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Autore: passiflora    11/07/2014    6 recensioni
[Nona classificata al contest "Creepy bloody summer", di Hikarimegami. Premio Miglior Splatter]
" La colpa è un veleno sufficientemente potente. Per farlo agire a volte basta soltando dire le parole giuste. Altre volte basta stare in silenzio al momento giusto."
Genere: Dark, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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«Confessami, confessami sant’uomo!»
Ed egli si segnò la fronte pia.
«Subito dimmi, te lo ingiungo, dimmi
Che razza d’uomo tu sia.»


Erano le undici e mezzo di una fredda serata di marzo. Il tempo prometteva di volgere presto in tempesta e solo sporadiche raffiche di vento rompevano la pesante quiete. La mole del castelletto dei conti Giusti, in cima ad una bassa collina, si stagliava contro il cielo plumbeo. Una sola delle decine di finestre era illuminata. Al terzo piano, nel salotto privato del conte, era in corso una riunione a lungo attesa tra vecchi amici d'infaniza. L'adolescenza e poi gli studi e i viaggi e i matrimoni e gli affari li avevano divisi, ma ora si erano ritrovati.   
« Spade ! » esclamò Angelo, gettando le sue carte sul tavolo da gioco.
Un mormorio d'insoddisfazione percorse gli altri tre giocatori.
« Pare che io abbia vinto di nuovo » commentò l'uomo, spegnendo la propria sigaretta e accendendone un'altra. « Qualcuno vuole perdere per l'ennesima volta ? »
« Io getto la spugna » mormorò Riccardo. Teneva una mano premuta sulla fronte mentre l'altra stringeva il quarto bicchiere di whisky vuoto. Non era mai stato un gran bevitore e in quel momento la testa gli pulsava terribilmente.
« Spugna ? Mi fa venire in mente un modo di dire sul troppo bere » intervenne il conte, versando con naturalezza il liquore nel proprio bicchiere.
« Oh, finitela. Non ho mai bevuto molto e questo è il risultato » si schernì Riccardo. Ad ogni parola le sue meningi sembravano sul punto di scoppiare.
« Credo che tua moglie beva più di te » osservò Giacomo mentre riordinava le carte sparse sul tavolo.
« Non berrebbe così tanto se avesse appresso un marito invece che una seconda figlia » disse una voce proveniente da un’imponente poltrona sistemata davanti al camino.
« È tutta colpa del tuo whisky se sto così male. Risparmiami l'ironia, Sam » si lagnò Riccardo, alzandosi. Barcollando si avvicinò alla seconda poltrona, accanto a quella dov'era seduto Sam, e vi si sedette con attenzione, cercando di muovere la testa il meno possibile.
« Ora, vi prego, lasciatemi in pace » disse, poi appoggiò la testa sulla mano destra e chiuse gli occhi, deciso a farsi passare la sbronza.
« Sam, gioca tu con noi ! C'è bisogno del quarto » esclamò Angelo, ansioso di poter dimostrare la propria superiorità come giocatore e come baro.
Sam aveva giocato soltanto la prima mano, poi si era ritirato insieme ad un libro scovato tra l'enorme vastità di titoli in possesso del conte.
« Non credo lo farò » rispose Sam, con quel suo accento inglese che gli derivava dai primi anni di vita trascorsi in Inghilterra e che dopo trent'anni non lo aveva ancora abbandonato.
« Che noia. Tu e la tua ossessione per la lettura » sbottò il conte. « Cos'hai scelto, questa volta ? »

« E un buon vento del sud spirò da poppa;
  E l’Albatro ci seguiva,
  E ogni giorno per cibo o per diletto,
  Al richiamo dei marinai veniva!
 
