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Autore: emotjon    15/07/2014    7 recensioni
Gli occhi della ragazza erano due pozzi senza fondo, dei quali si faceva fatica a capire il colore. Come si faceva fatica a distinguere l'iride dalla pupilla, nonostante la luce che proveniva dal soffitto di vetro. Occhi neri, i suoi. Castano scuro con la luce. A volte verdi. Altre volte semplicemente grigio piombo, dello stesso colore delle nuvole che coprivano i cieli di Londra.
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4328 parole.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Cieli di Londra.

 
 

Ad Annalucia, a cui non piace il proprio nome e si fa chiamare Blue.
Quindi, a Blue.
Che sogna Londra, una carriera da cantante, una libreria da svaligiare, e Zayn.
Che vorrebbe scappare e tingersi di blu, abbandonando il resto al proprio destino.
A Blue, che si merita questa one shot come premio per non aver ancora smesso di sognare.
Ti voglio bene, piccoletta.

 
 
Se i muri di quell'edificio avessero potuto parlare, ne avrebbero raccontate di tutti i colori. Era una vecchia biblioteca, costruita qualcosa come centocinquanta anni prima, a metà strada tra il centro e la periferia della capitale inglese. Una vecchia biblioteca poco conosciuta, se non dalle poche persone che la frequentavano già o dalle pochissime che avevano saputo dove cercare.
Quasi due secoli e quella era ancora lì. Con la sua facciata di mattoni una volta rossi e ora nient'altro che sbiaditi. Col suo vecchio portone di legno un po' marcio e poche finestre che davano sulla strada, ornate da vecchie sbarre di ferro, non arrugginito solo per miracolo. C'era un ampio atrio col pavimento di marmo grigio chiaro e, in fondo, il bancone di legno scuro dietro al quale sedeva la bibliotecaria.
Accoglieva tutti con un gran sorriso, quella donna, prima di rimettersi a riordinare quei volumi che quasi avevano l'età della biblioteca stessa. Alcuni erano addirittura più antichi, provenienti da chissà dove. Di sicuro superavano tutti di gran lunga l'età della seppur anziana donnina dai capelli bianchi dietro al bancone.
Era una donna che ormai non si scandalizzava più per nulla né per nessuno.
Come la biblioteca in cui lavorava, ne aveva viste e sentite tante da poterci scrivere un libro.
Ad esempio - come quasi ogni giorno - i suoi occhi stanchi ma ancora vispi vedevano quella strana ragazza dai lunghi capelli blu sorriderle e passare oltre il bancone per entrare finalmente nella biblioteca vera e propria. Avrebbe potuto descrivere ogni strana sfumatura di quel blu, nonostante l'età. E avrebbe potuto commentare come ogni altra donna della sua età il modo in cui si era vestita quel giorno, noncurante del vento fresco e del cielo immancabilmente grigio, per quanto il sole provasse costantemente a combattere le nuvole.
Teneva i capelli sciolti e lisci, divisi sul capo da una riga centrale e divisi ancora sulla nuca, ogni metà sulla rispettiva spalla. Lunghi fino a parecchio sotto il seno, con le punte che iniziavano a perdere parte del colore, schiarendosi fino a diventare quasi bianche. Per quanto potesse soffrire il caldo, poi, si ostinava a far crescere i capelli fino a che non li avesse più sopportati. Allora forse li avrebbe tagliati, e forse - forse - con la motivazione giusta sarebbe anche tornata al proprio colore naturale; quel nero pece che tanto l'aveva stufata, prima che si trasferisse in Inghilterra.
La canottiera bianca spiccava, sulla pelle un po' abbronzata delle braccia, accentuando il piccolo neo sulla spalla e il colore già parecchio acceso dei capelli. Teneva tra le braccia un quaderno dalla copertina di pelle, stretto al seno come se avesse la paura irrazionale di perderlo, o paura che si potesse rovinare più di quanto già non fosse. Portava una serie di bracciali rigidi argentati ad un polso, che creavano un piacevole scampanellio ad ogni passo, e solo un elastico colorato per legare i capelli all'altro polso.
