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Autore: heiobrien    11/07/2014    1 recensioni
"Lui fu quel vento d’estate che si fa spazio tra le foglie, gli alberi, le foreste, e fa germogliare tutti i gelsomini notturni; fu quella sublime pioggia che dona vita all’erba dei giardini quando fa caldo; fu quella luce flebile che mi riuscì a riscaldare il cuore."
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                           My one and only.


Le gocce scivolavano veloci contro i vetri lindi delle finestre.
Le pareti della stanza si illuminavano ogni cinque minuti di un bagliore bianco.
Un forte suono rimbombava tra i corridoi e le rampe di scale.
La teiera fumava.
Ed io aspettavo.
Presi posto nella poltrona poco distante dalla vetrata nel salotto, il quale era illuminato da una fioca luce d’emergenza, poiché il temporale aveva fatto saltare la corrente per tutto il quartiere.
Stringevo tra le mani una tazza calda di tè verde, il suo preferito.
Le mie gambe erano avvolte ben strette nel plaid che riusciva ad allacciarsi perfettamente alla mia vita.
Non distoglievo lo sguardo dal vialetto annebbiato, sperando invano che l’avrei visto arrivare.
Quel pensiero mi trasportò al momento in cui tutto iniziò.
Era un’afosa giornata estiva che stava terminando in bellezza con uno di quei temporali strani che rendono il tempo così invernale e triste. Ero su due piedi, nei miei pantaloncini di jeans e le scarpe zuppe, aspettando l’autobus da un’ora che sembrava non finisse mai. Con me c’erano due anziani, anche loro infreddoliti e quasi zuppi come me.
D’un tratto, mi passò davanti un ragazzo moro, che stringeva tra le mani un ombrello. Indossava una tuta molto larga e una t-shirt a mezze maniche, come se fosse appena tornato da qualche allenamento sportivo.
“Hey, tu!” richiamò la mia attenzione il ragazzo. “Sei la ragazza nuova, quella che abita al 5B?”
La ragazza nuova’: il più bel soprannome che mi avessero mai affibbiato in vita mia.
“E tu saresti?” gli domandai senza alcuno scrupolo. “Abito al 7C, alla fine della strada”
Un tuono seguito da un forte aumento della pioggia interruppero la nostra conversazione.
“Senti, è pericoloso restare qui ora che la pioggia è più forte. Vuoi un passaggio?” mi sorrise indicando l’ombrello che stringeva con la mano destra. Diedi un’occhiata veloce al tabellone degli orari, ma il prossimo autobus passava tra circa un’ora, causa forze maggiori. A quel punto, non ci pensai su due volte ed accettai. “Solo perché il prossimo numero 9 arriva fra un’ora!” esclamai, allacciandomi al suo braccio sotto l’ombrello.
 
Una ventina di minuti dopo il temporale si placò. L’aria divenne più pulita, ma comunque lasciò quella brezzolina fresca di afa e bagnato che rendeva tutto più pesante.
“Grazie per il passaggio” ringraziai il ragazzo. “Non devi ringraziarmi” sorrise “A proposito, io sono Logan” tese un braccio verso di me. Strinsi la sua mano, pronunciando a mia volta il mio nome.
“Beh, se ti servisse un altro passaggio, quella lì in fondo è la mia casa” “È stato un piacere” sorrisi di nuovo.
 
Per tutto il corso dell’estate, Logan non esitò ad offrirmi altri passaggi.
Mi fece da guida per la città, mi portò in tutti i posti più quotati e mi fece conoscere anche i suoi amici.
Diventammo davvero molto uniti, e questo forse fu accentuato dal fatto che fossi nuova in città e lui sentì il bisogno di farmi da ‘fratello maggiore’.
Non avevo mai conosciuto una persona come lui prima. Sempre disponibile, ma delle volte davvero molto timido, riusciva a strapparmi una risata anche quando un’auto mi schizzava dell’acqua sui jeans, così da costringermi a tornare a casa, cambiarmi ed arrivare tardi al mio turno, subendomi un ennesimo rimprovero da Dan, il proprietario.
Ogni volta che uscivamo per mangiare cinese e nella metro qualche ragazza lo fissava, lui arrossiva all’istante, scaturendo in me un divertimento pazzesco. Tutte le volte che il suo amico Dean organizzava qualche festa, come sua ‘accompagnatrice’ –così mi chiamava in questi casi- sceglieva sempre me. I suoi amici erano molti gentili con me, come lui d’altronde.
 
