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Autore: Corvero    31/08/2008    1 recensioni
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Nausicaa212, assistente amministratrice.
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO II L'indagine continua


STRADA BUIA

Il paesaggio spettrale della strada vuota e male illuminata era avvolto in una calma inquietante. Il silenzio fu spezzato da un rapido ticchettare di tacchi. Una giovane donna molto truccata e vestita in maniera appariscente svoltò l’angolo, ansimando. Per qualche secondo si fermò, terrorizzata e ansimante, muovendo la testa da sinistra a destra, in cerca di una via d’uscita. Svoltò a sinistra e si rimise a correre.

Si bloccò di nuovo di fronte ad uno stretto passaggio fra due muri sudici. Correndo, si liberò dei sandali verdi dai tacchi alti che portava ai piedi.
Dopo pochi passi si accorse del suo errore: il passaggio terminava con un solido muro di mattoni, alto almeno tre metri. “Dannazione” imprecò, voltandosi rapidamente e correndo a piedi nudi sull’asfalto.

La ragazza si fermò di nuovo, smarrita. Decise di imboccare il vicolo da cui era entrata. Inspirando profondamente, si lanciò in una nuova corsa.

Uno sparo mancò di pochissimo la sua gamba destra. “Testa a terra” le ordinò una voce maschile dal tono autoritario, la stessa voce dell’uomo che il giorno precedente, mascherato da un passamontagna, aveva minacciato Steven . “Ti prego, non farmi del male.” supplicò la ragazza. “farò qualsiasi cosa, ok? Qualsiasi, tutto quello che vuoi, ma non spararmi.”. “Ultimo avvertimento. A terra” ordinò bruscamente la voce maschile. La donna obbedì, singhiozzando.

Un uomo dal viso duro e dall’espressione decisa le si avvicinò, puntandole una Beretta alla testa. “Ti chiami Holly Valance, giusto?” le chiese in tono freddo. La donna annuì. “Tre mesi fa” continuò l’uomo “ti è arrivata una lettera. La lettera conteneva una chiave e un indirizzo, oltre a delle istruzioni su cosa nascondere nell’edificio aperto dalla chiave. Voglio quella chiave e quell’indirizzo.” “Non posso darteli” rispose a bassa voce Holly.

L’eco dello sparo fu assordante. Pezzi di intonaco colpirono la donna sulla schiena. L’uomo scosse la testa “Chiave e indirizzo” ripeté. “Non posso…non li ho con me!” urlò Holly.
L’urlo si trasformò in un mugolio di dolore dopo il terzo sparo, che colpì di striscio la ragazza alla gamba sinistra.
“Sentimi brutto bastardo, non li ho con me! Li ho a casa, non me li porto certo in tasca quando devo incontrare i clienti!” piagnucolò la donna. “Gesù Cristo, mi hai bucato! Non mi potrò muovere per una settimana!” “Non ci siamo capiti. Sai che potrei spararti alla testa?” commentò freddamente l’uomo, facendola tacere. “Se quello che dici è vero, mi serve la tua chiave di casa.”

“Devo alzarmi per dartela” mormorò Holly. “Va bene. Ma niente scherzi” replicò l’uomo, sempre tenendola sotto tiro.
La donna si alzò in piedi lentamente e infilò la mano nella tasca destra del giubbotto metallizzato che stava indossando. “Lanciami le chiavi. Lentamente” le ordinò l’uomo. Holly annuì, ma con uno scatto estrasse una pistola di piccolo calibro dalla tasca e fece fuoco. L’uomo rimase interdetto per una frazione di secondo, prima di rispondere d’istinto al fuoco.

Il colpo dell’arma della donna colpì l’uomo di striscio al braccio, ma la pallottola uscita dalla Magnum dell’uomo centrò Holly in mezzo agli occhi. La donna si accasciò a terra, morta.

Mordendosi le labbra per il dolore, l’uomo estrasse un cellulare dalla tasca sinistra della sua giacca nera. “Mi serve appoggio” sibilò nell’apparecchio. “Sono stato colpito”.

Respirando profondamente, l’uomo rimise il cellulare al suo posto e si accese una sigaretta. Dopo alcuni istanti, una mano calò sulla sua spalla. Voltandosi di scatto, l’uomo riconobbe l’uomo dai jeans sporchi che aveva ostacolato Steven il giorno prima.

“Hai poca fortuna con le donne, Kerman.” commentò l’uomo. “Al diavolo le tue battute, Taggart.” rispose Kerman “Dammi delle bende e portami da bere. E avverti il capo: il bersaglio numero tre è stato eliminato. ” Taggart annuì. “Aspettami un minuto” annunciò, allontanandosi.

Mentre il suo complice spariva dietro l’angolo, Kerman si inginocchiò di fronte alla donna morta.
Estraendo un coltello dalla sua tasca sinistra, iniziò a conficcarlo nei vestiti e nella carne del cadavere, fino a che non incontrò una resistenza inaspettata nel reggicalze della sfortunata Holly.

Con un sorriso soddisfatto, Kerman strappò l’indumento dal corpo, recuperando un mazzo di chiavi nascosto al suo interno. Il mazzo era attaccato a un portachiavi etichettato come “PAULA CANTRELL-LOFT”.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Steven entrò dalla porta principale dell’agenzia, spalancandola. “Dobbiamo parlare” chiese subito a Dan, seduto dietro alla sua scrivania. Dan annuì e fece cenno a Steven di sedersi. Il detective scoccò una occhiata a Jane. Aggrottando le sopracciglia, Dan si schiarì la gola. “Jane, scusami se ti interrompo, ma…” “Ma devi prenderti un momento per parlare da solo con Steven” completò Jane.
“Un giorno o l’altro mi stancherò di quest’aria di mistero e comincerò ad origliare…” proseguì scherzando. Mentre passava vicino a Steven gli fece un occhiolino, a cui lui rispose con un cenno della mano. Jane uscì chiudendosi la porta alle spalle.

“Ieri sera sono quasi stato ucciso” esordì Steven, fissando Dan dritto negli occhi. “Due uomini hanno provato a spararmi, solamente perché stavo cercando informazioni sul caso Cantrell. Due cadaveri, i corpi di due testimoni, sono spariti. Ora ti chiedo: che cosa sai tu di tutto questo?”.

Dan aprì la bocca incredulo. “Di che cosa stai parlando?” chiese a Steven. Il suo nuovo sottoposto lo fissò per alcuni secondi, valutando le sue reazioni. “Mi vuoi spiegare cosa intendi con cosa ne so io?” domandò Dan. Steven, dopo un breve attimo di silenzio, scrollò le spalle. “Volevo solo vedere che cosa sapevi del caso, nulla di più.” “Solo ciò che ho letto nei rapporti ufficiali” si schermì Dan. “Ma cos’erano quelle frasi su un tentativo di omicidio? Stavi scherzando?” “No” rispose Steven. “E‘ tutto vero.” “Mio Dio” commentò Dan “Hai denunciato il fatto alla polizia?” “Questo è il bello, l’ho fatto, ma quando i poliziotti sono arrivati, tutte le prove erano sparite. Niente corpi, niente assassini, niente armi. Solo la mia parola e quella di un agente di polizia che, a quanto pare, è affidabile come un articolo sui coccodrilli nelle fogne. Curioso, vero?” concluse.

Dan scrollò la testa “Non è possibile.” commentò “E’ solo un caso di sparizione.” “Mi chiedo anche io il perché di tutto questo” rispose Steven, scuotendo la testa “Sei sicuro di volere continuare l’indagine?” chiese Dan.
“Più che sicuro” replicò Steven. “ C’è qualcosa di grosso dietro al caso, e per quanto riguarda i rischi, ci sono abituato. Questo potrebbe essere una buona occasione per fare pubblicità all’azienda , no?” Dan aggrottò le sopracciglia. “L’agenzia non vale più della vita dei miei dipendenti” ribattè.

“Di questo non devi preoccuparti, il caso è solo mio. Terremo la tua segretaria e il tuo avvocato fuori da tutto questo.” Dan annuì con convinzione. “ A proposito, dove è quella simpaticissima ragazza?” “Patricia non arriverà prima delle undici” rispose Dan, con appena un accenno di rimprovero nella voce. “Perfetto. Ho giusto il tempo necessario per evitarla” concluse Steven, uscendo dall’ufficio e chiudendosi la porta alle spalle.

Nel corridoio incontrò Jane, che lo salutò allegramente. “Ehilà, come va? Ma che cosa avete da dirvi tu e Dan di così misterioso ed importante? Non sarà stata un’altra ramanzina, spero...” Steven scosse la testa. “Cose da uomini” commentò. “Tu piuttosto, torna al lavoro subito.”

“Pensavo di fare un’altra ricerca per te, Sherlock” rispose Jane, sorridendo. “O ti servivo solo perché non hai una tessera della biblioteca?” “Ragazzina, da questo momento le indagini le faccio sul campo…” commentò Steven, scendendo le scale. Jane scosse la testa. “A chi hai detto ragazzina?” rispose ad alta voce, ricevendo in cambio solo uno sguardo ironico.

