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Autore: GioTanner    17/07/2014    1 recensioni
"[...]Non riportai il loro dolore, lo cancellai.
«Oh mio Dio... OH MIO DIO..!» urlò l'italiano nella sua lingua madre. Guardò le sue mani e si strofinò gli occhi, per poi cadere a sedere con un tonfo.
Jo si sbottonò la camicia in un gesto quasi meccanico e con un po' di esitazione tastò quei tre buchi nella sua pelle, come fosse in trance.
Damian allargò le braccia per vedere da dove uscisse tutta quell'acqua, per cercare di asciugarsi e tentare di capire come potesse non avere freddo...
Ma quando gli sguardi di tutti e tre gli giovani si incrociarono la verità, chiara e crudele come quelle mura asimmetriche, piombò nelle loro menti come neve sopra i tetti delle case.
Fu qualcosa di... brutalmente delicato. Come neve sopra i tetti delle case.
Agghiacciante e leggera.[...]"
- - -
Vi erano tre ragazzi in una stanza bianca, asimmetrica e claustrofobica. Vi erano tre ragazzi che, di epoche diverse, l'ultimo giorno che ricordavano era il 12 Settembre.
1721; 1891; 1913.
Vi erano tre ragazzi e uno di loro non ritornò.
Genere: Angst, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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{La storia ha un punto di vista. Non è in terza persona, sebbene inizialmente lo sembri essere.

La TARGHETTA è disegnata dalla sottoscritta © e ridimensionata. Il disegno originale l'ho messo qui:

http://giotanner.deviantart.com/art/A-Soldier-in-a-Foreign-Land-467126599




Il Messaggero

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Un attimo prima.

Avrebbe voluto tornare ad un attimo prima, all'attimo in cui la sua nave era stata colpita, sventrata, derubata di tutte le scorte e bruciata. Erano poco più di una trentina di pirati eppure avevano avuto la meglio su quella nave della marina britannica. Su quella nave dove aveva imparato a divenire un buon soldato della Regina e un buon amico del Commodoro.

Il Commodoro insieme ai suoi superiori era stato legato agli alberi della nave e mentre i pirati buttavano giù nel profondo dell'oceano i giovani soldatini, a quelli di grado più alto riservavano il fuoco.

Come ogni uomo anche lui si era posto un giorno quella fatidica domanda: sarebbe stato peggio morire affogato e sentendo il respiro mancarti o bruciare sentendo lacerarti la pelle?

La risposta, lui, non se l'era mica mai data.

Poi non ricordava più cos'era successo. Però avrebbe voluto tornare ad un attimo prima invece che ritrovarsi in quella stanza spoglia, dalle pareti bianche, asimmetriche e lontane miglia e miglia senza che neppure i suoi passi o le sue urla potessero essere uditi. Non v'era eco, non v'era suono.


«Ehi, l'ora del tè è finita da tempo*.» sentì, al contrario delle sue aspettative, come fosse un tuono per le sue orecchie. Una scossa dopo un silenzio che era diventato assordante, perché la sua mente urlava e scalpitava continuando a ricordagli il blu dell'oceano e il rosso delle fiamme e a parlare non c'aveva manco provato. Tutt'intorno pareva ovattato.

«Chi sei?» fu la prima frase che gli uscì dalla bocca, una frase dalle labbra quasi serrate, una frase sussurrata e con una compostezza che non gli apparteneva poi più di tanto.

«Questo dovrei chiedertelo io, gioiellino. Anche se in realtà non me ne frega poi molto di un inglese in calzamaglia, mi frega di più sapere dove diavolo siamo quando fino ad un momento fa ero dentro un saloon della contea di Marshall nel Kansas.»

«Non conosco nessuna contea del Kansas, anzi non conosco nessun Kansas.»

«Non fare l'inglese con me, intesi? Okay, ci siamo presi la nostra maledetta indipendenza, ma fare i permalosi a tal punto da non riconoscere più uno stato americano..! Dai, pensavo c'aveste messo una pietra su! Stiamo quasi alle porte del nuovo secolo, man!»