Poi arrivò quella sera.
Era sempre estate, il 10 di luglio se la memoria non m’inganna.
Mi passò a prendere lui, alle otto e trenta. Quando suonò il campanello, afferrai di fretta le chiavi e mi catapultai ad aprirlo. “Pronta?” “Metto le scarpe e possiamo andare!” esclamai dalla mia camera. Lo sentii ridacchiare. “Cosa c’è?” mi affacciai dalla tromba delle scale, “Nulla” mi sorrise, con uno scintillio negli occhi che li rendeva ancora più blu dell’oceano.
Arrivammo da Dean. Per tutta la serata mi sentii come se qualcuno mi stesse fissando, ma puntualmente ogni volta che mi guardavo in giro trovavo il suo sguardo posato su di me.
 
La cosa che mi colpì molto furono le numerosissime fotografie che arredavano ogni minimo angolo vuoto della casa. Ritraevano quasi tutti i soggetti della famiglia di Dean, ed erano ornate di cornici bizzarre ed eleganti allo stesso tempo.
“Ma questo sei tu, Dean?” “Ti prego, non guardare queste foto!” scherzò il ragazzo, coprendo le immagini che campeggiavano su una parete del salotto con una mano. “Oh, ora che mi fai ricordare ce n’è una che devi assolutamente vedere” disse Dean, quando poi mi invitò a seguirlo in un’altra stanza. Con noi venne anche Logan, esibendo un’espressione interrogativa sul suo viso.
“Riesci a vedere chi sono?” mi chiese il ragazzo, dopo avermi mostrato una piccola fotografia sbiadita, conservata attraverso un vetro consumato e una cornice ambrata arrugginita. La foto ritraeva un gruppo di persone, di bambini ad essere precisi. Indossavano tutti un piccolo grembiule bianco, sporco di vernice colorata, e una grossa coccarda nera avvolta intorno al colletto. Quasi tutti i bambini portavano i capelli di una lunghezza che variava dall’altezza delle orecchie a quella delle spalle. Feci scorrere il dito da bambino a bambino, cercando di riconoscere il viso di Dean, quando ad un tratto lo trovai. “Ma che carino che eri” risi fragorosamente, quando il ragazzo arrossì lentamente. Continuai a far scorrere il dito su ogni volto, quando incontrai quello di un bambino moro, con gli occhi dello stesso colore del cielo. Senza contare fino a dieci, esordii “Questo sei tu, Logan”. Il ragazzo, che fino a quel momento si era tenuto alle mie spalle, mi si piazzò davanti –sulla mia sinistra, se non erro-, afferrò la fotografia, stirò il viso in una smorfia buffa e poi mi rispose “Esatto, con una chioma degna da D’Artagnan”. Scoppiammo a ridere entrambi per la battuta, quando tutto d’un colpo lui mi baciò.
Rimasi immobile per quei dieci secondi più belli della mia vita.
Quando si riprese, mi guardò fisso aspettandosi una reazione negativa da parte mia, ma tutto quello che ricevette fu solo una conferma positiva in risposta alla sua ‘domanda’ di qualche minuto prima.
Fu così che le strade, le panchine, i giardini e tutti i ristoranti più economici conobbero Noi.
Logan entrò nella mia vita non come un uragano –come direbbero tutti-, no. Lui fu quel vento d’estate che si fa spazio tra le foglie, gli alberi, le foreste, e fa germogliare tutti i gelsomini notturni; fu quella sublime pioggia che dona vita all’erba dei giardini quando fa caldo; fu quella luce flebile che mi riuscì a riscaldare il cuore.
 
Il nostro crederci nel lieto fine durò fino a quando, un giorno di febbraio, Logan mi vomitò addosso troppe parole che non mi evitarono le lacrime. Doveva pur arrivare un momento del genere.
La lettera dall’Accademia Militare gli arrivò proprio il giorno prima: era stato arruolato sì, ma non in quella in città. Doveva trasferirsi in un altro continente, a tempo indeterminato.
Il mondo mi si sgretolò lentamente addosso all’istante. Le lacrime mi scesero velocemente una dopo l’altra, ma non facevano in tempo ad arrivare al mento che il suo pollice le asciugava sulle mie guance. “Non puoi andartene” continuavo a ripetergli senza fine, come se gli volessi far cambiare idea, ma non ci fu verso.
Il mese seguente ricordo che lo accompagnai all’aeroporto quattro ore prima a quella dell’imbarco, in modo che restammo avvolti tra le nostre stesse braccia per tutto il tempo, strozzando ogni pianto dentro i vestiti dell’uno e dell’altro.
Quando chiamarono il suo volo, mi sentii persa. Mai come mi sentii però quando arrivò il suo turno all’imbarco: stavo cadendo in minuscoli miliardi di pezzi e questo Logan riuscì a percepirlo nei miei occhi. Stavo per morire lì, in piedi, da sola, fissando gli occhi del ragazzo spegnersi lentamente metro dopo metro.
 
