morale del meccanico, bensì l’aveva fatto impazzire di frustrazione e vergogna. Non si capacitava del grossolano errore.
«Intendevo il colore. Per la Grönaghen» specificò Hito, prima di addentare una caramella gommosa lunga e scura. «Cognac perlato. E blu notte, molto cupo e opaco. Niente cromature».
Iron cercò di affannosamente di seguire il suo ragionamento. Il verniciatore non sceglieva mai tonalità a caso, ma in quel momento gli sfuggiva il senso della proposta.
«Credo sia un doveroso tributo a Ozone. E aiuterà Boy a starci su. Glielo diremo quando arriva» chiarì.
«Ozone si vestiva sempre di blu in officina ed era così scuro che sembrava fatto di bronzo» ricordò l’altro.
Tutto ad un tratto sembravano trascorsi secoli da quando aveva visto il collega. Invece si trattava di ore, poco più di mezza giornata.
Ma quando ha cominciato a stare male? Neppure di lui ci siamo accorti… pensò amareggiato.
Il suo problema doveva essere simile a quello di Del: un qualcosa di piccolo e strisciante, subdolo, che li aveva minati dall’interno ed era cresciuto poco alla volta fino all’irreparabile.
«D’estate gli si poteva cuocere una bistecca addosso» aggiunse, riuscendo per un istante a sorridere.
«Sarà dura senza di lui».
L’affermazione scatenò un moto di rabbia in Iron, che gettò l’enorme chiave a torsione sul tavolo. Un tuono metallico si propagò nell’officina, riverberando ovunque. Clayton Junior sobbalzò spaventato alla rastrelliera degli arnesi e per poco non se la fece crollare addosso.
«Quell’uomo ha un’età e Dio solo sa cosa. Se il suo tempo è finito…»
«Hito, non t’azzardare nemmeno a pensarlo!» ruggì minaccioso con le mani sui fianchi.
Sulle unghie erano rimaste tracce di uno smalto scarlatto, così brillante da sembrare sangue.
Ciò nonostante, Hito non si lasciò intimidire.
«Ascoltami».
La calma con cui masticava la caramella raggelò il collega. Da qualche giorno era tornato ad apparire ieratico e razionale dopo le settimane trascorse lontano del tabacco.
«Hai visto la reazione di Boy. Lui lo sa. L’ha già capito e ce l’ha praticamente detto con il suo silenzio. Ozone non uscirà da quell’ospedale, se non dentro una bara. Negarlo non cambierà le cose».
Abbattuto dall’evidenza, Iron scrollò le spalle.
«Pensi che non lo sappia?» sbuffò appoggiandosi al montante del carroponte. «È solo che qui dentro stanno succedendo cose strane… aumenta il lavoro e perdiamo persone. Sembra fatto di proposito! E ci sono altre faccende che non riesco a capire».
Ripensò al racconto di Jeff, quando Scorch e PigTail erano andati da Brigit e lo disse a Hito, parlando sottovoce affinché nessun altro potesse ascoltare i suoi dubbi.
«Perché incontrarsi con un avvocato importante? Proprio lui poi, che di guai con la legge ne ha avuti fin troppi. Pensi che possa aver combinato ancora qualcosa?» azzardò.
«Non agitarti. Le spiegazioni potrebbero essere un’infinità, non necessariamente la più ovvia» considerò pacato il verniciatore, staccando un nuovo pezzo di dolce. «Hai pensato che forse sta cercando di aiutare Pig? Da quando ha smesso di bere, Scorch si sta dimostrando molto più serio e altruista di quanto sia mai stato in passato, e se non ricordo male, PigTail ha una figlia di cui ha la custodia esclusiva. Magari stanno cercando un modo per tutelare la piccola dai suoi disastri».
«No. Per me riguarda Scorch» insisté Iron, posando distrattamente lo sguardo sulla Grönaghen mezza spogliata della sua livrea verde scuro.
Qualcosa gli ripeteva che non poteva essere altrimenti. L’ora tarda, la presenza di quel poco di buono di Brown, il fatto che Scorch non ne avesse parlato a Clay (che di certo avrebbe riportato la cosa a qualcuno) o il suo neonato senso di responsabilità. Tutti elementi sospetti.
«Niños, volete muovere il vostro fottuto culo o devo lavorare solo io qui dentro?» irruppe Choncho, raggiungendoli a passo di marcia dal lato opposto della stanza.
«Quattro mèit, ricordatelo» lo ammonì bonariamente Hito, indicando il Penitenziere.
Choncho sfoderò uno strano sorriso di assoluto compiacimento, a cui seguirono una decina di altri improperi tra i peggiori del suo repertorio, urlati a voce talmente alta da spaccare i timpani. Lo guardarono esterrefatti, spiando il ballatoio, dove si aspettavano di veder comparire Charlotte in preda ad una crisi isterica. Intravidero solo la sagoma di Hammond occhieggiare dal vetro della porta e nessun rimprovero li raggiunse.
«Abbiamo una gara da far vincere! Imparate dal sottoscritto e datevi una mossa!» si vantò Wilmar allontanandosi tronfio, accarezzando una manciata di monete nella tasca dei pantaloni. «Yo soy el santo de Port Serafine» aggiunse tra sé.