«Cosa stai dicen-...


«Ehi, ehi... sapete dove siamo?- interruppe il dialogo un terzo uomo, dalla parlata mezza americana, ma con un'intonazione strana -Che cavolo è questo posto di merda? Io se non torno immediatamente dov'ero... mi scordo la paga di questo mese. E a Palermo la mia famiglia ha bisogno di me! Devo spedirgli la rimessa*!»

Gli altri due si girarono contemporaneamente verso la terza voce: davanti ai loro occhi apparve la figura d'un ragazzo che avrà avuto più o meno la loro età, un ragazzo con le bretelle e un cappello che nessuno dei due aveva mai visto prima. Un cappello e una faccia che era tutto un programma, chiara sì, ma annerita da chissà quale lavoro che aveva a che fare col carbone.

«Dove siamo? Bella domanda.- il giovane americano provò a rispondere alla febbrile richiesta del ragazzo -Vorrei saperlo anch'io, amico. E vorrei avere con me il mio tabacco, giusto per sentirmi meglio.»

«Ho delle sigarette se vuoi,- se ne uscì fuori l'italiano, con la sua pronuncia alquanto sindacabile, tirando dalle tasche il pacchetto- magari fumi solo con la pipa, ma meglio di niente.» e gli accese con un fiammifero la sigaretta.

«Sono proprio sottili, comode però.»

«Voi... avete provato a raggiungere le pareti? Anche se lontane forse in tutto questo bianco c'è una porta... un'uscita...» rabbrividì nel frattempo il soldato inglese.

«Sì.- rispose ancora una volta lo yankee -E... no, non c'è un'uscita. Non so manco che diamine ci faccio qui, non ricordo neanche come ci sia finito qui! Devo aver avuto una bella sbronza per iniziare a vedere un soldatino blu e un italiano cencioso.»

«Sto lavorando alla nuova Ferrovia del confine, scusa tanto se non sono in frac. Far esplodere dinamite sul percorso è un cazzo di lavoro, ma sempre un lavoro.» si sentì chiamato in causa il ragazzo, strofinandosi le mani su i pantaloni.

L'inglese, nel frattempo, sentendosi lontano addirittura dai discorsi che dicevano quei due, si sedette. O almeno credette di sedersi, perché in tutto quel bianco circostante, senza che neanche la sua ombra lo seguisse, non era poi così sicuro di essersi seduto davvero. La terra non vi era, così come il pavimento. Ma aveva chinato le gambe e questo bastava a dargli un po' di certezza.

Sembrava fosse l'unico preoccupato sul serio. O forse il ciarlare dei due ragazzi era solamente un modo come un altro per non sentirsi schiacciati dalla paura, dal timore, dalla solitudine di quel bianco opprimente e violento.

«Vorrei solo tornare in patria...» sospirò.

«Anch'io. -gli si sedette accanto l'italiano udendo quelle meste e tremolanti parole- Ma abbiamo un politico bello stronzo giù in Italia, tutto al nord e niente al sud, così mi è toccato emigrare. Ma tu non hai di questi problemi, penso... insomma sarà bella costosa 'sta uniforme. Cos'è che sei, un sergente?»

«Un soldato semplice. -gli rispose, ringraziando con un sorriso appena accennato quello straniero dalla chiacchiera facile -E questa è l'uniforme della Marina Britannica, sai. Mio padre quando partii nel 1719 gli splendevano gli occhi a vedermi con la divisa.»

«O forse cercava di ricacciare indietro le lacrime. Mio padre era tutto d'un pezzo, ma quando dovetti andarmene gli splendevano gli occhi perché sapeva quanto poteva essere doloroso per me lasciare Palermo.» a questo il soldato non c'aveva mai pensato. Niente sentimentalisti nella sua famiglia di media borghesia. E poi era inglese, lui.

Sebbene non si sentì alcun passo, ad un certo punto fra i due s'accovacciò l'americano che, con il suo modo di parlare sciatto e dalle vocali allungate, s'intromise: «1719? Anche tu hai bevuto forte, eh!»