I pantaloncini a vita alta la slanciavano, e i fiori sul tessuto la facevano somigliare ad una figlia dei fiori di altri tempi; il che rendeva anche più strano il fatto che fosse in quella biblioteca, con un quaderno tra le braccia, una piccola borsa che le pendeva dalla spalla e la voglia di trovare qualcosa da leggere che trasudava da ogni poro della sua pelle.
Adorava quella biblioteca perché aveva una storia. Perché era sopravvissuta quasi indenne al segno del tempo, e l'unica cosa che la testimoniasse essere stata vittima di un incendio era la parte più nuova della sala lettura - che aveva al massimo sessant'anni - col tetto che spioveva su un lato, fatto completamente di vetro. Le piaceva perché non c'era mai nessuno, e perché in quella saletta le bastava alzare lo sguardo per osservare il cielo della città che amava cambiare nel tempo infinitesimale di un battito di mani.
Poteva sedersi a terra, con la schiena contro il muro dipinto in un tenue celeste, e alzare lo sguardo di tanto in tanto, immaginando di essere altrove, magari portata a spasso da una di quelle nuvole che arrivavano placidamente a nascondere il sole, per poi sparire proprio come erano arrivate, totalmente senza preavviso.
Rabbrividì appena, entrando nel primo corridoio alla sua destra, tra le enciclopedie e i romanzi gialli. Non era il suo genere, tutto quel mistero. Solo, le piaceva passare tra gli scaffali, solo per riempirsi le narici dell'odore penetrante della carta vecchia, che le si attaccava alla pelle, ai vestiti. L'odore di quelle pagine che non venivano sfogliate da un po', o che in parecchi casi non erano mai state sfogliate.
Si ritrovò a canticchiare una melodia inventata sul momento, passando al corridoio successivo, respirando Dickens e Wilde da una parte e passando velocemente in rassegna con lo sguardo tutte le copie delle opere di Shakespeare sul lato opposto. Si avvicinò, facendo scorrere le dita sulla sua copia preferita dell'Amleto, con la copertina di velluto un po' sbiadita e corrosa dalle tarme.
Si dondolò qualche secondo sui tacchi delle sneakers bianco sporco che indossava, indecisa se rileggere o meno quella tragedia che tanto le piaceva o meno. Indecisa se passare il pomeriggio col suo amato drammaturgo o cercare qualcosa di più originale, qualcosa che non avesse ancora letto. Ma mentre stava per passare ad altro, le cadde lo sguardo su un volume che non aveva mai visto, e che a giudicare dal dorso logoro e parecchio più rovinato degli altri nemmeno doveva essere lì.
Charles Baudelaire. Les fleurs du mal.
Si alzò in punta di piedi per recuperarlo, indugiando con le dita smaltate di nero sulla copertina consunta e respirando a pieni polmoni quell'odore decisamente forte e strano, ma che a lei piaceva tanto, (quasi) più del proprio profumo preferito. Quell'odore di carta e di aria un po' viziata. Di inchiostro, e pregno del respiro di chi legge. Quell'odore di avventura, o di poesia, o di tragedia.
«Tu non dovresti essere qui», mormorò tra sé, aprendo delicatamente il libro per vedere di che anno fosse, in che lingua fosse stato stampato, eccetera. Le piaceva, sapere qualcosa in più, prima di iniziare a leggere. E la data che vide sul frontespizio per poco non le deve andare di traverso la saliva. «Oh cazzo...».
1861. Prima edizione. In lingua originale.
Doveva essere uno dei volumi che la biblioteca teneva sotto vetro, in un'altra ala dello stabile, la più lontana dall'uscita. Doveva esser stato messo lì per sbaglio, per errore della vecchia bibliotecaria, dato che quei libri erano solo per la consultazione, non li toccava quasi mai nessuno.
Ed era un tesoro, letteralmente. Il santo Graal dei libri di poesia francese. Tanto raro che stentava a credere di tenerlo tra le mani senza tremare. Sarebbe stato da lei, dare in escandescenze per un libro del genere. Sarebbe anche stato da lei correre dalla bibliotecaria e pregarla di rimetterlo al suo posto, al sicuro.