 Tra la foschia sull’albero o le sartie,
 Venne per nove sere, e si posava;
 Tra le cortine candide di nebbia

 Il chiarore lunare rifulgeva. »

« Ah, quella cosa sul gabbiano » esclamò annoiato il conte.
« Un albatro » lo corresse Giacomo.
« È uguale. »
« Non esattamente. Un albatro è molto più grande e ha abitudini diverse. Per esempio, è monogamo. Ed è la femmina a scegliere il maschio. »
« Dimenticavo che sei naturalista » sbottò il conte appoggiandosi allo schienale della propria sedia con aria ancora più annoiata. « E anche prolisso. »
« E tu il solito caprone ignorante » sbottò Giacomo, offeso.
« Ma ricco e bello » rispose il conte servendosi l'ennesimo bicchiere di whisky. La bottiglia terminò.

« "Che Dio ti scampi vecchio marinaio
Dai demoni che tanto t’hanno afflitto!
Perché tal sguardo?" "Con mia la balestra
Quell’ albatro ho trafitto."
»
 
La voce di Sam era pacata, ma qualcosa nel suo tono costrinse gli altri a zittirsi e ad ascoltarlo.
« Quante storie per un gabbiano » ridacchiò il conte. Le sue parole vennero sottolineate dalla luminosa apparizione di un lampo e dal rombo di tuono che ne seguì.
« Un albatro » lo corresse Giacomo.
« Quello che sia » sbottò il conte.
« È che il gabbiano era una sorta di ospite e i marinai pensavano che portasse bene, che con esso venisse il vento. Non è così ? » domandò Angelo.
« Sei un letterato ! » esclamò il conte.
« A volte io leggo » rispose Angelo, con una punta di acidità nella voce da basso.
« La storia di questo gabbiano ucciso me ne fa venire in mente una che ho sentito tempo fa... » iniziò il conte, ignorando la battuta dell’amico. Un secondo tuono riecheggiò nella notte. L'uomo sorrise, si accese un sigaro e iniziò a raccontare con studiata calma : « Dunque : ero in una qualche regione a nord della Francia, per lavoro. Mi trovo in un piccolo paese, sovrastato da un castello. Non come questo, molto più grande. Stava su una collina, svettante, a picco su una scarpata. Ne ero affascinato e chiesi chi vi abitasse un tempo e i paesani mi dissero che non era una bella storia, quella dei proprietari. Io la volli sapere comunque e così mi raccontarono che il maniero era stato abitato fino ad appena un decennio prima. Una sera, il proprietario aveva fatto riunire tutta la sua famiglia per una cena imponente. Erano arrivati cugini, zii, mogli e mariti di parenti morti, ragazzi e raggini. Gente che non si incontrava da anni. Avevano mangiato e bevuto tutti insieme e poi, uno dopo l'altro, erano caduti morti. Uccisi. »
« Tutta la famiglia...sterminata ? » domandò Giacomo. Angelo invece borbottò senza riuscire a mettere dello spirito nelle parole : « Ma guarda ! Anche noi siamo stati invitati a cena da te dopo tanti anni... »
« Fu eliminata anche la servitù » aggiunse il conte, quasi con soddisfazione.
« Ma per quale motivo ? »
« Nessuno lo sa » disse il conte. « Ma qualcuno sospetta che il proprietario del castello volesse distruggere un segreto. »

« Ed io avevo fatto qualcosa di non bello,
E che avrebbe portato molto male:
Dissero che trafissi quell’uccello
Che faceva soffiare il vento australe.
"Empio" dissero "uccidere l’uccello
Che faceva soffiare il vento australe."
»