«No! Sono in servizio. -reclamò l'interessato- E perché mai pensi che abbia bevuto?» alzò il volto, guardando in faccia il ragazzo dagli occhi scuri e dall'alito dall'odor del vino.

«Perché siamo nel 1913!» rispose ovvio l'italiano.

«Siamo nel 1891!» aveva risposto in contemporanea lo yankee.

Per un manciata di secondi il fastidioso silenzio si impadronì nuovamente di quella gabbia biancastra. E le menti dei prigionieri vorticarono gridando.

Delle date non erano niente e si poteva facilmente litigare per esse in un ambiente normale, solito, conosciuto...

Ma se lo spavento, il terrore più vivo, l'apoteosi dell'angoscia e del panico si formasse nel proprio cervello a causa di una stanza senza uscita, senza vie né finestre, senza ombre e senza luce, senza la minima idea di come ci si sia arrivati, cercando di scacciare ogni brutta sensazione, pensando solo che sarà stata colpa dell'alcol, del troppo lavoro, del fuoco o dell'acqua, buttando giù qualche idea razionale anche se non si era poi mai stati troppo acuti... allora delle date non erano niente, ma al contrario erano il crollo definitivo delle proprie mura, il tracollo decisivo della propria ragione.


«Mi chiamo-... il mio nome è Damian Moore, sono un soldato. -iniziò tentennante l'inglese -È il 12 settembre del 1721 e io stavo pregando Dio, perché un branco di pirati aveva preso possesso di una nave della Marina Britannica. L'aveva depredata e... e stava buttando giù negli abissi dell'oceano l'equipaggio, bruciando per sfregio le vele, il legno e i soldati di alto grado. E io pregavo Dio, perché presto la sorte mi sarebbe toccata e poi... bianco. Dannato e feroce bianco. Io non ricordo... non lo ricordo davvero.» parlava a bassa voce, ma udibile. A bassa voce come a convincersi lui stesso di ciò che affermava, ma udibile per provare a se stesso che le sue parole avevano senso anche fuori dalla sua mente, pronunciate dalla sua bocca.

Gli altri due, seduti ancora intorno a lui, lo ascoltarono seriamente. E un brivido tremendo serpeggiò su i loro corpi. Perché o fedelmente pazzo o assolutamente convinto il ragazzo credeva in quello che aveva pronunciato; di questo non si poteva dubitare, neanche scherzarci su.

Allora il giovane americano cercò di non cadere ai postumi dell'alcol, o di guardare quella vastità di bianco che lo sommergeva, squadrò Damian e sospirando disse: «Io sono Jonathan, Jo mi chiamano. Ho una splendida puledra di nome Light Tulip e una pistola... quasi sempre senza cartucce. In fondo basta farla vedere una revolver, per far allontanare qualche landruncolo del West. È il 12 settembre del 1891, sicuro quant'Iddio, e sono le prime luci dell'alba perché Danny, il ragazzino dei giornali, ha appena posato i giornali sul bancone del locale. Io ho... bevuto sì, la sera prima, ma so ancora contarmi le dita e va bene così. Non ho un lavoro fisso, ma mi occupo qualche volta dei cavalli giù in città. È scoppiata una rissa, solita routine e poi... wow, bianco vivido e che fa male agli occhi...» e finito quello che aveva da dire sulle ultime cose che ricordava intrecciò dietro la testa le mani, sdraiandosi a terra.

L'ultimo ragazzo, sbigottito, rimase un altro minuto a cercare di elaborare quello che aveva appena ascoltato. Non aveva senso. Ma in realtà non aveva senso neanche che tre uomini come loro fossero dentro quel bianco accecante, quasi claustrofobico.