Solo, non leggeva Baudelaire da tanto di quel tempo perché le mancasse.
In più, moriva dalla voglia di sfogliare quelle pagine, di leggere quelle righe con gli occhi scuri che le brillavano, persi e felici tra le parole che nemmeno si sarebbe sforzata troppo di pronunciare. Se ne sarebbe anche fregata del freddo; quel libro era l'unica cosa che le serviva per stare al caldo, quasi come fosse sdraiata su un tappeto davanti al camino.
L'anziana bibliotecaria alzò lo sguardo dalla pila dei cartoncini per i prestiti, puntando i suoi occhi celesti su un ragazzo che avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì.
I bermuda di jeans strappati e macchiati di vernice avevano sicuramente visto tempi migliori, e la tavola da longboard che teneva sotto braccio era scheggiata in diversi punti, oltre che aver perso parte del lucido e parte del freno, consumatosi a forza di sfregare contro l'asfalto.
La canottiera nera col logo dei Nirvana era bucata in più punti, eppure continuava a metterla. Come se gli potesse importare di sembrare un senzatetto! Non poteva fregargliene di meno; se fosse stato a sentire ogni critica o pettegolezzo che la gente gli muoveva contro sarebbe morto di stress entro i venticinque anni. Al contrario, viveva la vita fregandosene quasi di chiunque, fregandosene di quel che dicevano, o degli sguardi che gli lanciavano quando gli capitavano accanto.
Ignorando chiunque non fosse lei, era così che andava avanti.
Salutò la donna al bancone con l'accenno di un sorriso, prima di scompigliarsi i capelli tenuti bassi in un ciuffo un po' disordinato sulla fronte, appena sotto la quale stavano un paio di occhiali dalla montatura nera e un po' spessa, che rendevano i suoi occhi più grandi e più profondi di quanto già non fossero.
Il castano chiaro diventava quasi dorato, col poco di sole che quel giorno illuminava Londra. Ma all'interno della biblioteca tornavano scuri, con una spruzzata di caramello a illuminare il color terra delle sue iridi. Dire che i suoi occhi fossero belli era dire poco. Troppo poco; avrebbe sminuito ogni goccia di bellezza che si intravedeva tra una pagliuzza e l'altra.
Arrivò al corridoio centrale canticchiando un vecchio tormentone che gli era tornato in mente, fregandosene di essere in una biblioteca. In fondo non c'era nessuno, a chi avrebbe dato fastidio? Ai fantasmi di poeti morti un secolo prima? Svoltò nel corridoio dedicato al libri per bambini - l'unico che odorasse un po' meno di quel vecchiume che le sue narici facevano tanta fatica a sopportare - giocherellando coi denti con la pallina di metallo argentato che gli ornava la lingua e sistemandosi gli occhiali sul naso con la mano libera dal longboard.
In fondo al corridoio poteva già intravedere i tavoli della sala lettura. Tutti vuoti, non fosse stato per la tracolla di jeans e il quaderno dalla copertina di pelle marrone posati nel solito disordine controllato su uno di essi. Gli si inarcò un sopracciglio; si aspettava di vedere la proprietaria di quelle poche cose, ma sulle seggiole di plastica non ce n'era traccia alcuna. Finché avvicinandosi non scorse la suola di un paio di sneakers che una volta erano bianche.
Allora non poté far altro se non sorridere.
«Ehi, straniera...», le disse, una volta avvicinatosi e lasciata la sua roba accanto a quella della ragazza che conosceva da due anni, da quando si era trasferita a Londra e lui l'aveva vista uscire dalla parrucchiera, coi capelli appena tinti di blu ma decisamente più corti di come li portasse ora.
Straniera. La chiamava così da sempre, e lei piaceva. Si sentiva speciale, per quanto potesse essere un soprannome apparentemente banale. Le ricordava come si fossero conosciuti, quando aveva appena diciotto anni e Londra era solo una città che l'aveva sempre attirata ma che non aveva mai visto.