ZOO DI LINCOLN PARK

Il clima già freddo e umido di fine settembre non invogliava di certo molti turisti a visitare il vecchio giardino zoologico, che quella mattina, un po’ per il tempo nuvoloso, un po’ per la mancanza di bambini eccitati dagli animali, sembrava spoglio e inospitale.

Patricia Lawford si fermò davanti alla gabbia delle antilopi, indossando, per puro istinto protettivo, un paio di occhiali da sole e soffermandosi ad osservare gli esemplari di antilope africana appena arrivati dal Serengeti.

“Sorprendenti, non è vero?” le chiese una voce dal lieve accento messicano alle sue spalle. Girandosi, Patricia riconobbe un uomo sulla cinquantina, dal colorito scuro, piuttosto basso e quasi privo di capelli, che portava un paio di occhiali scuri molto simili ai suoi.

“Sei in ritardo” sussurrò Patricia. L’uomo si strinse nelle spalle, osservando le antilopi. “Le hanno portate via dal loro territorio, a migliaia di miglia dalle loro case, eppure guardale. Sono le padrone di quel recinto, con una grazia che noi esseri umani non potremo mai avere” Sospirò rumorosamente, quasi melodrammaticamente.

“Mi ricordano molto te. La stessa grazia, la stessa capacità di adattamento, ma anche la stessa fragilità. Sei nata antilope, Patricia, non leonessa. Il tuo destino è scappare o accettare il recinto”. “ Puoi anche lasciare perdere la tua filosofia da quattro soldi” rispose Patricia, irritata “Penso proprio che non siamo qui per parlare di animali” concluse. “Quanta fretta. Bene, mi piacciono le donne che amano il loro lavoro.” commentò allegramente l’uomo “Patricia si irrigidì e tornò ad osservare le antilopi. “Che cosa vuoi?” chiese, sempre più irritata e nervosa.

“Hai fatto un ottimo lavoro per me ieri, passandomi le informazioni sulle indagini del tuo nuovo collega ” commentò l’uomo “Vorrei che continuassi a farlo”. “Fino a quando? Quale è il patto?” domandò Patricia, aggiustandosi i capelli.

“Patto, Patricia? Quale “patto”? Ricordati che tutto quello che fai, lo fai solo per te stessa. Io non guadagno nulla da tutto questo. Anzi, in realtà io potrei benissimo fare a meno di te” annunciò poi , in tono funebre. “E’ solo per la mia bontà innata che ti aiuto: come farei a fare del male ad un visino così bello?” concluse, sfiorando la guancia di Patricia con la mano destra. “Toccami ancora e sei morto, brutto porco” sussurrò la donna, stringendosi le labbra fra i denti.

L’uomo rise fragorosamente, allontanandosi tuttavia di scatto dalla donna. Due passanti si voltarono verso la coppia,ma, non notando nulla di strano proseguirono, alzando le spalle. “Il tuo collega è la chiave per arrivare alla tua libertà. Tu continua ad informarmi su di lui, e un giorno, quando te lo sarai meritato, l’originale di quella cassetta sarà tuo.” concluse il messicano, avviandosi verso l’uscita dello zoo. Patricia si tolse gli occhiali scuri, rimanendo per alcuni secondi a fissare la schiena dell’uomo che si allontanava lentamente.

OTTAVO DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO

“E poi, zap! Spariti! Come se non ci fossero mai stati!” sentenziò Frank, accompagnando le sue parole con uno schiocco di dita. “Uh uh” rispose il suo interlocutore,l’agente Davis, senza sollevare lo sguardo dal giornale sportivo che stava leggendo. “E non è finita qui: anche i corpi che avevo trovato nella casa erano spariti! Pazzesco, vero?” concluse Frank.

“Già, è pazzesco che i Bulls siano riusciti a perdere contro i Dodgers. ” mormorò Davis. “Ma tu non mi stavi ascoltando!” sbottò spazientito Frank. “Eh?” rispose Davis, senza smettere di leggere. “Senti” continuò poi, sollevando lo sguardo sul viso di Frank ,arrossito dalla rabbia “mi hai raccontato questa storia almeno una dozzina di volte. Ed è più ridicola ogni volta che la sento” concluse. Frank aprì la bocca per commentare, ma il gesto si mutò improvvisamente in una smorfia di sorpresa.

Alle spalle di Davis, un uomo sulla quarantina dai capelli corti che indossava degli occhiali spessi, vestito elegantemente in blu,esibiva un distintivo dell’FBI a una donna poliziotto, che lo stava indirizzando verso la scrivania di Frank. “Frank Beaumont?” chiese l’agente FBI a Davis, avvicinandosi ai due poliziotti. “Per carità, no!” rispose l’agente. “E’ lui” commentò , indicando Frank con il pollice. “Sono l‘agente Gall, FBI” si presentò quest’ultimo,mostrando il suo distintivo. “Gradirei rivolgerle alcune domande”

“Ehm, sì” rispose nervosamente Frank. “Certo. Su che argomento?”. Con un sorriso indefinibile, l’agente Gall aprì un piccolo taccuino e afferrò una penna dalla scrivania di Davis. “Quella sarebbe mia” protestò quest’ultimo. “Ieri pomeriggio” esordì Gall, senza degnare Davis di uno sguardo“lei ha assistito un investigatore privato in una indagine non ufficiale. A quanto pare, ha poi testimoniato di avere ritrovato due cadaveri in una abitazione privata. Sbaglio?” concluse. “Sì, è esatto, ma non l’ho solo testimoniato, c’erano davvero, quei due corpi, io li ho visti!” rispose Frank, sbattendo il pugno sul tavolo.

“Risponda alle domande e non aggiunga elementi inutili, per favore” replicò freddamente Gall. “Inutili!?” esclamò stupefatto Frank. “Sapeva che l’investigatore con cui ha collaborato ha all’attivo tre denunce per aggressione e due per guida in stato di ebbrezza?” continuò Gall, imperturbabile.
“No, ma è stato assolto,no? Altrimenti non avrebbe la licenza di privato,non è vero? Cioè, siete voi federali a decidere queste cose, voglio dire…” rispose nervosamente Frank, colto di sorpresa. “Risponda alla domanda, per favore” “No. Però-” mormorò il poliziotto.

“Che cosa sta facendo?” tuonò una voce alle spalle di Gall. L’agente FBI si girò di scatto, incontrando lo sguardo deciso del luogotenente Bronson. “Solo domande di routine, luogotenente” rispose Gall, appoggiando la penna sulla scrivania di Davis. “Non nel mio dipartimento, e non a quest’ora” gli ordinò Bronson. Gall si alzò di scatto.

“Le devo ricordare che sul caso in questione è in corso anche una indagine federale?” suggerì con voce calma. “Ha un mandato per rivolgere domande al mio agente? Se non lo ha, può anche lasciare subito il mio dipartimento.” replicò Bronson, senza rispondere. Gall si alzò e fissò il superiore di Frank negli occhi, prima di scrollare la testa ed andarsene, uscendo dalla porta principale.

“Beaumont, lei continui a lavorare sul caso” ordinò Bronson. “Davis, lei sarà di supporto all’agente Beaumont” proseguì. “Voglio un rapporto per ogni giorno di indagine. Consegnerete i vostri rapporti personalmente nel mio ufficio. Nessun civile” aggiunse Bronson, squadrando Frank con aria di rimprovero “dovrà essere messo al corrente dei vostri progressi.” Davis, stupefatto, lasciò cadere il suo giornale. “E’ tutto” concluse il luogotenente , allontanandosi in fretta.

“Che ti dicevo? C’è qualcosa sotto!” esclamò Frank, gongolante. “Un’indagine con te? Ma perché l’universo mi odia?” sbuffò Davis, alzando gli occhi al cielo. Frank scrollò le spalle, soddisfatto.

Quando il suo collega gli voltò le spalle Frank afferrò il suo cellulare e inviò a un messaggio: Vediamoci subito. Ho delle informazioni da darti. La risposta non si fece attendere 13 Regent Street. Il mio appartamento. Tra mezz’ora. .

Frank squadrò Davis, che stava mettendo in ordine ad un cumulo di carte spiegazzate, e senza dire nulla si alzò dalla sua scrivania e si avviò verso l’uscita.

FUORI DAL DIPARTIMENTO DI POLIZIA

L’agente Gall prese il suo telefonino dalla tasca destra del suo completo e digitò un numero. “Sono Gall, signor Scott” si presentò. “Abbiamo un problema. Campbell ha coinvolto nelle sue indagini un civile, un agente locale. Il capo del dipartimento mi ha chiuso la porta in faccia, e non ho elementi per richiedere un mandato e interrogare quel dannato poliziotto.”

SEDE FBI DI CHICAGO

Scott, un uomo biondo e piuttosto massiccio, sedeva ad una scrivania, tendendo un telefono premuto all’orecchio. “Risolverò io questo problema, Gall” rispose in tono asciutto “Tu preoccupati di gestire le nostre indagini.” concluse, chiudendo la conversazione.