Nessuno fiatò però e, mancando solo lui, l'italiano parlò: «Io mi chiamo Domenico Casaldi, palermitano da generazioni. Noi italiani ci facciamo caso a queste cose, non perdiamo mai le nostre origini. -spiegò nel suo americano imparato alla buona -Ma mi è toccato andarmene in America, la grande America! Tanto per non morire di fame. Però è tutto okay. Faccio l'operaio di mestiere, costruisco le ferrovie; il capo è uno che ci fa filare dritto e la figlia di un suo dipendente è una rosa! Appena faccio più grana non le comprerò solo dei fiori. Oggi è il 12 settembre, questo è vero, il 12 settembre del 1913 e stavo usando la dinamite per far esplodere l'ennesimo ostacolo per la costruzione di una rotaia, mi ricordo Jim che si tappa le orecchie, come fa sempre, poi... questo... questa cosa... bianco.» non riuscì a spiegarsi, non riuscì più ad andare avanti.


Il pensiero, quell'unico pensiero che avrebbe dovuto girare nella testa d'ognuno, era forse il solo che non riusciva a farsi spazio nella loro mente.

Nella mente di chi era troppo attaccato alla vita o di chi, semplicemente, nella sua vita aveva pensato solo al presente, al futuro... all'uomo che sarebbe diventato e alla donna che l'avrebbe accompagnato.

Era sempre così.

«È sempre così- ripetei ad alta voce, guardandoli dall'alto per poi bruscamente volare a picco, verso di loro -Non riuscite proprio ad arrivarci, voi.» e forse quella che per me era una semplice affermazione, era per loro l'ultimo barlume di ragione che gli veniva strappato.

I tre ragazzi mi videro piombare fra loro, senza farmi un graffio, ma atterrando quasi avessi le ali. C'è chi ci pensa infatti, gli sovviene il ricordo di un angelo... di qualche strana storia della Bibbia o dell'ultima volta che ha recitato quella preghiera su “L'angelo di Dio”.

C'è anche chi pensa stia diventando completamente matto.

«Chi sei?» mi chiese Damian. Sembrava il più concentrato nel comprendere la strana situazione che gli era capitata. Ma non c'era niente da comprendere, o almeno niente che nella sua ardua corsa verso la razionalità avrebbe compreso.

«Un angelo...» se ne uscì fuori Domenico, togliendosi il cappello per rispetto e quasi morendo dalla voglia di vedere che prima o poi avrei mostrato delle ali.

«Sta diventando sempre più assurda tutta questa storia.» finì di dire per tutti e tre l'americano, rimettendosi a sedere in tutta fretta.

«No, non assurda. Neanche insolita o strana... vi è toccato molte volte tornare qui. Sempre come uomini diversi, sempre con attitudini, caratteri, storie differenti, ma vi è capitato molte volte di tornare qui. E ogni volta avete scelto, come quasi tutti gli uomini fanno, la possibilità di tornare ancora.»

«Che farnetichi? Mai stato in questo... posto. Io... io me lo ricorderei!» cercò di alzare il tono di voce con me Damian.

«Come ricordi la tua morte?»


Invece del silenzio che avrebbe, ancora una volta, dovuto riempire quella deforme stanza, si fece largo fra i presenti un brusco e frenetico vociferare.

«Come sei morto?! In che senso sei morto?» gli chiedeva Jo.

«Ma io ti vedo qui, in carne ed ossa!» proferì Domenico rimettendosi il cappello in testa.

«Non sono morto! Non sono morto.- Damian continuava a ripetere, come a calmare gli altri. -Ho la lucidità necessaria per poterlo affermare! Non sono morto.»

«Sì che lo sei.- continuai -In realtà siete tutti morti. TAC! “Povero ragazzo, aveva solo 22 anni!” “Morire così! Senza neanche salutarmi...” “Fino all'ultimo ha servito la patria!... questi i commenti che faranno su di voi. Poi... piano, non troppo piano, vi dimenticheranno.» ogni volta dovevo essere diretto per dargli loro la consapevolezza; per fargli entrare quell'unico pensiero che non v'era riuscito ad insinuarsi.