Lui le aveva fatto da guida turistica, all'inizio. Poi le aveva trovato una camera in affitto, quando stava finendo i soldi pagando la stanza d'albergo. Senza lavoro, si era dovuta accontentare di un divano a casa di un'amica del moro. E l'aveva aiutata col lavoro, anche se lei continuava a insistere dicendo che se la sarebbe cavata. L'aveva aiutata più lui i primi due mesi di quanto non avesse fatto la sua vera famiglia nei diciotto anni precedenti.
«Mi hai fatto prendere un colpo, idiota».
Non l'aveva sentito arrivare, tanto era presa dallo sfogliare quel vecchio libro di poesia in francese. E si era portata una mano sul cuore, quando aveva alzato lo sguardo e se l'era trovato di fronte all'improvviso, che torreggiava su di lei con un sorriso sghembo sulle labbra.
«Sei offensiva, Blue», le disse abbassandosi al suo livello per lasciarle un bacio tra i capelli.
Si accorse appena del leggero rossore sulle sue guance, mentre il cielo sopra di loro iniziava ad annuvolarsi. Ormai era abituato alle sue reazioni; la conosceva abbastanza bene da sapere cosa la facesse arrossire, cosa la imbarazzasse da morire, cosa le piacesse e quali fossero i suoi libri preferiti in quella biblioteca.
Si fece scivolare contro il muro, fino a trovarsi seduto al suo fianco, con le braccia e le ginocchia che si sfioravano tra loro. Con l'odore di quella ragazza strana almeno quanto lui nelle narici, smorzato dall'odore quasi insopportabile di quel libro. A giudicare dall'aspetto, doveva essere parecchio vecchio.
Con la testa voltata quasi completamente verso di lei, la vide saggiare la consistenza della carta tra pollice e indice, riprendendo a leggere muovendo solo le labbra, senza pronunciare le parole. La sentì farsi più vicina, fino a posare la testa sulla sua spalla; allora si sporse un po' per capire cosa fosse, quel che la stava prendendo a tal punto da parlargli appena.
«Da quando parli francese?».
«Dal liceo», ridacchiò lei lanciandogli un'occhiata.
Se ne pentì dopo una manciata di secondi, quando il suono contagioso della sua risata le arrivò alle orecchie e vide la lingua incastrarglisi in automatico tra i denti, nascondendo il piercing a chi non sapeva che ci fosse. Era la fine del mondo, quella risata. E del resto il ragazzo l'aveva fatto apposta per attirare la sua attenzione, per distrarla da quelle parole che lui non capiva, per attirare il suo sguardo d'ebano nel proprio.
Gli occhi della ragazza erano due pozzi senza fondo, dei quali si faceva fatica a capire il colore. Come si faceva fatica a distinguere l'iride dalla pupilla, nonostante la luce che proveniva dal soffitto di vetro. Occhi neri, i suoi. Castano scuro con la luce. A volte verdi. Altre volte semplicemente grigio piombo, dello stesso colore delle nuvole che coprivano i cieli di Londra.
«Me ne leggi qualche riga?». La vide inarcare un sopracciglio. Era parecchio strano, tutto quanto. Sia che lui fosse lì con lei, in quella biblioteca; sia che lei avesse trovato quel vecchio libro, totalmente per caso; sia che le stesse chiedendo di leggerli qualcosa, in francese per giunta. «Che c'è?», le chiese ridendo, rispondendo al suo sopracciglio inarcato incastrando la pallina del piercing tra i denti.
Non lo fare, era tutto quel che riusciva a pensare la ragazza dai lunghi capelli blu.
«Non vuoi davvero che io ti legga Baudelaire, Zayn».
«È tanto strano?».
Tanto strano. Troppo. Ma la sua espressione riuscì a farla ridere, tanto da scuotere appena la testa, mettersi più composta e schiarirsi la voce, prima di sfogliare delicatamente quel libro che sembrava voler cadere a pezzi da un momento all'altro, fino a trovare una delle sue poesie preferite in assoluto.