***

Junior, indispettito dal voltafaccia degli adulti della “Legendary” e spaventato dallo sbraitare di Iron, era tornato fuori nel cortile, vicino ai rottami. Lì, seduta su una sedia della mensa in un angolo ombroso, Bonnie rileggeva “Il pozzo di tenebra”, l’ultimo romanzo della serie di Tamior l’Avventuriero. Cercava di non singhiozzare rileggendo i passaggi che poco tempo prima avevano fatto preoccupare suo padre, con scarsi risultati.

«Voglio che danno via la baracca» grugnì Junior dondolandosi goffamente su una lastra arrugginita in bilico su un traliccio deformato.
«Ma sei matto? La “Legendary” è la cosa più importante del mondo per mamma e papà!» replicò tirando su col naso.
Il gioco del bambino s’interruppe bruscamente mentre le rivolgeva uno sguardo acido.
«Appunto. E io cosa sono?»
Bonnie si morse la lingua per la stupidità della risposta. Chiuse il libro, accarezzando la copertina dove la figura del giovane avventuriero era disegnata dal luccichio degli ornamenti metallici degli abiti nel buio del famigerato inghiottitoio.
«Click-Clack… dai, lo sai cosa volevo dire. Loro ci vogliono bene, ci pensano sempre. È per questo che lavorano tanto, per non farci mancare nulla. È solo un periodo complicato. Dobbiamo credere in loro e tutto si sistemerà» sospirò, sistemando la lunga treccia castana sulla spalla mentre parafrasava Celestine, l’innamorata segreta di Tamior.
«Sì. E a noi non ci guarda più nessuno per colpa di questo lavoro. Si dimenticano che noi esistiamo! Ci sbattono sempre dalla nonna per non tenerci qui e adesso non vogliono neanche che andiamo dentro. Choncho mi ha cacciato via ieri… Sono stufo! Odio questo posto! Voglio che lo vendono!» e per ribadirlo, diede un pestone alla lastra, facendola vibrare.
«Smettila di fare lo stupido! Ti farai male!» lo sgridò la sorella. «Mamma e papà non venderanno la “Legendary”! Hanno fatto tanto per portarla dov’è adesso. Perché non lo capisci?»
«Non la voglio più» sibilò.
«Beh, arrangiati. Non devi decidere tu. Vorrà dire che la tua parte me la prenderò io quando sarò grande» sbottò sfogliando impettita le pagine per riprendere la lettura.
«Perché? Perché così puoi vedere Boy tutti i giorni?»
Bonnie trasalì sbarrando gli occhi verdi e s’irrigidì, con la carta che quasi le si accartocciava attorno alle dita.
«Cosa c’entra Boy?» squittì.
«Cosa c’entra Boy?» rispose facendole il verso con un ghigno cattivo. «Ho visto il tuo diario, quello che tieni sotto al letto! “Bonnie+Boy”, “Bonnie e Jessie per sempre”, “Jessie ti amo”, “Signora Bonnie Lomann in Bennet”» cantilenò storcendo il naso.
Lei balzò giù dalla sedia abbandonando il romanzo e cominciando a rincorrere il piccolo ficcanaso. Non aveva detto a nessuno, nemmeno alla sua migliore amica Pauline, che il giovane punteggiato di ornamenti metallici aveva cominciato a suscitarle un certo interesse.
«Junior! Chi ti ha dato il permesso? Sono cose mie! Mie!» strillò tentando inutilmente di agguantarlo e finendo solo per riempiersi la gonna e le scarpe di polvere.
«Hai messo il collarino con scritto “Boy” anche al tuo stupido orsetto! Che schifo fai!»
«Ti odio! Vai via! Sparisci!» gridò cadendo in ginocchio e scoppiando a piangere.
Ben sapendo che nel giro di pochi minuti qualcuno l’avrebbe sentita, Junior s’infilò di corsa nell’officina e salì le scale facendo i gradini a due a due, boccheggiando per la rabbia e il caldo opprimente. Si buttò a peso morto contro la prima porta in cima alla rampa, aprendola di schianto. Subito dopo sì udì un gemito soffocato e un impatto sordo.
«Che modi sono, Junior? Mi hai fatto prendere un accidente! Si bussa prima di entrare» lo sgridò Niklas, rivolgendogli un’occhiataccia mentre cercava di tamponare con il tappeto sdrucito l’inchiostro precipitato sul pavimento.
«Compralo» ansimò.
L’uomo quasi non gli prestava attenzione, impegnato com’era ad evitare che il liquido scuro impregnasse le assi strisciate.
«Cosa?» bofonchiò cominciando a sfregare energicamente il legno.
Il ragazzino gli si avvicinò e l’afferrò per un orecchio, obbligandolo a raddrizzarsi sulle ginocchia per guardarlo.
«Comprati questo posto e manda via papà e mamma. Prenditelo. È tuo. Tuo! Hai capito? Te lo do io. Non lo voglio più» gli intimò, fissandolo con lo stesso sguardo che aveva suo padre quando dava un ordine perentorio ai ragazzi.