E... giusto per non sentire altre mille volte ancora le loro folli, quasi imbarazzanti lamentele, ma poter passare alla fase successiva: l'ultima scelta che avrebbero dovuto prendere. Certamente per permettere loro d'iniziare a credermi avevo preso in prestito le voci dei loro cari nei commenti appena dichiarati: la ragazza di Domenico piangente sull'appresa morte di quest'ultimo. Il migliore amico di Jo, un ragazzo che veniva dal Missouri con il pallino per il gioco d'azzardo. L'ammiraglio che aveva veduto Damian quando per la prima volta s'era imbarcato e che nell'ultima spedizione in mare aperto era rimasto a Londra. Ammiraglio che, conoscendo suo padre, sicuramente sarebbe stato l'uomo che gli avrebbe dato tale triste notizia.

Parole autentiche. Frasi che facevano tremare.

«Non... è... vero...» provò ancora Damian. Sebbene l'orrore di quella scoperta v'era evidente sul volto esterrefatto, mortificato.

«Ma sì, ma sì. Io non sono un angelo e questo non è il Paradiso. Ma per il resto è tutto vero! Sono un “Messaggero”, di quelli che si occupano delle “lettere da consegnare”. Dobbiamo fare presto, siete tre lettere che debbono essere consegnate e chissà se tutte e tre arriveranno a destinazione! Chissà cosa sceglierete, mi diverto sempre un po', perché spero sempre nell'altra possibilità... eppure, prevedibili, fate sempre quella. Ahh...» misi una mano fra i capelli, un gesto tipicamente umano.

«Chi sei...?» tentò di ribadire Damian, in una voce così sottotono rispetto al suo solito “Signor sì”.

«Chi-siete-voi, piuttosto!- osai far comprendere loro -Anime stanche a cui il “Consigliere”, il mio capo, per non impazzire fa dimenticare gli ultimi istanti prima della loro morte. Prima della sventura, della brutta storia, dello strazio... avete capito! Poi, arrivo io..!» con uno schiocco delle dita riportai lentamente nei loro ricordi, nei loro abiti, nei loro corpi l'ultimo atto prima di giungere qui.

La divisa di Damian iniziò a impregnarsi e a grondare acqua, i suoi capelli a sgocciolare, le mani e le labbra a colorarsi di viola livido.

La camicia di Jo si inzuppò di sangue, il petto si ricoprì di tre piccoli fori d'arma da fuoco con i rispettivi proiettili all'interno, il labbro inferiore divenne tumefatto e spaccato.

Il cappello così come gli abiti di Domenico cominciarono ad annerirsi, a consumarsi, le punte delle dita a coprirsi di fuliggine, di ferro, di polveri nere e opache.

Non riportai il loro dolore, lo cancellai.

«Oh mio Dio... OH MIO DIO..!» urlò l'italiano nella sua lingua madre. Guardò le sue mani e si strofinò gli occhi, per poi cadere a sedere con un tonfo.

Jo si sbottonò la camicia in un gesto quasi meccanico e con un po' di esitazione tastò quei tre buchi nella sua pelle, come fosse in trance.

Damian allargò le braccia per vedere da dove uscisse tutta quell'acqua, per cercare di asciugarsi e tentare di capire come potesse non avere freddo...

Ma quando gli sguardi di tutti e tre gli giovani si incrociarono la verità, chiara e crudele come quelle mura asimmetriche, piombò nelle loro menti come neve sopra i tetti delle case.

Fu qualcosa di... brutalmente delicato. Come neve sopra i tetti delle case.

Agghiacciante e leggera.

La Morte.


«Non è la prima volta che si muore, su. Ogni volta è come la prima, ma anche in vita vige questa regola! Si muore e poi si torna qui. E si vede che siete proprio mortali, perché vi dà così fastidio esserlo che allora alla domanda “Volete rinascere?” -ehi, nuova famiglia, tutto da capo, amici nuovi, ricordi nuovi, nascendo lo stesso giorno in cui siete morti, lo stesso orario in cui siete arrivati qui, pressapoco vicino a dove ve ne siete andati l'ultima volta-... voi comunque rispondete “Sì”. Non volete manco sapere qual è l'alternativa... perché vi spaventa il “Io non sono”, il non esistere più fra i mortali è forse quello che dà più fastidio ad un mortale. Ed è un po' una cosa che fa ridere. Ma fa ridere me, non voi.» arricciai le labbra in una specie di sorriso. Si vede che a stare a contatto con gli uomini poi si fanno gli stessi movimenti stupidi e... e anche da Messaggero non li avevo abbandonati.