Passarono mesi e mesi, di cui mi ricordo poco, fino ad arrivare ad ora. Speravo in un suo inatteso arrivo, ma non ce ne furono.
 
Quindi, eccomi che ritornavo in me, dopo questo meraviglioso flashback della mia vita fino a quel momento, ed eccomi che continuavo a fissare fiduciosa il vialetto di casa zuppo di acqua insulsamente.
La tazza di tè non fumava più, la pioggia era cessata e la luce era ritornata in tutto il vicinato.
Decisi di uscire a prendere una bella boccata d’aria, così salii al piano di sopra per infilare una felpa e un paio di scarpe da ginnastica, quando mi arrivò una chiamata su Skype.
“Hey!” esclamò Logan dall’altra parte dello schermo, “Hey” abbozzai un sorriso, asciugandomi con il polsino della felpa quello che restava delle lacrime precedenti. Si trovava in un posto strano: era buio, o semplicemente nero, alle sue spalle e non riuscivo a sentire il brusio degli altri militari che parlavano. “Dove sei?” chiesi preoccupata, ma non mi rispose. Continuava a parlare ignorando ogni mia domanda sospetta, facendo accumulare un senso di preoccupazione misto a quello di paura terribile. Mi sbiancai velocemente, quando tagliò corto e interruppe la videochiamata, dopo aver annuito ad una voce maschile che gli rimproverò qualcosa che non riuscii a decifrare.
Questa chiamata mi terrorizzò fino alle ossa, che la voglia di prendere una boccata d’aria si tramutò in un’improvvisa apatia.
Restai immobile a contemplare le stelle adesive sul soffitto della mia camera che, con lo scorrere delle ore, si andarono facendo sempre più brillanti. Non smisi di pensare a milioni di impossibili ed inesistenti ipotesi che mi giustificavano nei modi più improbabili il suo comportamento alla fine della videochiamata.
 
Quando finalmente stavo per addormentarmi tra le braccia di Morfeo, suonò il campanello.
Sbarrai gli occhi. Rivolsi una veloce occhiata all’orologio elettronico sopra la scrivania: le 06.36 del mattino.
Sospirai e cauta mi tirai giù per le scale, cercando di non provocare alcun tipo di rumore.
Scorsi la testa più lontano, verso la vetrata del salotto per provare a scorgere chi fosse alla porta, ma non riuscii a vedere nessuno.
Allora, mi feci coraggio e mi avvicinai lentamente all’ingresso. Intanto il campanello ripeté il suo suono per una decina di volte.
Diedi la prima mandata nella serratura, sentendo i passi pesanti –che due minuti prima facevano per andarsene- ritornare veloci sul pianerottolo del vialetto. Abbassai la maniglia sempre con molta cautezza. Aprii la porta.
“Hey”
Portai le mani alla bocca, strozzando un urlo sorpreso di gioia.
Lui fece un passo dentro e mi afferrò per la vita, alzandomi di qualche decina di centimetri dal suolo. Mi strinse forte contro il suo petto, dove riuscii a percepire il suo cuore.
Stavo per morire di nuovo, ma stavolta lo stavo facendo fra le sue braccia. 






spazio Heiobrien: 
salve a tutti, questa è la mia primissima One Shot, per di più su Logan, quindi se non vi è piaciuta vi chiedo di avere pietà su di me. E' tutta frutto di un sogno ricorrente.
volevo solo ringraziare Chiara e Martina per averla letta per prime, e poi Roberta, Federica e Valentina che sopportano ogni mio sogno strano come questo.

ah, ringrazio anche voi per averla letta, se avete qualcosa da dirmi recensite, leggerò volentieri :)
ps: non so perchè, ma non l'ho riletta quindi scusatemi ogni tipo di errore o orrore! 

 
  
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