Riappoggiando la cornetta del telefono Scott premette un pulsante sulla sua scrivania. Subito la porta del suo ufficio si aprì, facendo entrare Kerman e Taggart, ovvero l’uomo con il passamontagna e quello con i jeans sporchi. “Mi avete deluso ieri” iniziò Scott. “Non mi avete portato Campbell. Evidentemente è un lavoro troppo difficile per voi due.” concluse in tono sarcastico. I due chinarono semplicemente la testa. “Non importa. Le informazioni della nostra talpa si sono rivelate affidabili, e per vostra fortuna avete eliminato i tre bersagli e recuperato le chiavi. “ aggiunse Scott.

“Niente più errori, o i vostri falsi certificati di morte diventeranno una spiacevole realtà” concluse in tono minaccioso. Kerman e Taggart annuirono di nuovo.

APPARTAMENTO DI STEVEN CAMPBELL

“Ne sei sicuro?” chiese Steven, sedendosi d’improvviso sul suo letto. “Sicuro come sono sicuro che Miami Vice è il miglior telefilm mai apparso in TV. O come lo sono del mio fascino inimitabile.” rispose Frank, sbattendo un pugno sulla testiera. “Per pietà” sibilò Steven fra i denti. “Limita i paragoni…le mie orecchie potrebbero non supportarne un altro.”

“Comunque, è interessante. Un indagine federale in corso è un altro indizio che c’è qualcosa di importante in questa sparizione. Significa anche che il tuo aiuto mi è più che mai necessario. Un appoggio ufficiale fa comodo in questi casi.” proseguì. “Ehm, questo è un punto dolente…” mormorò Frank. “Il mio capo mi ha ordinato di non rivelare niente ai civili. In teoria non dovrei nemmeno essere qui...però ci sono. Da solo non ce la faccio, e il capo mi ha messo in coppia con un rompiscatole, l’agente Davis. L’unico modo per scoprire la verità è collaborare con te.”

“Gentile da parte tua dirmelo ora…”sbottò sarcasticamente Steven. “Ehi, cos’è tutto questo veleno? Me l’ero semplicemente dimenticato!” “Se scopre dove sei stato, il tuo collega ti farà rapporto, genio! Tu sarai escluso dalle indagini e io perderò la mia fonte di informazioni e sostegno ufficiale. Non venire più qui. Comunicheremo via mail. Nessuno ci deve vedere insieme.” concluse Steven, spingendo Frank fuori dalla porta.

“Io ti servo!” sbottò Frank deluso, mentre la porta dell’appartamento di Steven si chiudeva alle sue spalle. “Non puoi buttarmi fuori!” urlò. “Non è la tua città! Come farai senza di me, sul campo?” Per alcuni secondi Steven non rispose, poi la porta si riaprì.

“Se ci rinchiudono per violazione della privacy, sei morto” esclamò Steven, puntando un dito al petto di Frank. “Non succederà, siamo i migliori. Non lo verrà a sapere nessuno. Allora, cosa cerchiamo oggi?” “ chiese Frank, con un sorriso soddisfatto. Steven alzò gli occhi al cielo.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Jane bussò alla porta dell’ufficio. “Posso rientrare ora, capo?” chiese ad alta voce, senza ottenere risposta. Incuriosita, abbassò la maniglia ed entrò. Non c’era nessuno, anche Dan sembrava sparito. Sempre più curiosa, Jane si sedette davanti alla sua scrivania, cercando di lavorare al suo computer.

La scrivania vuota di Dan attirava sempre di più la sua attenzione. Dopo aver scosso la testa un paio di volte, Jane sbuffò e si avvicinò alla sedia del suo capo e aprì un cassetto. Si voltò per controllare che nessuno la stesse osservando, ma l’ufficio era ancora vuoto. “No” mormorò dopo una breve pausa, scuotendo la testa.

La porta dell’ufficio di Dan si aprì di scatto e il proprietario della Weissman Investigations ne uscì, riponendo un cellulare nella sua tasca destra. Il suo sguardo incontrò quello di Jane, che si morse le labbra. “Qualcosa non va?” chiese Dan. “No, signore, nulla. Mi stavo solo chiedendo dove fosse finito…”

“Dovevo fare una telefonata importante” rispose l’uomo, squadrando attentamente la sua segretaria.
Jane annuì debolmente. “Torno al mio lavoro” proclamò. “Non è necessario. Oggi chiudiamo a quest’ora” rispose Dan. “Hai la giornata libera”. “Davvero? Fantastico! Grazie, capo!” rispose Jane, prendendo la sua borsa e appoggiando la mano destra alla maniglia. “Jane” la fermò Dan “Si , capo?” rispose nervosamente la segretaria. “Volevo chiederti come sta tua madre.” “A dire il vero è da due giorni che non la vedo. Adesso che ci penso, devo proprio farle visita. Arrivederci” lo salutò Jane e uscendo dall’ufficio.

Dan si sedette alla sua scrivania e notò il cassetto aperto. Lo chiuse con stizza e il suo volto si rabbuiò. “Non tu, Jane. Almeno tu devi veramente restarne fuori” mormorò tra sé e sé.

SOBBORGHI DI CHICAGO

L’automobile di Steven e Frank si fermò vicino ad un motel. “La madre della ragazza abita qui?” esclamò Frank, stupito. “Non tutti vivono in un appartamento” replicò Steven. Frank si slacciò la cintura e aprì la portiera.
“Aspetta” lo interruppe Steven “Ti ricordi di quello che è successo l’ultima volta che abbiamo provato a scendere senza prendere precauzioni?” Frank deglutì e annuì leggermente, mentre Steven estraeva una pistola dalla sua fondina ascellare. “Solo in caso di necessità” suggerì a Frank, che approvò annuendo di nuovo“Giusto. Necessità”.

“Andiamo” concluse Steven , uscendo dalla macchina e chiudendosi la portiera alla spalle. I due salirono la scalinata esterna del motel fino al secondo piano e, voltando un angolo, si avvicinarono alla camera 214. Steven bussò alla porta. “Chi è?” chiese una voce roca e assonnata dall’interno. “E’ la signora Helen Cantrell?” domandò Steven a sua volta. “Dipende. Chi mi cerca?” rispose la voce. “Siamo della Weissman Investigations, vorremmo parlarle di sua figlia”

Si udì il rumore di un catenaccio tolto e la porta si aprì, rivelando una donna di mezz’età, mora, che indossava un accappatoio verde macchiato di grigio. Doveva essere stata una bella donna anni prima, ma le pesanti borse sotto gli occhi, i capelli arruffati e un aria generale di degrado la rendevano molto più vecchia di quanto non fosse.

“Che volete?” chiese in maniera sgarbata. “Ho già detto tutto quello che sapevo su mia figlia alla polizia quando ho fatto la denuncia di sparizione. La vostra agenzia non la conosco nemmeno.” Steven e Frank si scambiarono un’occhiata stupita. “Mi scusi, ma non è stata lei a pagare la nostra agenzia?” chiese Steven, scrutando la donna.

“Bello, se avessi i soldi per pagare dei poliziotti privati non vivrei qui, non trovi? Deve essere stato quel fesso del suo ragazzo.” rispose la donna, estraendo un pacchetto di sigarette e un accendino molto sporco da una tasca. Si accese una sigaretta e inspirò. “La avete ritrovata? ” chiese, aspirando avidamente il fumo.

Steven scosse la testa. “No, signora. Vorremmo sapere qualcosa di più della vita privata di sua figlia. Sa, le solite domande di routine” “Io non ne so nulla” rispose la donna. “Non viveva più qui da un anno. Se ne era andata così, all’improvviso, senza nemmeno ringraziarmi di averla messa al mondo. Trova un ragazzino ricco, mi promette un prestito, poi lo lascia e sparisce. Sono sicura che se ne è andata di proposito. Bella riconoscenza “ concluse amaramente.

“Ci potrebbe almeno dire chi è il suo fidanzato e dove vive?” chiese all’improvviso Frank. Steven gli diede un calcio nello stinco destro, facendolo mugolare leggermente dal dolore. “Scusi l’impazienza del mio collega” disse Steven, lanciando un’occhiataccia a Frank “Certamente c’è anche qualcosa d’altro che lei sa su sua figlia.”

“Il fidanzato è Harvey Krakowski, vive in Freemont Street. Numero Tredici“ concluse la donna, rientrando nella sua stanza e sbattendosi la porta alle spalle. “Signora Cantrell! Scusi, ma non abbiamo finito le nostre domande!” urlò Steven. La porta rimase chiusa. “Complimenti.” sibilò Steven a Frank.

“Ehi, io ho fatto solo una domanda!” rispose Frank “Non stavo chiacchierando con quella donna, stavo cercando di ottenere delle informazioni!” sibilò Steven fra i denti “Cosa che sarei anche riuscito a fare, forse, se tu non le avessi regalato su un piatto d’argento la possibilità di svicolare senza dirci nulla.”