«Ed è... perché abbiamo scelto... l'ultima volta di voler... rinascere che siamo... ancora una volta qui?» domandò Damian.

«Esatto.» risposi, puntando gli occhi su di lui.

«Siamo morti davvero così?» frastornato chiese Jo. I ricordi c'erano... ma l'accettazione non era mai stato il lavoro più facile per l'uomo.

«Perché siamo solo noi tre... qui? Perché non tutti i miei compagni?» chiese l'inglese.


«I pirati stavano razziando la nave e i soldati ancora in vita era ormai pochi. -raccontai, alzandomi in volo di qualche metro per avere l'attenzione di tutti e tre i giovani che s'alzarono in piedi- Gli ultimi superstiti erano ancora sul ponte, mentre altri appena caduti in mare cercavano ancora di nuotare per vivere. Sentisti le risa sghignazzanti e derisorie dei filibustieri sino a quando con una pistola puntata non ti spinsero nelle profondità dell'oceano. Erano le cinque e quarantatré del mattino quando hai smesso di respirare Damian. Il tuo ultimo pensiero rimase “sarebbe stato peggio morire affogato e sentendo il respiro mancarti o bruciare sentendo lacerarti la pelle?”. -pronunciai con la sua voce- Perché poi avevi solo provato a sopravvivere, a cercare di guardare su. Ma l'acqua è fredda e le correnti ti hanno spinto, ti hanno tirato giù. Il 12 settembre del 1721 alle ore cinque e quarantatré.»

Nessuno si sentì in grado di interrompermi, era la loro vita quella che stavo raccontando.

«Danny aveva appena consegnato i giornali quando, per il rumore di quel ragazzino che frenetico se ne correva via, alzasti la testa dal bancone. Eri sì sbronzo, ma non a tal punto da non ascoltare il frastuono di alcuni messicani che avevano iniziato una rissa. “Solita routineaffermasti, pure un po' divertito. La rissa però non si placò, anzi si spostò verso il bancone in cerca di qualche bottiglia da spaccare addosso a qualcuno. C'era chi urlava in messicano, chi in americano. Eri di spalle, girato a guardare il locandiere fino a quando uno non ti cadde addosso, ubriaco fradicio. Lo scrollasti di dosso, quello non gradì. Poco male, non t'interessava. Ti girasti mentre gli uomini s'accerchiarono, tirasti fuori la pistola e forse proprio per questo volarono spari. La tua era scarica, per fare strizza... la loro no. C'è chi muore sul colpo, chi invece no. Il 12 settembre del 1891 alle ore cinque e quarantatré il tuo cuore Jonathan... cessa di battere.»

«Che morte del cazzo...» se ne uscì esclamando l'americano che fra poco piangeva, fra poco rideva.

«La dinamite era pronta e a chi ti chiedeva se era tutto okay Domenico, rispondevi “tutto okay. Pensavano ancora che tu non riuscissi a capire o che tu fossi di poche parole, ma tutte le tue parole le riservavi nelle lettere che ti facevi scrivere dalla figlia di un operaio; una ragazza che sapeva leggere e scrivere e che ti aiutava a mandare quelle lettere ai tuoi genitori. Giù a Palermo tuo cugino sapeva leggere e quel che avrebbe letto era anche che ti eri bel che innamorato di quella ragazza intelligente. Eri vicino al detonatore di quell'esplosione controllata. Era un lavoro che ormai conoscevi a memoria. “Tutto okayti ripetesti mentre Jim si tappava le orecchie... Abbassi la leva e non c'è contatto o forse c'è stato, non subito, non visibile. L'esplosione avviene, solo non come dovrebbe. Quello che senti non è solo il suono, ma dolore. Sono le cinque e quarantatré del 12 settembre 1913.»

«Harriette...» Domenico rimembrò il nome della ragazza con un tale rammarico.