La voce di Sam serpeggiò tra loro portando con sé quelle parole di colpa.
« Smettila con quell'uccello ! » ruggì il conte.
« Si tratta solo della morte di un gabbiano » ridacchiò Sam. « Ti infastidisce ? »
« Sì » sbottò il conte. « Infastidisce tutti, anche te Riccardo, non è così ? »
Riccardo non rispose.
Il conte lo chiamò per un paio di volte, poi intimò a Sam di svegliarlo. « Si deve essere addormentato a causa dell'alcol » disse, ridacchiando sotto i folti baffi.
« Allora lasciamolo dormire » rispose Sam.
« No ! Lui non si può addormentare così. Ho aspettato quasi vent'anni per rivedervi, di tempo per dormire ne avrete in abbondanza quando sarete morti. »
« Hai una fissazione... » mormorò Angelo, ma nessuno lo udì.
Sam si sporse verso l'alta poltrona, dove Riccardo stava immobile. Gli toccò la mano che reggeva la testa e questa scivolò di lato. Riccardo non si svegliò.
Sam lo chiamò più volte, lo schiaffeggiò, lo scosse, ma non sortì alcun effetto.
« Maledizione. Cosa succede ? Sta male ? » esclamò il conte, dirigendosi verso la poltrona. Spinse via Sam e riprese a scuotere l'amico.
« Manda a chiamare un medico ! » disse Giacomo.
« Non si può, il telefono è rotto da questa mattina ! » rispose il conte.
« Credo sia morto » constatò Sam, la voce pacata.
« Vado a chiamare qualcuno » Angelo si diresse velocemente verso la porta del salotto, ma il conte lo fermò prima. Non c’era nessuno in casa. La servitù aveva il giorno libero e il maggiordomo, l’unico che quella sera avrebbe dovuto essere presente, era invece ricoverato in ospedale da un paio di giorni.
Angelo fu improvvisamente paralizzato da un sentimento oscuro, che lo assalì alle spalle come un nemico codardo. Qualcosa, nella sua mente, si svegliò. Un ricordo lontano, una macchia nera che aveva dimenticato, era tornato a farsi vivo.
Di colpo si voltò verso gli amici, lo sguardo mutato in una maschera di collera . « Che cosa pensavi di fare ? » esclamò alla volta del conte.
Questi alzò lo sguardo dal cadavere di Riccardo e lo fissò sull’amico.
« Che cosa stai dicendo, Angelo ? Ci sono stupefacenti dentro quelle tue sigarette ? »
« Non prenderti gioco di me ! » urlò Angelo. La collera lo faceva fremere dalla testa ai piedi. Si sentiva come cieco e sordo, mentre ogni fibra del suo corpo era in tensione. Non avrebbe fatto la fine di Riccardo. Non lo meritava. L’idea non era stata sua. Lui aveva solo partecipato.
« Cosa ti prende ? » intervenne Giacomo.
« Non hai capito ? » ruggì Angelo in risposta.
« Io...non... » Giacomo stava in piedi accanto al tavolo da gioco, spostando lo sguardo da Angelo al conte senza capire. Qualcosa, nella sua mente, trillava come impazzita, ma lui non la stava a sentire.
« Te ne sei forse dimenticato ? Pensavo di averlo fatto anche io, ma tutte le sue stupide storielle sulle cene e i sui segreti hanno fatto il loro dovere. »
A quel punto, Giacomo parve congelarsi. Voltò la testa verso il conte con un movimento meccanico, le iridi vacue come se dietro non ci fosse più nulla. Come se Giacomo si fosse perso in un lontano passato che lo aveva risucchiato nel suo vortice.
Il conte ridacchiò nervosamente. « State scherzando ? » esclamò.
« Tu vuoi ucciderci » mormorò Giacomo. La sua voce era lontana, come la sua mente.
« Come vi viene in mente ? »
« Vuoi farci fuori perché non possiamo mai parlarne con nessuno, non è vero ? » La voce di Angelo trasudava rabbia. Il volto era rosso, i tratti distorti. Stringeva le mani così forte da impiantarsi le unghie nella pelle.
Il conte guardava i due uomini con occhi smarriti.
« Era nel whisky ! Non è così ? Hai avvelenato tutti noi ! » Angelo gridava così che ad un tratto gli mancò la voce. La tempesta ormai scoppiata faceva da controcanto alle sue parole di collera. Un lampo fu seguito da un tono. La luce del lampadario tremolò.