Frank sbuffò. “Tanto non sapeva nulla.” Steven non gli rispose, ma lasciò che fosse il suo sguardo a parlare. “Andiamo” aggiunse poco dopo. I due scesero le scale di fretta: Steven precedeva Frank di pochi passi. “Non te la prendere troppo” commentò Frank “Non è stato del tutto un buco nell’acqua, almeno abbiamo l’indirizzo del fidanzato. Gli agenti che avevano steso il rapporto non lo citavano, chissà perché”

Steven si bloccò all’improvviso sul penultimo gradino. Frank incuriosito, si sporse per vedere cosa aveva attirato l’attenzione del partner.
Un agente di polizia sedeva sul cofano dell’automobile di Steven e Frank.Indossava un paio di occhiali scuri, e sembrava scrutare attentamente Steven e Frank.

“Non ci vorrà mettere una multa!” sbottò Frank, superando Steven e dirigendosi rapidamente verso l’agente. “Sono Frank Beaumont, Ottavo Dipartimento” proclamò ad alta voce, sventolando il distintivo sotto gli occhi dell’altro poliziotto. “Sto indagando su di un caso di sparizione-” continuò. L’agente puntò la sua pistola alla testa di uno stupefatto Frank. “A terra!” urlò Steven , estraendo a sua volta la pistola.

Frank obbedì rapidamente, proprio un istante prima che Steven e l’agente facessero fuoco. Il proiettile di Steven costrinse l’uomo in divisa ad abbassarsi. Il colpo della pistola dell’agente mancò Frank di pochissimo. Mugolando dalla rabbia, Frank afferrò le gambe del suo avversario, facendogli perdere l’equilibrio. L’uomo cadde a terra e perse la pistola. Steven corse giù per le scale, tenendo il poliziotto caduto a terra sotto tiro, mentre Frank si tuffò di lato, raccogliendo l’arma un attimo prima che l’uomo riuscisse ad afferrarla.

“Via quegli occhiali e dicci chi sei e chi ti manda” ordinò Steven, senza ottenere risposta. Dopi un attimo di incertezza anche Frank puntò la pistola alla testa dell’uomo a terra. “Questo non si fa, fra colleghi. Decisamente un brutto punto sul tuo stato di servizio.” commentò. L’uomo continuava a tacere, respirando appena. “Facciamo così: o ti togli gli occhiali, o ti sparo all’altro braccio” suggerì Steven. Frank fissò il suo partner, costernato.

“Non puoi farlo” mormorò.
L’uomo ignorò Frank e obbedì. Aveva un viso piuttosto comune, e occhi marroni nei quali si leggeva un misto di terrore e sconforto. “Bene. Ora facciamo una bella chiacchierata.” continuò Steven. “Chi sei? Perché ci volevi uccidere? Chi ti manda qui?” L’uomo sospirò e scosse la testa di nuovo. “Non vuoi parlare qui? Bene, in piedi, vediamo cosa dirai quando ti porteremo dai tuoi colleghi.”

Gli occhi dell’uomo si spalancarono per il terrore. “Non l’ho fatto per me” sussurrò. “Per chi, allora?”lo incalzò Steven. Senza preavviso, l’uomo caricò Frank, gli strappò la pistola di mano, se la puntò alla tempia e premette il grilletto.
Frank, inorridito, tentò inutilmente di afferrare la pistola dalle mani dell’uomo. Steven scosse la testa: “E’ morto” mormorò. Frank rimase in silenzio davanti al cadavere, quasi inebetito da ciò a cui aveva appena assistito.

“Aiutami a sollevarlo. Afferragli le caviglie.” gli ordinò Steven. Il poliziotto si riscosse dall’apatia in cui era caduto e obbedì. Ancora sotto shock, rabbrividì al contatto con il corpo. Steven aprì il bagagliaio dell’automobile e afferrò il cadavere sotto le ascelle. “Non dovremmo spostarlo” obiettò debolmente Frank “E’ una scena del crimine” “Dopo la bella esperienza di ieri, voglio fare in modo che non sparisca” rispose Steven. “Forza, non fare osservazioni inutili e aiutami. Lo porteremo direttamente alla Centrale di polizia più vicina.”

“Cosa state facendo?” li interruppe una voce. Helen Cantrell li stava osservando dal terzo piano, stupefatta. Steven si morse la labbra. Improvvisamente la donna si mise a urlare “Hanno ucciso un poliziotto! Fermateli!” “No, no, signora , non urli! Ha capito male! Quell’uomo si è sparato da solo!” si mise ad urlare Frank.

Diversi inquilini del motel erano usciti dai loro appartamenti e osservavano la scena. In molti si misero a strillare, altri semplicemente si indicavano a vicenda Steven e Frank. Una ragazza dai tratti asiatici afferrò il suo telefonino e digitò un numero.

NORTHWESTERN HOSPITAL

Jane attendeva pazientemente nella sala d’aspetto del reparto di Oncologia, leggendo una rivista vecchia di tre mesi e sbirciando, di tanto in tanto, gli altri occupanti della stanza.
“Jane Shelby?” chiese un’infermiera sulla quarantina, entrando nella sala. Jane sollevò la mano, sorridendo. “Sua madre è sveglia. Mi segua” ordinò l’infermiera, che portava una targhetta appuntata al petto. “Come sta mia madre” iniziò Jane, sporgendosi per leggere la targhetta “Katie?”

“La signora Ginevra Shelby torna adesso da una seduta di chemioterapia.” rispose Katie, con una freddezza che sconcertò leggermente Jane.
L’infermiera scortò la ragazza fino alla porta della stanza 56. “Faccia piano, è stanca e deve riposare.” Jane annuì e spinse leggermente la porta. “Entrate pure,non è una porta aperta di scatto che mi manderà all’altro mondo” commentò una voce all’interno. L’infermiera aggrottò le sopracciglia e seguì Jane all’interno della stanza.

Una donna sulla cinquantina le attendeva sdraiata su un letto. Indossava un pigiama blu da ospedale e una cuffia dello stesso colore, e sorrideva apertamente. “Ciao, mamma” la salutò Jane. “Ciao, Jane. E’ bello rivederti” rispose sua madre. “Mi dispiace non averti visitato più spesso di recente” si scusò Jane, mordendosi le labbra. “Non importa. Hai il tuo lavoro, la tua vita. Non puoi essere sempre qui per me” replicò la donna. L’infermiera Katie rivolse a Jane uno sguardo di disapprovazione.

“Può lasciarci da sole, per favore?” chiese la madre di Jane a Katie.La donna annuì freddamente e uscì dalla stanza. “Robocop” mormorò fra sé e sé la signora Shelby. “Cosa?” chiese stupefatta Jane. “Non ho niente da fare, così creo soprannomi per le infermiere.” rispose allegramente Ginevra.”Quella è Robocop: fredda, senza sentimenti, ma non la peggiore. Sei stata fortunata: avresti potuto trovare quella svampita della Barbie Rossa, oppure persino la Strega dell’Est. Quasi mi uccideva, la Strega, con il suo alito pestilenziale.” Jane non poté trattenere una risatina.

“Come vanno le cure?” chiese subito dopo. Ginevra sbuffò “Chemioterapia, poi medicine, poi di nuovo chemioterapia. Mi stupisco che non mi facciano girare sulla ruota come un criceto. Ma in realtà” aggiunse in tono confidenziale “resto qui solo per il dottor Nichols. Quello sì che è un bell’uomo.” Jane sorrise. “Come va per te al lavoro?” le domandò Ginevra, sorridendo a sua volta.

“Dan ha assunto un nuovo detective. Un tipo strano ma carino o carino ma strano, non so” “Come sta Dan?” intervenne Ginevra. “Oh, adesso è strano anche lui. Tutto è diventato misterioso, direi. Mi piacerebbe sapere come mai.” rispose Jane. “Non essere troppo curiosa. Non vorrei che Dan si arrabbiasse” la ammonì Ginevra. “Non è facile trovare un capo comprensivo come lui con i tempi che corrono” “Non farò stupidaggini.” promise Jane, prendendo la mano destra di sua madre fra le sue.

Ginevra le rivolse un altro sorriso, prima di socchiudere gli occhi. “Scusami, tesoro, ma non riesco a rimanere sveglia.” “Non ti preoccupare, mamma” rispose Jane, mentre gli occhi le si inumidivano. “Ti voglio bene” concluse. “Anche io te ne voglio” sussurrò Ginevra, chiudendo completamente gli occhi.

Jane si allontanò in punta di piedi e uscì dalla stanza. Mentre si stava avvicinando alla sala d’aspetto le si avvicinò un infermiere in camice bianco . “Lei è una parente della signora Ginevra Shelby?” le chiese l’uomo. “Sono la figlia” rispose Jane “Perché?” “Purtroppo le devo riferire una brutta notizia: il linfoma di sua madre sta degenerando. Le cure a cui la sottoponiamo sono risultate inefficienti.”

Le lacrime che Jane aveva trattenuto di fronte alla madre le scivolarono lungo le guance. “Quando?” bisbigliò, non osando esprimere la sua domanda ad alta voce. “Aspetti, non disperi. C’è ancora una possibilità: possiamo mettere la signora Shelby in lista d’attesa per una cura sperimentale.” la rincuorò il paramedico. “L’unico problema è che la lista è incredibilmente lunga. A meno che lei non faccia ricoverare sua madre presso questa clinica” concluse, porgendole un foglio verde, che portava come intestazione “St. James’ Hospital”

La ragazza si asciugò rapidamente le lacrime ed esaminò il volantino dell’ospedale St. James che l’uomo le aveva passato. “Il costo di ammissione è di ventimila dollari” esclamò “Non ho tutti quei soldi!”.

