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Autore: Leopimpa    12/07/2014    2 recensioni
Fanfiction ideata in un sabato pomeriggio di noia che ha per
protagonista il mio poeta preferito, Giacomo Leopardi mettendone in
luce la complessità psicologica e immaginando una vicenda
che parte dal suo disagio esistenziale evolvendosi in qualcosa di
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Genere: Fluff, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
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Semi sdraiato sul letto Giacomo respirava lentamente, guardando con orrore a quella vita che gli era saltata addosso brutalmente diciannove anni prima, senza chiedergli il permesso, perché l’esistenza è quanto di più prepotente esista, non vi è rimedio che non siano l’amara accettazione o la più cupa disperazione. Si osservò di sottecchi le mani lunghe e scarne , assomigliavano tanto alle mani di sua madre, al pensiero il suo corpo venne scosso da un lieve sussulto, perfido destino, quello di avere le stesse mani di colei che quasi mai durante l’infanzia aveva avuto un momento di tenerezza nei suoi confronti, uno dei tanti fattori che avevano contribuito a scavare quella voragine immensa come la sua anima cupa come la notte, profonda come il suo sguardo. Si appoggiò entrambe le mani sul volto e timidamente lo accarezzò chiudendo gli occhi e pensando che nessuno avrebbe mai voluto accarezzare quel volto. Sentì una spada trafiggergli il petto o forse era solo la lucida consapevolezza della sua prigionia a pugnalarlo senza pietà. Si osservò nel grande specchio di ottone e finse di essere estraneo a se stesso. C’era qualcosa, qualcosa di dannatamente sbagliato in lui da suscitare il ribrezzo nel prossimo. Strinse forte i pugni e deglutì piano, la sua bocca era intrisa del sapore del fiele. Riflettè sull’amara realtà che ciò che lo faceva sentire bene, comporre poesie o immergersi nella lettura non erano altro che cure palliative ad una malattia inevitabilmente mortale, incurabile: la vita. Aspettava qualcosa, o forse qualcuno che possedesse la chiave di volta della sua condizione esistenziale, qualcuno in grado di ribaltare per sempre le regole del gioco. Iniziò a mordersi nervosamente le unghie fino a che il sapore amarognolo del sangue lo calmò leggermente. Osservò una goccia di sangue scendere lungo il dito e nel suo rosso vide tutta la forza misteriosa della vita, che in un altro tempo, in un altro luogo avrebbe potuto dargli così tanto…

 

Salì in fretta i gradini di legno che gemettero sotto al suo seppur esile peso. Doveva farlo. Era una piccola vendetta innocente che per lei significava tantissimo. Entrò nella camera dei suoi genitori, si tolse le scarpe e con gesti lenti si avvicinò all’anta sinistra dell’armadio. Aprì pregando che non scricchiolasse come tutto il legno di casa sua consumato dal troppo uso e dalle tarme. Se li vide davanti, i pantaloni “buoni” di suo padre e ancora prima di essersi resa conto di ciò che stava facendo li strinse avidamente fra le mani e senza esitazione iniziò a togliersi il vestito. Rimase con il corsetto e la biancheria intima e ansimando lievemente se li infilò mentre  i brividi scuotevano le sue gambe. Mosse qualche passo incerto e sorrise a se stessa, riflessa nel vecchio specchio vicino all’armadio. “Teresa…” Una voce flebile si spinse su per le scale fino a lei, e il mondo le crollò di nuovo addosso. “Mamma! Vengo, vengo subito!” gridò trasalendo. Iniziò a togliersi i pantaloni con foga ma data la sua  scarsa dimestichezza con quel tipo di indumento inciampò e cadde a terra goffamente. “Teresa” La voce si era fatta più flebile. Gemette piano e si rialzò sistemandosi il vestito alla bell’e meglio. Sentiva dolore ovunque. Ripose i pantaloni nell’armadio e  si precipitò giù per le scale e posò lo sguardo sull’esile corpo di sua madre, oramai immobile in quel letto da più di tre mesi. Prese la brocca d’acqua che aveva precedentemente riempito al pozzo, la versò in un bicchiere e dopo averle messo le mani dietro alla testa per farla raddrizzare un poco le avvicinò il bicchiere alle labbra secche. “Devo parlarti” mormorò con affanno. “Ditemi, vi ascolto” Rispose la fanciulla ignorando la fitta al petto provocate dalle parole di sua madre. “Io temo, cioè credo di essere incinta, di nuovo.” Teresa si ritrasse schifata. “Ma…” Mormorò con gli occhi gonfi di lacrime “Come ha potuto… voglio dire lo vede come state e poi… non comprende che è molto rischioso per voi portare avanti una gravidanza?” Vide che sua madre cercava di scuotere la testa. Appoggiò delicatamente sua madre al guanciale, sentì il pianto stridulo della sua sorellina di cinque mesi. Strinse forte i pugni e la prese in braccio, aveva voglia di fare qualcosa con le mani, i pensieri e la rabbia la stavano uccidendo. La cambiò in fretta con gesti rapidi e meccanici, poi si interruppe di colpo, udendo in lontananza i passi di suo padre avvicinarsi sempre di più.