« Ma non credere che ce ne andremo da soli! » esclamò l’uomo. Un attimo dopo, Angelo era saltato addosso al conte, il quale, preso alla sprovvista, cadde e sbatté la testa contro il bracciolo della poltrona dove Sam stava ancora seduto. Sangue prese a ruscellargli lungo la fronte, tra le folte sopracciglia. Angelo, che era alto e molto forte, lo afferrò l’uomo, lo sollevò e lo sbatté con forza verso il tavolo da gioco. Di nuovo il conte sbattè la testa. Il sangue gli impiastricciò i capelli scuri, scendendo sulle orecchie e sul collo. Angelo gli prese la testa tra le mani, ma quella, resa viscida, gli scivolò tra le dita. Così il conte riuscì a liberarsi dalla presa dell’amico e ad arrivare al caminetto prima che lui lo raggiungesse. Con un movimento fluido, da bravo schermidore, estrasse un ferro dalla rastrelliera accanto al caminetto, lo librò nell’aria e lo agitò davanti a sé.
« Ma cosa ti succede ? Sei impazzito ? » urlò. L’attizzatoio sfiorò l’orecchio di Angelo, il quale, con cieca determinazione, continuava ad attaccare l'uomo che aveva chiamato amico fino a qualche minuto prima. Il conte arretrò cercando di allontanarsi dall’uomo, fendendo l’aria davanti a sé come se volesse scacciare degli insetti; aveva la vista e la mente annebbiate per via dei colpi ricevuti alla testa. Angelo cercò di immobilizzargli il braccio, ma lui si sottrasse dalla presa e lo colpì con l’attizzatoio all’altezza dell’orecchio. Angelo urlò e barcollò. Il conte, alla vista di quella dimostrazione di vulnerabilità, parve rilassarsi per un attimo, ma in quell'attimo  Angelo si rialzò, più furioso che mai, e si gettò addosso all’amico cercando di stringergli le mani intorno al collo. I due uomini si scontrarono, lottarono per qualche eterno secondo, poi Angelo, che dei due era il più grande e forte, venne scosso da un singulto. Si bloccò, sembrò dire qualcosa, poi crollò addosso al conte e questi, oramai tristemente debole, perse l’equilibrio e cadde, battendo la nuca contro il piede intagliato dello scrittoio che stava accanto alla finestra. Rimase fermo, gli occhi sbarrati, la bocca aperta in una sorta di espressione sorpresa, come se non si aspettasse di poter finire in quel modo. Il corpo di Angelo, invece, scivolò di lato rivelando un coltellino a scatto impiantato dritto nel cuore. L’arma era appartenuta al fratello maggiore del conte, morto da tempo, e lui la portava sempre in tasca. Non era mai servito a nulla, fino a quella sera.
Altri fulmini, altri rombi di tuono. La luce saltò, come se la tempesta volesse fare dell’ironia.
Giacomo era ancora in piedi dove si trovava all’inizio della collutazione. Non aveva spostato lo sguardo di un solo centimetro. Prima fissava il conte, ora i suoi occhi fissavano nel buio il punto in cui si trovava Sam.
« Anche lui aveva bevuto il whisky » mormorò d’un tratto, la voce ridotta ad un monotono sussurro.
« Sì » rispose Sam.
« Lo hai portato tu il whisky » continuò Giacomo. La sua voce senza emozione si librava nell’aria piena dell’odore del sangue del tutto simile ad un alito di aria gelida insinuatosi tra i vetri istoriati della finestra.
« Sì. »
« Non c’era nessun veleno » constatò Giacomo.
« C’era solo per Riccardo » spiegò Sam.
« E per gli altri ? »
« La colpa è un veleno sufficientemente potente. Non lascia alcuna traccia e per farlo agire basta solo dire le parole giuste. Altre volte basta stare in silenzio al momento giusto » rispose Sam.
« E cosa dirai a me ? » chiese Giacomo. Un tremito si era impossessato della sua mano destra e non accennava ad acquietarsi.
« Tu sei un naturalista, quindi ti parlerò in termini che tu possa comprendere : la femmina aveva scelto il maschio, ma gli altri dello stormo non erano d’accordo. Così hanno deciso di prendersi quello che volevano. Poi hanno ucciso la femmina e mentito all’albatro che era stato scelto. »