L’uomo annuì. “Mi dispiace” aggiunse. “Proverò a parlare con il primario, e a vedere se riesco a farle ottenere una riduzione” “Davvero lo farebbe?” lo implorò Jane “Non so come ringraziarla.” L‘infermiere fece un cenno con la mano destra. “Ma le pare. Se mi dà il suo numero, posso avvertirla dei miei progressi” annunciò.

Jane annuì e scrisse il suo numero su un foglio di carta che consegnò all’uomo. “Arrivederci, signorina Shelby” la salutò quest’ultimo. “Arrivederci e sopratutto grazie” rispose Jane con calore, uscendo rapidamente dal reparto.

L‘uomo, quando fu chiaro che Jane non lo poteva più sentire, prese il suo telefonino e compose un numero. “Sono Parker. Il primo contatto con la seconda potenziale talpa è stato effettuato” comunicò freddamente.

SOBBORGHI DI CHICAGO

Frank e Steven si scambiarono un’occhiata preoccupata. La folla minacciosa dei clienti del motel ormai li circondava, e, come se non bastasse, erano intrappolati fra la folla da un lato e la polizia in arrivo dall’altro.

Le sirene di un’automobile della polizia fecero sobbalzare Frank. Helen Cantrell si mise ad urlare. “Sono qui! Arrestateli!” strepitavano i suoi coinquilini. Due agenti di polizia (uno alto e snello, l’altro basso e corpulento) si fecero largo attraverso la folla e raggiunsero Frank e Steven.

“Andate via, non è uno spettacolo” sbuffò l’agente basso , sventolando un manganello, mentre il suo collega, notando la pistola di Steven, impugnò la sua. Steven se ne accorse e appoggiò la sua arma sul tettuccio dell’automobile, alzando le mani e invitando Frank a fare altrettanto. “Fermi dove siete” li minacciò l’agente slanciato.

“Sono un agente dell’ottavo dipartimento” protestò Frank. “Lasciatemi spiegare.” L’agente corpulento gli si avvicinò, mente l’altro ,continuando a tenerli sotto tiro, controllava la scena. “Zitto tu, sei in arresto. E anche tu” disse l’agente tarchiato, indicando Frank e Steven.
“Se controllate il mio tesserino-” iniziò Frank, prima che una gomitata nelle costole di Steven lo interrompesse “E’ inutile spiegarlo a questi due. Lasciali portarci alla loro centrale e potremo spiegare tutto.” gli suggerì Steven , sussurrando.

“Avete il diritto di non parlare. Tutto ciò che direte potrà essere usato contro di voi in tribunale. Avete diritto ad un avvocato- se non avete uno , ve ne verrà procurato uno d’ufficio” recitò l’agente corpulento rapidamente, ammanettando Frank e Steven. “Parrish, controlla la scena del crimine e chiama la scientifica. Io li porto in centrale” aggiunse, diretto al suo collega.

“Non serve, sono sotto la mia custodia” lo interruppe una voce alle sue spalle. Gli occhi di Frank si allargarono, riconoscendo l’agente Gall. “Eppure la aveva avvertita sui rischi che correva affiancandosi a Campbell, agente Beaumont” aggiunse Gall, in tono sarcastico. “Lasciateli a me e tornate in centrale a stendere un rapporto” concluse , rivolto ai due poliziotti. “E lei chi è?” sbottò Parrish.

“Gall, FBI” rispose l’agente federale, mostrando il suo tesserino. “Beh, agente Gall, con tutto il dovuto rispetto, questi uomini li abbiamo arrestati noi” ribattè il poliziotto basso e tarchiato. “Quindi se vuole portarceli via contatti i nostri superiori” concluse. “Ho visto quell’uomo stamattina, mi ha fatto domando su di te” sussurrò Frank a Steven. “Silenzio!” lo interruppe Parrish, rivolgendo poi un’occhiata al cadavere a terra. L’agente si lasciò sfuggire un gemito. “White” mormorò al suo collega “Guarda il corpo. E’ Malley”. L’agente White aggrottò le sopracciglia. “Malley? Ma non era in vacanza con la moglie?” domandò.

“Farete tutti i controlli necessari dopo che mi avrete consegnato i prigionieri” li interruppe nuovamente Gall. “Senta, agente Gall, può chiudere il becco?” replicò White. “Sono un rappresentante del governo federale. Non collaborare ad un indagine federale è un reato, non serve che ve lo ricordi” li avvisò Gall. White afferrò la sua pistola, ma l’agente Parrish fece cenno al suo collega e scrollò la testa.

“D’accordo, sono vostri” ringhiò White, abbassando la sua arma “Ma dovete firmarci un documento.” concluse , irritato. Gall annuì e prese un documento dal suo taschino destro. L‘agente Parrish gli porse una penna. “A lei” disse Gall, porgendo il foglio a White, che digrignò i denti.
Parrish e White spinsero Steven e Frank, disarmati, verso l’agente Gall. Quest’ultimo annuì soddisfatto e aprì la portiera della sua automobile. Steven rivolse a Frank un rapido cenno di intesa, mostrandogli le mani.

Era riuscito ad aprire le manette senza che nessuno se ne accorgesse. Frank rispose annuendo impercettibilmente. “Arrivederci, signori” sentenziò sarcasticamente Gall, salutando White e Parrish con un cenno del capo, mentre fra la folla erano in molti a protestare a bassa voce.

“Un momento” lo interruppe Parrish, che aveva appena terminato una rapida telefonata.”Ho controllato in centrale, le serve un mandato per arrestarli” Gall si leccò rapidamente le labbra. “Senta” rispose “Possiamo stare qui a discutere di procedure per ore, ma alla fine lei dovrà consegnarmi comunque questi due uomini. Perché non ora?”
“Perché non più tardi?” replicò in tono beffardo White. “Li lasci andare”. “No” rispose Gall. “Come vuole. Parrish, arresta anche lui” ordinò White, puntando la pistola alla testa di Gall. La folla ammutolì.

“Non lo faccia, agente Parrish, o ne subirà le conseguenze” obiettò Gall. “Fallo, Parrish” lo incalzò White. Parrish mosse la testa dal suo collega all’agente federale. Sembrava non sapere a chi obbedire. All’improvviso Gall puntò a sua volta la sua arma contro White. Parrish, inspirando, alzò la sua arma su Gall.

Steven , d’istinto, si liberò definitivamente delle manette e colpì Gall allo stomaco. L’agente FBI emise un gemito, e Parrish e White, stupefatti, agguantarono i due, afferrarono la pistola di Gall e spinsero i tre arrestati contro la loro automobile.

“Non ti avevo ammanettato?” chiese uno stupefatto Parrish a Steven , che si limitò a sorridere. White, nel frattempo, ammanettava Gall. “Questa me la paga. Finirà a dirigere il traffico” sibilò l’agente FBI minacciosamente. “Entra nell’automobile e non fare storie” replicò White.

Frank, Steven e Gall entrarono nell’automobile dei due poliziotti, che chiusero la portiera alle loro spalle. White si mise alla guida con Parrish al suo fianco.

WEISSMAN INVESTIGATIONS

Patricia fece il suo ingresso negli uffici vuoti, aprendo la porta di scatto. “Dan?” chiamò il suo capo ad alta voce, senza ricevere risposta. Innervosita, notò solo in quel momento il cartello che annunciava la chiusura dell’agenzia.

Mordicchiandosi il labbro inferiore uscì dall’ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Proprio in quel momento Jane arrivò sul pianerottolo: le due donne si trovarono faccia a faccia. “Come mai l’agenzia è chiusa?” sbottò Patricia. “Dan mi ha dato la giornata libera. Stavo giusto tornando per parlargli” rispose Jane. “Non è qui” ribattè seccamente Patricia. Calò un silenzio nervoso.

“Visto che nessuna di noi due lo sa, perché non lo aspettiamo al caffè qui davanti?” propose Jane. Patricia aggrottò le sopracciglia, ma dopo un attimo di silenzio annuì. Le due donne scesero lentamente le scale.

CENTRALE DI POLIZIA- SALA INTERROGATORI

“E’ andata così” concluse Steven. “Nell’altra sala abbiamo un agente federale che giura di avere un mandato per arrestarti, ma stranamente non vuole dirci dove è, o per quale motivo ti cerca. Qui ci sei tu, che ci racconti una storia che è il trionfo delle coincidenze. A chi dobbiamo credere?” rispose l’agente White, che lo stava interrogando.

“Se avessi ucciso quel poliziotto, avrei approfittato del casino che avete creato per scappare. Non l’ho fatto, anzi, vi ho dato una mano. E il mio partner è un vostro collega. Contattate l’ottavo distretto e ve lo confermeranno” replicò Steven. “Queste non sono prove” argomentò White. “Allora attendete il rapporto della scientifica. Vi confermerà che il vostro collega si è sparato da solo” suggerì Steven, sempre calmo.