Fece finta di non notare la vicinanza delle sue dita contro il suo collo mentre le scostava i capelli sull'altra spalla, mentre iniziava a leggere. In fondo, quella vicinanza era normale amministrazione, per loro. Scherzavano come si conoscessero da sempre, sin dal primo giorno; e inutile negare che a Blue quella pochissima distanza con quel ragazzo tatuato non dispiacesse affatto. Inutile negare quanto ne fosse attratta, se ne sarebbe accorto chiunque, probabilmente da chilometri di distanza.
«Ce soir, la lune rêve avec plus de paresse», recitò in un soffio, come un alito di vento portato dal mare. La sua voce leggermente roca era anche più sensuale, quando parlava in francese. E Zayn poté sentire i brividi formarglisi lungo la spina dorsale, parola dopo parola. Parole che non capiva, ma l'importante era sentirle da lei, qualsiasi cosa volessero dire. «Ainsi qu'une beauté, sur de nombreux coussins, Qui d'une main distraite et légère caresse Avant de s'endormir le contour de ses seins...».
Si bloccò sentendo le labbra morbide del ragazzo accanto a sé, posate poco sopra la propria clavicola. Le si spezzò il respiro in due, sentendolo poi sorridere contro la propria pelle. Fece per mormorare qualcosa, forse il suo nome, forse chissà cos'altro. Ma lui la fermò, allontanandosi appena, per poi avvicinarsi al suo orecchio. «Continua, Blue...». Un sussurro, con voce tanto roca da farle desiderare di morire ascoltandola. Un sussurro, prima che tornasse a posare le labbra sulla sua spalla, con gli occhi chiusi, in attesa di sentirla parlare ancora.
«Te la posso tradurre, se vuoi...». Non seppe nemmeno lei in che modo riuscì a pronunciare quelle parole senza avvampare, e senza balbettare come una ragazzina davanti al suo primo amore. Lo sentì annuire appena, prima che potesse riordinare i pensieri e ricominciare da capo, in una lingua che potesse capire anche lui, stavolta. «Più pigra, questa sera, sta sognando la luna: bellezza che su un mucchio di cuscini, lieve e distratta, prima di dormire accarezza il contorno dei suoi seni...».
Si fermò ancora, sentendolo lasciarle un bacio, nel punto in cui era rimasto immobile mentre lei leggeva, trattenendosi appena dal toglierle quel vecchio libro dalle mani, farla sedere sul tavolo poco lontano e baciarla fino a sentirsi mancare il fiato. Un altro bacio, qualche centimetro più vicino al collo. Bacio che la ragazza interpretò come un incitamento a continuare.
«sulla serica schiena delle molli valanghe, morente, s'abbandona a deliqui infiniti, e volge gli occhi là dove bianche visioni salgono nell'azzurro come fiori».
Parola dopo parola sentiva le labbra del moro salire più su lungo il collo. Un millimetro alla volta, nella più piacevole ma sfiancante delle torture. Prese un respiro profondo, pregando qualsiasi divinità presente oltre quel tetto di vetro e oltre quelle nuvole, di farle finire quella poesia. Pregando di sopravvivere, perché se fosse arrivata alla fine avrebbe sentito quelle labbra contro le proprie - o almeno ci sperava, con tutta sé stessa. Pregando di non fare alcun torto a quel povero poeta, vittima in quel pomeriggio di tal tortura, proprio come lo era lei.
«Quando su questa terra, nel suo pigro languore, lascia che giù furtiva una lacrima fili, un poeta adorante e al sonno ostile nella mano raccoglie quell'umido pallore dai riflessi iridati d'opale, e lo nasconde lontano dagli occhi del sole...».
Parola dopo parola le labbra del ragazzo continuarono a salirle lungo il collo, causandole la pelle d'oca. Facendola sciogliere un secondo dopo l'altro. Facendole desiderare che smettesse, ma anche che quel momento non finisse mai e poi mai. E arrivate in cima al collo, continuarono a muoversi lungo la sua mascella, dirette in un punto imprecisato verso il suo mento; facendole voltare il viso verso di lui, mentre cercava disperatamente di riprendere fiato, mettere in ordine le poche parole che le rimanevano da dire e sopravvivere.