« Ed io avevo fatto qualcosa di non bello, e che avrebbe portato molto male » mormorò Giacomo. « Però alla fine della ballata, Dio perdona il marinaio. »
« Io sono l’albatro, non Dio » disse Sam.
« Ma io non c’entro... » sibilò Giacomo. Si sentiva sul punto di piangere, ma le lacrime non venivano.
« Tu non c’entri ? » ripeté Sam, la cui voce usciva dal buio come da un incubo.
« Io non ho fatto niente » continuò Giacomo. « Io guardavo soltanto. »
« Capisco » rispose Sam. « Dopotutto, tu sei una persona curiosa, e studi gli animali. Avrai trovato sicuramente interessante il comportamento di quei tre giovani esemplari. Un evento raro, un colpo di fortuna, una manifestazione straordinaria in cui era impensabile interferire. »
Nel buio, Giacomo strinse tra le dita l’orlo della giacca cercando di placare il tremore che ora aveva colpito anche la sua mano sinistra. Brividi freddi gli scorrevano lungo la schiena, ma lui non riusciva nemmeno a percepirli. La sua mente era troppo lontana, immersa in un orrendo ricordo pieno di urla e richieste di pietà e sangue e risa. Urla umanissime e risa simili a latrati di cane.
Sam si mosse, ma Giacomo se ne accorse solo quando gli fu a pochi centimetri di distanza.
Qualcosa di duro spingeva contro il suo petto. Giacomo abbassò lo sguardo. Un lampo squarciò il cielo e i suoi occhi incontrarono il minaccioso profilo di una pistola.
« Ti prego » sussurrò, ma fu più una sorta di spasimo involontario che una vera invocazione di pietà. « Ho soltanto... »
« Lo so. Lo so molto bene. E ti perdono » lo interruppe Sam, afferrando la mano inerme di Giacomo. Poi la sollevò e la avvolse attorno al calcio della pistola. Infine, puntò l’arma contro di sé.
« Che situazione incresciosa » proseguì Sam. Giacomo non smetteva di tremare e la canna della pistola ballava contro il suo petto.
« Ti sto regalando la possibilità di uccidermi, e non mi dispiacerebbe che tu lo facessi. Mi avete privato della felicità molto tempo fa, coprendo la sua scomparsa con un’orrenda bugia. Da quel momento, la mia vita è stata intrisa di ombre. Ora però ho avuto la mia vendetta. Tu puoi liberarmi completamente, puoi darmi la felicità, la pace eterna. Puoi salvarmi ! » continuò Sam, afferrando la canna dell’arma con una mano per tenerla ben ferma e posando l’altra sulla spalla di Giacomo. « Quindi, cosa farai ora, mio pavido amico ? Mi salverai ? » domandò.
Il silenzio che cadde dopo quelle parole parve vibrare insieme al cuore di Giacomo, che fremeva come le ali di insetto intrappolato.
Il fiato caldo di Sam sfiorò il suo orecchio. Un altro lampo illuminò l’uomo piegato verso di lui.
« Oppure starai a guardare ? »
Quelle parole caddero dentro Giacomo come dentro un pozzo profondo. Scivolarono nell’oscurità per un tempo che parve infinito ; poi, quando toccarono il fondo, qualcosa si mosse. Giacomo si ricompose e la sua presa intorno al calcio della pistola si fece più salda. Alzò il mento, con fare deciso.
« No » esclamò. « Qui dentro è buio, non potrei vedere niente. »
In un attimo, sollevò la pistola, aprì la bocca e ci infilò dentro la canna e fece fuoco.
Una pioggia di sangue e materia cerebrale inondò il pavimento. Il corpo di Giacomo si accasciò a terra. Un lampo illuminò la macabra riunione.
In piedi in mezzo ai cadaveri dei suoi amici, Sam osservò il proprio operato con gelida amarezza, ma anche con una nuova sensazione di pace che sfiorava quasi la soddisfazione.
« Hai visto, Giacomo ? » disse rivolto all’uomo appena morto. « A volte basta solo dire le parole giuste. Altre volte basta stare in silenzio al momento giusto. »
Scavalcò i corpi e si accostò alla finestra. La pioggia sferzava i vetri a nido d’ape. I cieli oscuri lampeggiarono ancora, un tuono profondo rombò a breve distanza. E poi il silenzio.
   
 
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