***

Niklas tracciò una linea arcuata che dalla pancia della Grönaghen saliva con tre diversi raggi di curvatura fino all’abitacolo, sudando su ogni singolo tratto. Quando terminò il raccordo, sentì un enorme peso scivolargli dalle spalle.

La sparata di Junior di poco prima l’aveva spiazzato non poco, oltre a fargli tremare le ginocchia.
«Porca puttana, quanto c’è voluto!» grugnì tra sé battendo i palmi sulla fronte.
Finalmente il muso dell’airship avrebbe permesso all’aria di scorrere con un flusso pulito e lineare, esente da turbolenze, consentendo una penetrazione più efficace; un flusso che avrebbe contribuito alla governabilità del mezzo, mantenendolo alla corretta distanza dalla superficie della pista. Eliminare le profonde scanalature che contraddistinguevano la parte anteriore della  Grönaghen era un’autentica eresia, un atto criminale, ma si trattava pur sempre di convertire un mezzo stradale in uno adatto alle gare di velocità.
«Bene» sospirò sedendo pesantemente sul bordo della scrivania. «Questa è fatta. Ora la trasversale».
Passò una mano sulla faccia e una traccia lieve, quasi impercettibile, si mescolò al suo respiro. Guardò le dita, muovendole appena affinché spandessero ancora quell’aroma invitante. Pere e cioccolato bianco. Non si sentivano profumi del genere tutti i giorni. Faticava a concentrarsi con l’aura del dolce ancora incastrata sotto le unghie. Agguantò la tazza di tisana, ingollandone una lunga sorsata. Il sapore amarognolo non servì a spazzar via la distrazione, che invece ingranò la quarta.
Aveva trovato Charlotte in cucina quel mattino, quando neppure Thomas aveva ficcato il suo faccione da burocrate oltre il cancello. Nel piattino davanti a lei c’era la tortina che portava il suo nome.
Si era scusata per non averla mangiata il giorno prima, adducendo il solito carico di revisioni impostole da Hammond per ripicca e l’improvviso malore di Ozone, che l’aveva costretta agli ennesimi straordinari per comunicare al Dipartimento Coloniale del Lavoro il ricovero del dipendente.
«Posso farti compagnia?» le aveva chiesto dopo aver preparato la prima tazza di tisana della giornata.
Lei aveva acconsentito senza troppo entusiasmo, salvo immobilizzarsi di colpo, presa da un pensiero.
«Ti va di… mangiarla con me?»
La proposta era giunta come un fulmine a ciel sereno e l’aveva lasciato stordito peggio di una sbronza a digiuno. Si era seduto al suo fianco sorridendo inebetito e avevano diviso il dolce senza parlare. La situazione in officina era critica, bisognava fare qualcosa, eppure non gli sembrava affatto il momento per discuterne: dalla finestra entrava il cinguettio di qualche uccellino e l’alone rosato del primo sole. C’era pace. Un qualcosa di così raro e prezioso ultimamente, che sembrava davvero un peccato mortale guastarlo.