Il tutto nel tempo di un respiro.
Il tutto mentre gli occhi di Zayn si scurivano attimo dopo attimo, immergendosi nei suoi, quasi riflettendoli, come in qualche strano gioco degli specchi, senza che però ci fosse bisogno di specchio alcuno. E guardando nei suoi occhi, si accorse a malapena di perdere la presa sul libro di poesie. Come si accorse appena del fatto che Zayn lo stesse allontanando da lei, dalle sue ginocchia, posandolo piano sul pavimento accanto a sé e fermandosi, col respiro spezzato contro le labbra di lei.
I loro odori e i loro respiri e il colore dei loro occhi che si fondevano.
Come fossero stati sempre una cosa sola.
Come se in quei due anni che si conoscevano non avessero aspettato altro.
«Zayn...».
«Ti prego, dimmi che non mi sto sbagliando», mormorò senza allontanarsi di una virgola, prendendo un pizzico di coraggio in più e scostandole una piccola ciocca di capelli che le si era impigliata sulle labbra. Dimmi che non sto sbagliando, che vuoi essere baciata. Qualsiasi cosa, ma non mi fermare.
«N-non stai sbagliando», mormorò di rimando, balbettando un poco. Le mancava il fiato, e i pensieri facevano rumore nella sua mente, e non c'era nient'altro che non fosse Zayn. Vedeva solo lui. Solo la sua pelle color caffelatte, e i capelli color petrolio, e gli occhi resi scuri dal desiderio, e la piccola ruga tra le sopracciglia...
Se quei muri avessero potuto parlare avrebbero raccontato di come Blue si fosse dimenticata completamente di pronunciare le ultime parole della poesia, e di come le sue labbra si fossero posate - o si fossero lasciate sfiorare - su quelle di Zayn. Avrebbero potuto narrare di come le loro labbra si conobbero, a poco a poco, senza fretta. Di come quelle di lei si schiusero al passaggio della punta della lingua di lui. Di come le mancò il fiato, a sentire le sue dita stringerle i fianchi e sollevarla appena per farla sedere a cavalcioni su di sé. O di come le loro lingue si incontrarono, timide, e poi sempre più sicure, veloci, fino a sentire il fiato mancare e doversi staccare di qualche centimetro per permettere all'aria di tornare in circolo.
I muri però non potevano sentire gli odori. Né i sapori.
Blue tenne gli occhi chiusi per i secondi successivi, mentre lo sguardo di Zayn studiava la sua espressione in ogni minimo particolare. Dalle ciglia che sfarfallavano leggermente alle labbra schiuse, alla punta della lingua che scivolava in fretta sul labbro inferiore per catturare i rimasugli del sapore di tabacco del ragazzo. Aveva le guance arrossate e i capelli spettinati; gli occhi che si aprirono appena in tempo da guardare il sorriso timido e le labbra un po' gonfie del ragazzo sul quale era ancora seduta.
Per quanto avesse immaginato quel momento, nulla era paragonabile al sentire l'odore di Zayn tanto vicino. Nulla, gli si avvicinava, nemmeno lontanamente. C'era l'odore di sigaretta, o quello del dopobarba alla menta - anche se era probabile che non si facesse la barba da giorni. C'era un pizzico di cannella, nel sul odore, e di bacche di ginepro, ma Blue non avrebbe saputo dire con certezza quale dei due odori si sentiva di più.
Si passò per la seconda volta la lingua sulle labbra, guardandolo, per rivivere ogni istante.
Non fece in tempo. Meno di un secondo ed erano di nuovo incollati, coi respiri accelerati e le lingue che si cercavano. Col sapore di tabacco e cioccolata che si mischiavano, con una punta di gomma da masticare alla liquirizia e il piacevole sentore rugginoso del metallo lasciato dal piercing, che le scivolava lungo la lingua facendole il solletico e facendole rendere conto di quanto lo volesse.