«Tre ragazzi di ventidue anni, che possono comprendersi e parlare bene o male la stessa lingua, morti il 12 settembre alle ore cinque e quarantatré... ecco perché siete qui. Meglio raggruppare e suddividere in base alla comprensione, all'orario e all'età per non creare inutili rappresaglie. Così ha deciso il capo. Siete tre giovani che arrivando qui hanno condiviso incertezze e storie. E così doveva essere, ma ora... ora cosa sceglierete?»

«Dimenticheremo tutto?- domandò amareggiato Domenico -Anche la nostra famiglia? La nostra terra? La mia Harriette? Non ho fatto in tempo a dirle così tante cose...»

«Sì.- asserii -Anche se voi umani siete proprio strani. Quello che verrà studiato poi come Déjà-vu o Déjà-vécu non è altro che un ricordo che avete legato con voi anche nella vostra nuova vita. Noi facciamo del nostro meglio per darvi una nuova vita, un'altra ancora. Ma un mortale ha sempre bisogno di essere legato a qualcosa perché anche una nuova vita sulla Terra è per voi un tuffo nell'ignoto... nel buio, nella morte. Così se incrocerete per sbaglio o che lo si voglia una strada, un profumo lo rimembrerete senza darvi una spiegazione. Capita di rado di riconoscere una persona però Domenico, per via degli anni, e seppur accada il sentimento che vi legava non lo sentirai.»

«Nasceremo... cavolo noi nasceremo l'esatto istante quando siamo morti... ventidue anni dopo... il mondo sarà ancora come prima.»

«Non ci scommetterei. Se rinascerete tutti e tre c'è chi vedrà la Presa della Bastiglia, la Rivoluzione Francese prima di morire. Chi si arruolerà alla Prima guerra mondiale, chi alla Seconda. Chi nel fronte giusto, chi in quello sbagliato...»

«Dimenticheremo ogni cosa.» concluse Damian, indietreggiando.

«Anche quello che vi ho appena detto. -ammisi chinando un attimo il capo- Ma rinascerete il 12 settembre dell'anno in cui ve ne siete appena andati. Vivrete e camminerete ancora sulla vostra Terra e amerete, vi ammalerete e sorriderete grazie alle emozioni che potrete provare di nuovo con la vostra gente. Poggerete i vostri piedi sul cemento e la vostra ombra vi seguirà, fedele.»

«Oppure finiremo per sempre di vivere...» si crucciò di rammentare Damian.

«Non c'è neanche da chiederlo. Fammi ritornare, amico!» proclamò a gran voce Jo. Aveva le sue buone ragioni, ognuno le sue. Perché perdere questa chance? Era giusto.

Tese le mani agli altri due e, così com'era apparso a Damian poco tempo prima, con un sorriso sfacciato se ne sparì dalla stanza.

«Spero di essere un figlio migliore e di diventare un uomo che sa qual è il momento giusto per amare una donna. Né un momento dopo, né un momento prima, ma mai troppo tardi... fammi andare!» decise a fine del suo dialogo l'italiano. E con un abbraccio e due pacche sulle spalle a Damian il ragazzo scomparve.

«Io...»

La stanza era più vuota, ora.




«...Rimpianti non ne ho. Cosa tornerei a fare?»

«Come?» aveva capito tutti i vantaggi del poter far ritorno sulla Terra quel ragazzo, eppure restò lì a fissarmi... senza scegliere.

«L'alternativa... è non rinascere più, no? Ma non avrò dolore, non avrò male, semplicemente sparirò giusto?»

«Per non tornare più alla luce.» mi affrettai a spiegare.

«Non ho rimpianti Messaggero.»

«Non dirlo. Ogni essere umano che arriva qui ha sempre qualcosa in sospeso, non fregarmi. L'uomo sogna, spera e ricorda e per questo ha rimpianti. Alle volte sono gravi, alle volte facilmente passabili. Così quando sa che sta per arrivare la sua ora inizia a pregare, a sorridere ai suoi cari, a dire che gli vuole bene e che devono andare avanti. Lascia tutto nelle loro mani e si sente amato, protetto, sicuro, in attesa e in pace con se stesso. Fa questo per dimenticare i lati negativi della sua vita, fa questo per lasciarsi addosso fino alla fine un latente senso di amore che oscuri tutto il resto. Ma una vita stroncata come la tua...»