CORRIDOIO

Frank sedeva in un angolo del corridoio fra la sala interrogatori e le celle, ammanettato e sorvegliato da Parrish. “Frank! Frank Beaumont! Che ci fai qui, hai di nuovo fatto saltare in aria un bagno pubblico?” lo salutò una donna poliziotto bruna sulla quarantina, sorridendo divertita. “Ciao, Harriett” la salutò Frank, rivolgendole un sorriso stentato.

Parrish aprì la bocca, stupefatto. “Lo conosci?” chiese alla donna, grattandosi la testa. “Ma certo. Ero la sua istruttrice in accademia. Non mi dimentico certo dell’allievo che per poco non arrestava il figlio del sindaco per vagabondaggio.” proseguì Harriett.

“E’ qui per un sospetto omicidio” le spiegò Parrish. “Chi, Frank? Impossibile” obiettò Harriett “Deve essere un altro dei pasticci in cui si infila praticamente ogni mese.” “Questa volta è un fatto grave: la vittima è Malley” proseguì Parrish in tono deciso. “Non l’ho ucciso!” protestò Frank ad alta voce. “Si è sparato da solo!”

Harriett annuì. “Parrish, toglili le manette. Garantisco io per lui. Frank è incapace di recitare così bene” “Ma signor capitano-” si lamentò Parrish. “Niente ma” rispose Harriett. L’agente si grattò di nuovo la testa, pensieroso, ma sotto lo sguardo determinato della sua superiore liberò Frank dalle manette.

CAFFE’ PASCUCCI

Il locale trasmetteva un senso di calore, forse per gli interni in legno, forse per il soffitto rosso. Jane e Patricia si erano appena accomodate ad un tavolo in un angolo.“Davvero non eri mai stata qui?” chiese Jane a Patricia con decisa incredulità. “Mai” rispose l’avvocato “Non mi piace il caffè” spiegò. “Ti ricrederai. Il cappuccino di zio Al è la fine del mondo” ribattè allegramente Jane. Patricia alzò le spalle.
Un cameriere sulla cinquantina, piuttosto robusto, si avvicinò alle due donne. “Che cosa prende la mia signorina?” chiese sorridendo a Jane.

Aveva un pesante accento italiano. “Due cappuccini” rispose Jane, sorridendo a sua volta. “Uno per me e uno per la mia amica” Patricia aprì la bocca per obiettare, ma l’uomo se ne era già andato. “Servizio rapido” commentò in tono asciutto. “Come mai eri tornata in agenzia?” domandò dopo un breve attimo di pausa.

Jane si leccò le labbra e rimase in silenzio per un attimo, prima di rispondere. “Mi servono soldi. Mia madre soffre di cancro, le cure sono sempre più costose.” Patricia rimase senza parole per alcuni secondi. “Mi dispiace” mormorò a bassa voce. “Non è colpa tua” ribattè Jane. “Vorrà semplicemente dire che farò molti straordinari”. “Se disposta a fare molti sacrifici per tua madre." commentò seccamente Patricia. “Anche tu lo faresti, per la tua” disse Jane in tono naturale.

Patricia fece una smorfia. “Mia madre non può ammalarsi. Una malattia è una cosa decisamente troppo umana per un essere perfetto come lei” rispose in tono fra l’amaro e il sarcastico. Jane la fissò incuriosita.

CENTRALE DI POLIZIA-SALA INTERROGATORI

“Sei libero” annunciò White a Steven , dopo avere finito di leggere il rapporto della scientifica. “Malley si è sparato, come dicevi tu. Resta da capire il perché…tu puoi aiutarmi?” “Non saprei cosa dirti. Diceva cose senza senso, evidentemente delirava” replicò Steven. “Posso lasciare questa sala o devo rimanere “a disposizione”? “ concluse in tono solo leggermente ironico.

“Terremo in consegna la tua arma, ma puoi andare” rispose White “E può andarsene anche il tuo amico. Abbiamo accertato che è un agente dell’Ottavo Dipartimento”. Steven annuì e uscì dalla stanza, incontrando Frank che stava discutendo animatamente con Harriett. Parrish lo sorvegliava dall’altro lato del corridoio. “Saluta i tuoi amici, si va…sempre che tu abbia ancora voglia di seguirmi”annunciò Steven . Frank annuì e salutò Harriett. “Arrivederci, capitano.” “Arrivederci, Frank. E non metterti in troppi pasticci questa volta.

Steven e Frank uscirono rapidamente dal posto di polizia. “Li lasciamo andare così?” domandò Parrish, stupito, a Harriett. “Naturalmente no. Seguili, penso che questa volta Frank Beaumont abbia veramente fra le mani un caso che scotta” replicò Harriett.

AUTOMOBILE DI STEVEN

“E’ strano che ci abbiano lasciati andare così rapidamente, però.” commentò Frank. Steven scosse leggermente la testa. “Ci metteranno alle costole qualcuno e cercheranno di scoprire il più possibile sulle nostre indagini” rispose. “Allora che facciamo?” domandò Frank con aria incerta. “Andiamo a trovare il famoso fidanzato, Mr. Harvey Krakowski. Lascia che ci seguano, almeno capiranno che razza di ginepraio è questa indagine” concluse Steven, avviando l’automobile.

CAFFE’ PASCUCCI

La porta del locale si aprì di scatto, lasciando entrare Dan. Jane sorrise al suo capo e lo invitò a sedersi. “Sapevo che ti avrei trovato qui” iniziò Dan “ma non mi aspettavo certo di trovare te, Patricia”. “Jane mi ha convinto”spiegò Patricia. “Diciamo pure costretto, ma a fin di bene” commentò Jane. “Sono contenta che tu sia venuto qui, capo, dovevo parlarti” concluse.

“Spara pure, ma prima lasciami almeno sedere” rispose Dan, accomodandosi su una sedia vicina. “Si tratta di mia madre…Ginevra” iniziò Jane dopo avere inspirato profondamente. “Come sta?” chiese Dan quest’ultimo senza scomporsi. “Molto male. Le servono delle cure speciali in una clinica privata. Ho pensato di chiedere un prestito:farò molti straordinari” rispose Jane, in tono forzatamente tranquillo.

“Dove dovrebbe essere ricoverata?” chiese Dan appoggiando un braccio sul tavolo. “Al Saint James. Mi servono ventimila dollari, ma ce la farò” rispose con aria decisa Jane. Alle parole “Saint James” il volto di Dan divenne bianco. Patricia notò un lampo di paura negli occhi del suo capo, che non si seppe spiegare. “Volevo solo chiederti un anticipo sullo stipendio. Ti ripagherò in straordinarii” promise Jane. “Chi ti ha parlato del Saint James?” le chiese Dan, tentando di dare alla sua voce un tono naturale. “Un infermiere. Ma quale è il problema?” replicò Jane. “Non è l’ospedale adatto a tua madre. Sarebbe una spesa inutile. Se servono delle cure più costose, non c’è problema, può farle comunque al Northwestern”.

“E’ una cura sperimentale” affermò Jane scuotendo la testa. “Mi dispiace, Jane, ma non credo che il Saint James sia una scelta adatta” rispose seccamente Dan, alzandosi dal tavolo. “Ti anticiperò lo stipendio solo se tua madre rimarrà ricoverata al Northwestern.” “Perché? Quale è la differenza?” esclamò Jane a voce alta. “Spenderesti i tuoi soldi inutilmente. Non farti tentare dalle false speranze. Mi dispiace” concluse Dan, aprendo la porta del bar e precipitandosi fuori dal locale. Jane, stupefatta, non ebbe modo di replicare. Patricia si alzò in piedi e seguì Dan.


FREEMONT STREET, 13- CASA DI HARVEY KRAKOWSKI

Steven e Frank erano già scesi dalla loro automobile e si avvicinavano al villino al numero tredici. L’agente Parrish, che li seguiva su un auto anonima, afferrò il suo cellulare e si mise in comunicazione con Harriett.

CENTRALE DI POLIZIA

L’agente White passeggiava nervosamente nel corridoio. Harriett, che teneva il suo telefonino premuto all’orecchio, gli lanciò un’occhiata di rimprovero. “A che numero?” mormorò nell’apparecchio.

FREEMONT STREET, 13

“Tredici, signora. Stanno per entrare, attivo il microfono parabolico?” rispose Parrish, tamburellando con le mani sul volante. All’improvviso notò Kerman e Taggart, vestiti di nero, che si avvicinavano dall’altro lato della casa. I nuovi arrivati erano entrambi armati di pistola. “Due nuovi, armati, probabilmente ostili” riferì al telefono Parrish. “Intervengo?”