 

Era avvolto in un dolce torpore, in grado, anche se momentaneamente di attenuare la sua sofferenza. Sentì il rumore di una carrozza, sperò che non fosse suo padre invece riconobbe la loro carrozza e i loro cavalli e sbuffò leggermente. Osservò il cocchiere scendere, aprire la porta della carrozza a suo padre e accennare un rozzo inchino prima di  dirigersi verso casa. Lo invidiava con tutte le sue forze.

 

Teresa cercò a fatica di controllare la rabbia e per fare ciò si sforzava di non guardare sua madre ma era più forte di lei. Aspettò di sentire suo padre chiudere dietro di sé la porta della sua prigione prima di sibilare, con tutta la cattiveria che aveva in corpo “Voi siete un mostro”. Vide suo padre spalancare gli occhi senza accennare una risposta fu allora che alzò la voce sbattè i piatti sul tavolo che sua madre le aveva chiesto di apparecchiare gridando “Si, avete capito bene. Un mostro della peggior specie. Vergogna!!!” Sentì suo padre afferrarle uno dei suoi esili polsi e scaraventarla contro la credenza. Sua madre sobbalzò ma non ebbe la forza di fare altro. Cercò di chiamare suo fratello che stava zappando nell’orto ma non le uscì che un flebile gemito. Aveva sbattuto forte la testa e un fiume di sangue usciva dalle sue narici, erano giorni che mangiava un frutto a pranzo e un tozzo di pane a cena ed ora perdere sangue significava perdere quelle poche forze che le rimanevano per reggersi in piedi. Si accasciò per terra aspettando di morire, invece il dolore era sempre più vivo mentre sentiva i piedi di suo padre affondare nella sua schiena.

 

Sentì un urlo lontano e si alzò in fretta dal letto, scese lo scalone del palazzo con un leggero affanno, la luce del tramonto lo accecò facendogli ricordare che anche in un altro tempo, in un altro luogo non avrebbe potuto avere una vita normale era la vita stessa che glielo impediva. Uscì dal portone e spalancò gli occhi incredulo e terrorizzato allo stesso tempo.

 

Teresa aveva raccolto tutte le sue ultime forze in preda al più crudo istinto di sopravvivenza che ti spinge a proseguire la tua esistenza seppure sia peggio di una perenne tortura e si era trascinata fuori dalla porta di casa, le usciva sangue dal naso dalle labbra e dalla fronte, respirava a fatica senza smettere di singhiozzare. Quando vide il conte Giacomo avvicinarsi a lei titubante sentì il desiderio di sparire, la sua umile condizione non aveva mai spento in lei l’orgoglio che in quell’istante ribolliva e fremeva in lei, tuttavia nel passo tremolante di quel giovane uomo e nel suo sguardo triste scorse qualcosa di diverso dalla commiserazione, ma forse era un’altra illusione confezionata dalla sua mente per sopravvivere.

  
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