Di quanto l'avesse sempre voluto, dal momento in cui l'aveva visto uscendo dalla parrucchiera, dall'altra parte della strada. Lo voleva, in quel momento più che mai, fingendo di non essere in una biblioteca e che il resto del mondo non esistesse. Lo voleva, mentre intrecciava le dita coi sui capelli, corti sulla nuca. Lo voleva ancora e ancora, mentre si separavano di nuovo per riprendere fiato.
E mentre la guardava negli occhi e le sfiorava le labbra gonfie con il pollice, si rese conto di quanto la volesse e di quanto l'avesse sempre voluta e desiderata e forse amata senza nemmeno accorgersene, in quei due anni. La voleva, mentre faceva scivolare le dita lungo il bordo dei pantaloncini, che avrebbe voluto non fossero a vita alta, o che almeno coprissero di meno, perché voleva sentirla. La voleva ancora e ancora, mentre si separava da lei a malincuore, per riprendere fiato.
«Dans son cœur», gli disse con un mezzo sorriso, finendo finalmente quella poesia che gli aveva fatto fare il primo passo. Probabile che Blue non avrebbe mai avuto occasione di ringraziare abbastanza quella giornata, quel libro fuori posto e quella poesia presa e caso e probabilmente recitata male. «Nel suo cuore, è la fine di Tristezze della Luna».
A Zayn venne da ridere, quando la vide avvampare tanto da far sembrare surreali i suoi capelli blu in contrasto con le guance rosse. Le lasciò il bacio più dolce che potesse sulla fronte, stringendola poi a sé e lasciando che nascondesse sorridendo il viso contro il suo petto. Rise nel suo orecchio, continuando a stringerla, perché sentiva che era la cosa giusta da fare.
Che loro erano la cosa giusta da fare.
Separati da quell'abbraccio e presisi per mano, raccolte le proprie cose e preso uno dei corridoi che portavano all'uscita, quasi non si accorsero delle piccole gocce di pioggia che picchiettavano sul moderno tetto di vetro della sala lettura di quella biblioteca decisamente troppo antica e troppo vuota, ma i cui muri erano appena stati testimoni del primo di tanti e tanti baci, di qualcosa che forse era appena nato, o forse c'era già da un po' ma nessuno se n'era reso conto.
«Sai una cosa?».
«Cosa?», riuscì a stento a chiedere, mentre le dita del moro si intrecciavano con le proprie.
Senza troppa difficoltà, quasi fossero nate nient'altro che per quello. Niente attrito. Niente mani sudaticce da adolescenti alle prime armi. I piccoli calli sulle mani di lui che si adattavano alle mani morbide di lei, quasi smussandosi al contatto. L'anello all'anulare di lei che cozzava con quello di lui ma senza opporre resistenza, senza dar fastidio e senza far loro alcun male.
«Iniziano a piacermi, le biblioteche», le disse in un soffio abbassandosi di poco per posarle un bacio sulla tempia coperta da qualche ciuffo blu elettrico. La fece ridere, mentre uscivano attirando l'attenzione della bibliotecaria, che però si limitò a salutarli con un sorriso e un quasi impercettibile cenno del capo.
Era una donna che ormai non si scandalizzava più per nulla né per nessuno.
Come la biblioteca in cui lavorava, ne aveva viste e sentite tante da poterci scrivere un libro. E, sempre come la biblioteca in cui lavorava, aveva appena assistito alla vista di quelle due mani che finalmente si univano in quella presa piena di affetto dopo esserci cercate invano per tanto - forse troppo - tempo.
Testimone di quello che forse sarebbe diventato amore o forse lo era già, l'anziana signora tornò ai soliti moduli per i prestiti dei libri, non senza lasciarsi andare ad un sorriso felice e spensierato. Perché alla sua età non avrebbe più dovuto sorprendersi; ma del resto non capitava tutti i giorni di vedere due giovani tanto strani e differenti dalla massa perdere la testa l'uno per l'altra grazie ad una poesia di Baudelaire.



 


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