«Ho rimpianti Messaggero, è vero. E mi dispiace davvero non esista il Paradiso sai?»

Un sorriso bonario comparì su entrambi i nostri volti.

«Ma non voglio tornare.»

«Fantastico! Era da tanto che nessuno prendeva in opzione questa scelta! Vuoi che ti spieghi, vuoi che ti dica cosa sentirai prima di sparire?» Una scelta di vero coraggio o di pessima codardia, quella era.

«No. Avrei solo paura. L'agonia è l'attesa. Non voglio più morire di nuovo, non voglio morire. Morire come un soldato sentendo l'acqua aprirmi la bocca, l'aria mancarmi nei polmoni, sentire il dolore pungente della morte, lo stancante momento di attendere quando tutto quello smetterà di uccidermi. Provare la silenziosa morsa dell'acqua che entra nella gola, restare con gli occhi aperti cercando il modo di riattivare i miei sensi, di riportarmi verso l'aria fresca, dolce e invitante. Cercare quindi di stare svegli, non capendo che proprio per questo attaccamento morboso alla vita mi sto facendo solo più male. E stringere le mani, con violenza, ultimo atto di un uomo che muore... - strinse le mani, di nuovo, come stesse barcollando nell'oceano- Non voglio morire. Non fatemi accettare ancora. Non fatemi più morire. »

«Non morirai.»



«Non morirai. Sparirai dalla tua vita da umano, senza obiezioni, non potrai tornare a vivere. E sarai eterno. Sarai nulla e sarai eterno. Sarai eterno e sarai niente. Non sarai più un uomo. Non vivrai più. Non sarai più.»

«Da quant'è che non vedevi questa scelta? Sembri elettrizzato.» era una domanda buttata un po' così, giusto per non pensare a quel che sarebbe accaduto. Una domanda di quelle di cui non volevi manco sapere la risposta a dire il vero.


«Da quando non l'ho fatta io.» ed egli scomparve.

Scomparve come uomo e l'oblio, la dimenticanza lo prese con sé. Non era più umano, non esisteva più. Il dolore di non esistere più era pari ad un dolore lacerante, ma non fisico.

Era cancellare la persona, non farla morire un'altra volta dandole la vita, ma strappargli l'essere e lasciarla divenire parte di un concetto solamente un po' più contorto. Come poteva il nulla morire? Come poteva qualcosa che non si conosce morire?

«“Fino all'ultimo ha servito la patria!”» pronunciai in un soffio con il tono di voce di quel ammiraglio.


Egli si girò e sorrise a quelle parole, poi scomparve anche quell'ultimo barlume di rimembranza. La sua scelta era impossibile, ma gli uomini erano strani.

«Deve essere stato un brav'uomo.» proferì.

Avevo tre lettere da consegnare, due erano arrivate a destinazione.

Damian era divenuto un Messaggero.








- - -

*l'ora del tè è finita da tempo: una frase che rimanda al 'BOSTON TEA PARTY' quando gli statunitensi iniziarono la rivolta contro gli inglesi. Ma rimanda anche al fatto che gli inglesi amino il tè. Ovviamente comprende che è inglese dall'uniforme della marina britannica che indossa.

*rimessa: nel periodo dal 1901 al 1914 nell'era Giolittiana in Italia quelli del Sud emigravano (soprattutto i giovani) per trovare lavoro in America. Le RIMESSE erano i soldi che gli immigrati italiani spedivano in Italia ai propri parenti. Giolitti era un politico che a Sud non faceva altro che accordarsi con la malavita.


Ammetto, c'ho lavorato tantissimo sopra questa One shot. Ed è forse una delle più lunghe OS che ho scritto. Per il resto... Io spero possa essere gradita, anche come conclusione del racconto. :)

Enjoy,

Giò.

   
 
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