Aveva notato la lentezza dei gesti e il rossore degli occhi di Charlotte; certo non poteva dipendere dalle ore trascorse sulle pratiche o a trattenere la bile dopo ogni pretesa del tirapiedi di Avelan. Erano di chi aveva trascorso la notte in bianco fra le lacrime. I suoi lunghi sospiri lo confermavano, anche se cercava di dissimularli.
«Allora ogni tanto mi dai retta» aveva commentato, fingendo di interessarsi alla colazione.
La donna l’aveva guardato smarrita.
«Ti stanno bene» e aveva indicato i capelli che portava sciolti sulle spalle, impedendole di trovare una qualunque spiegazione buttandosi in bocca il boccone con le dita. «Ti fanno sembrare meno severa. Anche con te stessa».
Si era sforzata di annuire e aveva ripreso a titillare i cubetti di pere del ripieno.
«Si sistemerà tutto, vedrai. Ti toglieremo quel gorilla dai piedi e potrai prenderti qualche giorno di ferie per riposarti, senza pensare a questa manica di monelli» l’aveva rassicurata sfiorandole appena la mano, sebbene lui per primo non credesse a quella versione.
Troppe cose stavano muovendosi in quel momento attorno a loro e alla “Legendary Customs”. Sarebbe bastato un soffio per far crollare quel fragile castello di carte.
Non le aveva raccontato d’aver visto il giorno prima Lisian aggirarsi furtivo sul retro dell’officina e d’essersi insospettito, giacché sembrava facesse segnali a qualcuno. Aveva scorto figure muoversi tra i mucchi di rottami e le erbacce, dirette al laboratorio di Odrin. Era sceso per scoprire cosa stesse succedendo e aveva finito per origliare ogni parola detta nel magazzino. Non le aveva confessato di sapere quelle cose e né le aveva domandato di spiegargliene altre. Aveva taciuto. Taciuto e sorriso, prendendo con le dita un altro pezzetto di dolce e mimando di volerla imboccare quando l’aveva vista perdersi in qualche pensiero. Le aveva fatto curvare le labbra in qualcosa che poteva ricordare l’accenno di una risatina.
Poi aveva udito i passi di Thomas sulla scala di metallo e gli era venuta gran voglia di andare a scaraventarlo di sotto.
Scosse la testa, ritrovandosi nell’ufficio con l’infuso ormai freddo tra le mani. Si fece forza e riprese a trafficare con il profilo frontale dell’airship: entro il pomeriggio doveva assolutamente consegnare ai ragazzi gli schemi di piegatura dei pannelli.


Writer's Corner
Le lungaggini continuano, ahimé, e posso far poco per porvi rimedio. Solo scrivere. Cercherò di farmi perdonare con questa e altre storie.
Grazie come sempre ai super-pazienti lettori e recensori: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphasvita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshade, MorphineJ, Niki12, Nana Punk, Mizzy, alister_, bruciato e Pisaster_Ochraceus, NoFate.
   
 
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