CENTRALE DI POLIZIA

“Non ancora” ordinò Harriett “Dobbiamo” iniziò, prima che una mano muscolosa le strappasse di mano il cellulare. Stupefatta, Harriett si voltò di scatto e si trovò faccia a faccia con l’agente Gall. “Ridatemelo immediatamente” esclamò. “Capitano Hudson, vi consiglio di non complicare ulteriormente la vostra posizione. L’agente White mi ha arrestato illegalmente, e voi state interferendo in una indagine federale” rispose Gall, sicuro di sé stesso. Harriett vide l’agente White immobilizzato contro il muro da un uomo robusto che sventolava un distintivo dell’FBI.

“Come può vedere, i miei colleghi sono venuti a darmi una mano. Altri miei due uomini sono già sul posto” continuò Gall, leggermente divertito. “Agente Parrish” aggiunse portando il cellulare di Harriett all’orecchio “ritorni alla centrale e faccia arrestare Campbell e Beaumont dai miei colleghi” Non vi fu risposta.

FREEMONT STREET, 13

Parrish aveva già lasciato l’automobile si era diretto, pistola in mano, verso la casa. Steven e Frank avevano appena suonato il campanello. Kerman e Taggart si arrestarono alla vista dell’agente che avanzava verso di loro. “Mani in alto!” tuonò Parrish.

Proprio in quel momento la porta si aprì e un ragazzo sui venticinque anni si affacciò sul pianerottolo. Alla vista di Steven e Frank, e soprattutto di Parrish che correva verso di loro con la pistola spianata, il giovane si chiuse la porta alle spalle e si rintanò all’interno. Kerman e Taggart approfittarono della distrazione per aprire il fuoco.

Steven spinse Frank a terra e si tuffò a pancia in giù a sua volta. Parrish, colpito alla spalla, lasciò cadere la sua arma con un gemito di dolore. Taggart sparò un paio di colpi che lo costrinsero ad arretrare rapidamente verso la sua automobile. Steven strisciò verso una finestra, si alzò improvvisamente in piedi, ruppe il vetro con un calcio e la aprì, tuffandosi al’interno della casa.

Il giovane lo guardò stupefatto “Non ho niente!” urlò “Sono uno studente universitario, i soldi ce l’hanno i miei!” Steven gli fece cenno di tacere e aprì di scatto la porta, trascinando Frank all’interno mentre Kerman e Taggart erano impegnati in una sparatoria con Parrish.

“Chi siete? Chi sono quegli uomini? Cosa volete?” balbettò in tono confuso il giovane. “Se è per rapirmi, i miei possono pagare un riscatto in tempi brevi.” Steven lo zittì con uno sguardo gelido, quindi aiutò un altrettanto sorpreso Frank ad alzarsi in piedi. “Sei Harvey?” gli domandò a bruciapelo” Si, ma-” “La tua casa ha un’uscita sul retro?” lo interruppe Steven.

“Sì, non la uso quasi mai.” Steven fece un cenno a Frank e afferrò il braccio destro del giovane “Seguici” gli ordinò. Frank prese a sua volta il braccio sinistro del ragazzo e i tre i misero a correre attraverso l’atrio. “E’ nel corridoio” rispose il giovane allo sguardo interrogativo di Steven.

L’investigatore privato annuì e, notando la porta, la aprì con un calcio. I tre si precipitarono fuori. “Ora statemi bene a sentire” iniziò Steven “vado a riprendere la nostra auto. Voi rimanete qui e se non torno entro cinque minuti, scappate” concluse, strisciando lungo il muro della casa. “Fa sempre così” si scusò Frank, porgendo una mano ad un terrorizzato Harvey. “A proposito, io sono Frank Beaumont” concluse con un sorriso orgoglioso.

VICOLO-VICINO AL CAFFE’ PASCUCCI

“Mi avevi detto che la mia segretaria non sarebbe stata coinvolta!” sbottò Dan al telefono. “Non importa niente del fatto che lo abbiano fatto Loro, trova un modo per tirarla fuori o il nostro accordo salta!” concluse, furioso. Patricia lo raggiunse proprio in quel momento. “Devo lasciarti, ci sentiamo più tardi” mormorò Dan, concludendo la conversazione. “Patricia, cosa ci fai qui?” esclamò subito dopo, scrutando il suo avvocato.

“Signore, non pretendo di conoscere tutti i suoi segreti. Non lo desidero nemmeno. Ma non ho potuto fare a meno di notare come il nome “Saint James” la abbia sconvolto.” iniziò Patricia, fissando Dan dritto negli occhi. “Abbiamo tutti i nostri segreti, Patricia” rispose Dan “Aiuterò Jane, ma sua madre non deve mettere piede in quell’ospedale. Trova le parole giuste, convincila.” Patricia annuì. “Un giorno, molto presto, non ci saranno più segreti” promise Dan. Patricia annuì di nuovo e si avviò verso il locale.

Dan rimase a guardarla e sospirò. Riprese il suo cellulare e compose un numero. Patricia lo osservò attentamente e prese a sua volta il suo telefonino.”Sono io” si presentò “Ho delle informazioni che ti potrebbero interessare” “Che sorpresa” rispose la voce del messicano che aveva incontrato allo zoo. “Che cosa hai da dirmi sul tuo nuovo collega?” “Niente su di lui. Ma il mio capo è rimasto sconvolto da un certo “ospedale Saint James”. Spaventato come non lo avevo mai visto. Ti interessa?”

Il messicano si mise a ridere. “Faresti qualsiasi cosa per riavere quella cassetta, vero?” commentò divertito. “Non mi dici niente che io già non sappia. Il tuo capo è una pezzo importante nel nostro gioco.” “Quale gioco?” domandò Patricia spazientita. “Ti piacerebbe saperlo, vero?” la stuzzicò il suo interlocutore. “Ottimo lavoro comunque, così ti voglio” concluse. Patricia non riuscì a rispondere e si morse la labbra.

FREEMONT STREET, 13

Kerman e Taggart stavano ancora sparando a Parrish, che aveva appena ricaricato la sua arma e rispondeva al fuoco, costringendoli a ripararsi dietro l’angolo del villino. “Non lasciargli tempo di chiamare rinforzi!” urlò Taggart a Kerman, che annuì e sparò quattro colpi.

Steven, nel frattempo, stava strisciando alle loro spalle verso la sua automobile. Parrish lo notò e aprì il finestrino destro della sua automobile, puntando la pistola nella sua direzione. “Fermo!” urlò, mentre Kerman si voltava verso Steven sorridendo e prendendo la mira. Maledicendo Parrish, Steven si tuffò dietro a una siepe e afferrò un sasso.

Nel frattempo Taggart costringeva Parrish a rimanere nella sua automobile con una raffica. Kerman si avvicinò alla siepe, sempre sorridendo. “Giocare a nascondino non servirà a molto” commentò ridacchiando. Steven si alzò in piedi di scatto e lanciò il sasso,colpendo Kerman in pieno petto. L’uomo si accasciò con un gemito.

Steven ne approfittò e raggiunse la sua automobile. Taggart, ancora impegnato a tenere a bada Parrish, non riuscì a fermarlo. Steven avviò il motore, inserì la prima e si lanciò nel giardino, passando sul retro della casa. “Salite!” ordinò a Frank e Harvey. I due non se lo fecero ripetere due volte e si tuffarono nella macchina, che si allontanò a tutta velocità, costringendo Kerman a tuffarsi nella siepe. Taggart tentò di bloccare l’auto sparando alle gomme, senza successo.

FUORI CITTA’-PIU’ TARDI

Steven parcheggiò l’automobile in una piazzola di sosta. Harvey, seduto sul sedile posteriore vicino a Frank, guardò fuori dal finestrino. “Non c’è nulla qui” commentò, con un accenno di paura nella voce. “E’ per questo che ci fermiamo qui” rispose Steven. Frank annuì soddisfatto.

“Cosa volete fare, torturarmi? Non so nulla, non ho nulla!” si lamentò ancora Harvey. Frank sbuffò “Noi siamo i buoni, razza di testone!” esclamò “Non l’avevi ancora capito? Ti abbiamo salvato la pelle! Vedi questo?” aggiunse, sventolando il suo distintivo sotto il naso del povero Harvey “Sai che vuol dire? Polizia, quindi buone notizie per te, a meno che tu non sia uno dei cattivi della storia!” Harvey annuì debolmente.

Steven si girò verso i sedili posteriori e fissò il ragazzo dritto negli occhi. “Harvey, dici di non sapere nulla, ma non è vero” cominciò “Conosci una ragazza di nome Paula Cantrell?”

“Non ho mai sentito quel nome!” sbottò Harvey. “E allora come mai sua madre ci ha detto che eri il suo fidanzato?” chiese Steven in tono secco. “Si sarà confusa con qualcun altro”replicò Harvey, visibilmente nervoso. “Già, il numero tredici di Freemont Street deve essere pieno di Harvey Krakowski.” commentò Steven in tono sarcastico. “Poche storie. Tu conoscevi Paula meglio di chiunque altro. Di sicuro meglio di sua madre, che non se ne curava più da anni.”

“Ti ripeto che non so di chi stai parlando” rispose Harvey. “Era bella, non è vero?” continuò Steven, ignorandolo “Talmente bella che non riuscivi a credere che potesse stare con uno come te, e infatti era una ragazza povera ma furba e tu uno stupido ragazzo ricco. Forse quando è sparita lo hai capito e ti sei sentito preso in giro, umiliato, la hai immaginata che rideva fra le braccia di un altro.” “Basta!” sbottò Harvey “Lei non è così!” sibilò fra i denti. “Non è così chi? Non dicevi di non conoscerla?” rilevò Steven. Harvey si morse la labbra.

“La conosco” ammise dopo una breve pausa. “Continua” lo esortò Steven. “Era la mia ragazza. Frequentavamo lo stesso locale, il “Greenwich”, è un posto piccolo , ma la musica è molto buona. Lei era, cioè è, fantastica. In tutti i sensi: sexy, simpatica e intelligente. E non le importava niente dei miei soldi” aggiunse, in tono convinto. Frank sorrise divertito “Beh, non puoi saperlo. Magari…” iniziò, fermandosi quando notò lo sguardo gelido di Steven. “Cosa sai sulla sua famiglia?” domandò Steven in tono calmo. “Non molto. La madre è una vecchia strega, fa spavento. Non c’era un padre, o almeno Paula non sapeva niente. Fratelli o sorelle non ne aveva. Mi aveva parlato di una zia una volta, ma non me ne ricordo bene…”

“Perché non volevi parlarne?” chiese ancora Steven. Harvey sospirò. “Io non so nulla della sua scomparsa. Ci eravamo lasciati tre mesi prima. Lei non aveva voluto dirmi perché, solo che non eravamo “fatti per vivere insieme”. Ho sofferto come un cane, ma è stato anche peggio quando è sparita. Mi hanno fatto molte domande. Tutti: poliziotti, assistenti sociali, persino i miei. Un poliziotto si era anche convinto che l’avessi uccisa io.” “E l’hai fatto?” chiese Frank facendo una smorfia. Steven alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla.

“Vi ripeto che non so nulla di come se ne è andata! Viveva con i suoi amici, i Polk, da un mese. Parlate con loro” “I Polk sono morti” ribattè seccamente Steven. “Non c’è nulla di strano, di insolito diciamo, che hai notato in Paula? Qualche mistero, qualche frequentazione particolare? Magari un diario segreto?” “Diceva sempre di essere troppo vecchia per avere un diario” rispose Harvey, scuotendo la testa. “Non mi viene in mente nulla.” “Fai uno sforzo” lo incitò Steven.
Harvey rimase in silenzio per qualche istante, prima di esclamare: “Le due ore vuote”.

“Ore vuote? Che razza di linguaggio è, lo hai inventato tu?” chiese Frank in tono leggermente beffardo. Steven gli afferrò il posto e lo strinse, facendolo smettere. “Ogni venerdì non la vedevo per due ore, dalle due alle quattro. Mi aveva raccontato di passarle in piscina, ma una volta ho avuto una botta di gelosia e l’ho seguita. Mi ha seminato nella metropolitana, così non dove era diretta, ma di sicuro non andava in piscina. Il giorno dopo ha detto di avermi visto e mi sono vergognato come un ladro. Le ho chiesto dove era andata, ma non mi ha risposto. Si è solo arrabbiata per la mia mancanza di fiducia” Steven annuì. “Niente altro?” domandò fissando Harvey dritto negli occhi.

“Non mi ricordo altro” rispose Harvey, distrutto. “Adesso mi arresterete, vero?” “Non ci abbiamo mai nemmeno pensato” rispose Steven. “Ascoltami: ti stanno cercando. Non so perché, ma la tua ragazza scomparsa è roba che scotta. Hai visto che c’è gente disposta ad uccidere per il suo segreto. Il mio consiglio è uno solo: vattene. Hai amici da qualche parte fuori Chicago?”

“No… a meno che non contiamo un’amica di Paula. Si chiama Zoe qualche cosa Vive a Delavan, vicino al lago. Andavamo da lei qualche volta…ha un loft e dava le chiavi a Paula” Steven si immobilizzò e lo scrutò incredulo. “Perché non me lo hai detto prima?” “Non me lo avevi chiesto!” sbottò Harvey.

“Bene. Allora i nostri piani cambiano. Si va tutti a Delavan, e tu ci farai da guida” proclamò Steven. “Cosa…perché?” protestò il ragazzo. Frank sbuffò di nuovo. “Capisco perché quella povera ragazza ti ha lasciato: come computer saresti un Game Boy! Sei proprio tonto, non capisci che se quella Zoe è amica di Paula forse sa qualcosa?” “Ma io non posso andarmene così…ho da fare… e poi non so nulla!” si lamentò Harvey.

“Se preferisci rimanere qui e lasciare che i nostri amici ti aprano un terzo occhio in mezzo alla fronte o ti spediscano in galera per un paio d’anni, accomodati” commentò Steven. “Se invece ci tieni alla pelle e alla libertà, portarci a Delavan è un buon primo passo” Harvey sospirò ancora e annuì. “Delavan, arriviamo” commentò Frank, mentre Steven avviava il motore.

NORTHWESTERN HOSPITAL

L’infermiera Katie vegliava nel corridoio dei lungodegenti, mangiandosi le unghie. Un rumore sommesso di passi si fece sempre più forte. Katie si girò di scatto, incontrando Parker, il falso infermiere che aveva consigliato la clinica “Saint James” a Jane. Katie scrutò il nuovo venuto. “Non ti ho mai visto” sbottò. “Che ci fai qui?” “Sostituisco Collins. Si è preso un brutto raffreddore” rispose prontamente Parker.

Katie si rilassò. “E’ stato un bel gesto” commentò. “Ti vedo stanca, ti do il cambio?” suggerì Parker. Katie annuì, soddisfatta. “Il turno di Collins finisce fra sei ore. Pensi di farcela?” commentò sbadigliando. “Certo” rispose Parker, con un sorriso indefinibile. Katie annuì. “Buonanotte, allora”
La salutò Parker. Katie rispose con un mugolio.

Parker aspettò che Katie fosse uscita dal corridoio per entrare nella stanza di Ginevra Shelby. Si avvicinò al letto della malata e prese una siringa che conteneva un liquido giallo da una tasca del suo camice bianco e ne controllò la quantità. Stava per iniettarla nel braccio di Ginevra quando Katie entrò nella stanza. “Che stai facendo?” sussurrò.

Parker abbozzò un falso sorriso. “Do la medicina alla paziente” Katie scosse la testa. “Mi avevano messo in guardia su un possibile attacco alla signora Shelby” mormorò. “Ora li chiamo”. Parker, disperato, afferrò la siringa e la iniettò nella gamba di Katie , che urlò per il dolore, svegliando Ginevra, che si mise ad urlare a sua volta per la paura.

Preso tra due fuochi, Parker diede un calcio a Katie e afferrò la sua pistola. Katie si rifugiò a fatica sotto il letto e compose un numero. “Aiuto!Vogliono uccidere la signora Shelby!” urlò al telefono e a tutto l’ospedale. Innervosito, Parker riafferrò la sua siringa e, tentando di tenere ferma Ginevra, le iniettò il contenuto in una spalla. La donna urlò di nuovo e Parker la stordì con il calcio della pistola, per poi applicare un silenziatore, chinarsi sotto il letto e sparare Katie, uccidendola sul colpo.

Un rumore di passi si faceva sempre più vicino. Disperato, Parker prese il corpo di Katie e lo sollevò a fatica fino ad una finestra. Con un ultimo sforzo lo fece precipitare di sotto, non prima di avere lanciato un’occhiata a Ginevra, che ora giaceva priva di conoscenza sul suo letto. Parker uscì rapidamente dalla finestra, evitando per un pelo di essere visto dai tre infermieri che erano accorsi alle urla e raggiungendo la scala d’emergenza.

I paramedici si affannarono attorno al corpo di Ginevra, urlandosi l’uno l’altro istruzioni. Parker scese rapidamente la scala d’emergenza e recuperò il corpo malridotto di Katie, trascinandolo fino alla sua automobile per poi partire rapidamente.

CASA DI DAN WEISSMAN

Dan stava vestendosi rapidamente. Il messaggio vocale che aveva ricevuto dall’infermiera che aveva pagato per sorvegliare Ginevra era stato uno shock. Doveva assolutamente arrivare in ospedale al più presto.

Il suo telefono squillò di nuovo. Sbuffando di impazienza, Dan prese rapidamente la cornetta. “Il signor Weissman?” chiese una voce maschile all’altro capo della linea. “Sono io. Perché mi ha chiamato?” rispose rapidamente. “Sono un infermiere del Northwestern Hospital. Abbiamo tentato di avvertire la signorina Shelby, ma è irraggiungibile, forse ha spento il telefonino. Lei era il secondo nome della lista.” riferì la voce. “Quale lista?” chiese Dan.

Un brivido gli percorse la schiena. “Ci dispiace disturbarla a questa ora, ma la signora Shelby ha avuto un collasso qualche minuto fa. Se vuole avvertire la figlia e portarla qui.” continuò l’infermiere.

“Un collasso? Quanto grave?” si informò nervosamente Dan. L’infermiere sospirò “Signor Weissman, Ginevra Shelby è morta.”
  
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