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Autore: vannagio    20/07/2014    13 recensioni
«Sei in ritardo», abbaiò Halona in direzione di Shiriki. «E si può sapere chi cazzo è ‘sto moccioso che ti porti dietro?».
Shiriki sorrise, per nulla intimorito.
«È un cucciolo randagio che si è intrufolato al club. Possiamo tenerlo, Amore Mio?».

[Dedicata a Jo Lupo, che oggi compie gli anni. Tantissimi auguri!]
[Quarta classificata al "Kink&Plot Contest", indetto da Im_apanda]
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”







Dedicata a Jo Lupo, che oggi compie gli anni!
Che tutta la tua vita possa essere un lunghissimo e avventuroso viaggio in moto.
Tantissimi auguri!




Randagio




Atto I


Forzare una serratura è come scopare, gli aveva detto Grimaldello. La dimensione dell’attrezzo non conta. Tutte le serrature fanno un po’ di resistenza, all’inizio. Se si lasceranno fottere, dipenderà solo da te, dalla tua pazienza e da quanto sei bravo ad ascoltare.
Clic.
Fottuta
, pensò Roger sorridendo.
Aprì la porta, si mise in tasca le forcine e accese la torcia. Il piccolo cerchio di luce illuminò l’armadietto dei dipendenti. A quanto pareva, l’uscita sul retro del Coyote Club conduceva a una specie di disimpegno: il bagno a destra, la dispensa a sinistra e una porta scorrevole con due ampie vetrate al centro, oltre la quale doveva esserci il bancone.
Qualche secondo più tardi, Roger stava già litigando con la serratura del registratore di cassa. Era stretta e asciutta come la fica di una suora. Non che lui avesse mai visto la fica di una suora, ma Grimaldello lo diceva sempre, se non riusciva a scassinare qualcosa alla prima botta.
Roger aveva appena sentito il clic del primo fermo che si sbloccava, quando il suo udito da scassinatore gli intimò di fermarsi. Un rivolo di sudore freddo gli tagliò in due la fronte, mentre rizzava le orecchie e spegneva la torcia.
Attese al buio, reso sordo dal martellare del suo cuore contro la cassa toracica. Forse si era sbagliato, forse il suo cervello in astinenza gli stava giocando qualche brutto scherzo. Aveva aspettato pazientemente per ore, nascosto dietro il cassonetto dei rifiuti. Si era messo in azione solo quando la proprietaria del club aveva inforcato la sua moto ed era sgommata via. Il club era chiuso, non poteva esserci nessuno. Sì, si era sicuramente sbagliato.
Roger riaccese la torcia, dandosi del coglione. La tenne ferma con la bocca, per avere le mani libere, e tornò a illuminare il registratore di cassa. Le forcine erano ancora infilate dentro la serratura. Si asciugò le mani appiccicose di sudore sui jeans, prese un respiro profondo e…
«Ssshhh, fa piano».
«Perché? Non c’è nessuno».
…il tuffo al cuore gli fece perdere la presa sulla torcia. Prima che potesse rendersene conto, il cerchio di luce era già rotolato sotto l’armadietto dei liquori. Intanto le vetrate si erano illuminate, incorniciando due sagome scure. Roger si accucciò contro il bancone, proprio mentre la porta scorrevole si apriva e lasciava passare le due sagome, che adesso si erano fuse in una più grande.
Merda!
«Da brava, Giglio Tigrato, apri le gambe per me».
«Sei uno che va dritto al sodo, tu».
«Mi piacerebbe prendermela comoda, ma ho un impegno al quale non posso mancare».
La sagoma più alta si allontanò da quella più bassa quel tanto che bastava ad afferrarla per i fianchi e metterla a sedere sul bancone, proprio davanti al registratore di cassa. Erano distanti da lui solo pochi passi, Roger si tappò la bocca per paura che il suo respiro affannoso potesse tradirlo. Nel frattempo il tintinnare di una fibbia, il fruscio di una gonna e una risatina impaziente rendevano chiare le intenzioni dei due. Se quella era una sveltina, non gli rimaneva molto tempo per sgattaiolare via. Tra Roger e le vetrate scorrevoli c’erano i due amanti, che però al momento erano distratti. Forse poteva appiattirsi contro la parete e strisciare fino all’uscita senza che loro se ne accorgessero.
Deglutì a vuoto, intimandosi di calmarsi, e cominciò a muoversi lento e goffo. Sarebbe stato tutto più semplice, se il sudore non gli avesse appiccicato i vestiti addosso: era come nuotare vestito, una volta ci aveva provato ed era quasi morto annegato. Intanto teneva gli occhi fissi sulla lunga treccia nera (l’alternativa erano le chiappe al vento), che scendeva lungo la schiena dell’uomo e che oscillava a ritmo con le spinte del suo bacino. I gemiti e i sospiri erano coperti dal tom tom tom del suo cuore sui timpani, le casse amplificatrici di una discoteca al confronto erano meno assordanti.
Ma ormai Roger era a un soffio dalla vetrata scorrevole. Era fatta.
«Ahia, c’è qualcosa che punge qui dietro!».
«Uhm, fa’ vedere».
Merdamerdamerdamerda.
L’uomo cercò a tentoni dietro la schiena della ragazza e si ritrovò in mano le forcine da scassinatore. Si voltò con sguardo perplesso, sorprendendo un Roger pietrificato dal terrore.
«E tu chi diavolo…».
La ragazza strillò, tentando di coprire la fica esposta. Le urla funzionarono come una scarica di corrente elettrica per Roger: scattò in piedi, girò sui tacchi e spalancò le vetrate scorrevoli con violenza, registrando solo di sfuggita la grandinata di vetro che gli pioveva sulla testa.
La sua unica preoccupazione era raggiungere l’uscita sul retro, che ormai era là, a solo un braccio di distanza. Allungò la mano, afferrò la maniglia, tirò la porta, tirò ancora, ancora e ancora. Ma quella non si mosse. Roger rimase a fissarla con gli occhi fuori dalle orbite e il fiatone, fin quando una voce maschile non arrivò alle sue spalle come una coltellata a tradimento.
«Chiudo sempre a chiave, quando vengo qui con le mie amichette».
Roger inghiottì un groppo di saliva, voltandosi. Quando vide il sorrisetto a mezzaluna dell’uomo dalla treccia nera, l’unica parola che riuscì a pensare fu… Fottuto.


L’auto si fermò di fronte a un vicolo buio di cui non si riusciva a scorgere il fondo. L’uomo dalla treccia nera costrinse Roger a scendere e lo spintonò proprio davanti all’imboccatura del vicolo.
«Non ti conviene portarmi da lei, le dirò che stavi scopando con un’altra!».
L’uomo gli rivolse un sorriso gentile.
«Fa’ pure, Cucciolo Randagio. Servirà solo a farla incazzare di più e su chi credi che sfogherà l’incazzatura a quel punto?».
Roger afflosciò le spalle e, con le gambe pesanti di chi si dirige verso il patibolo, entrò nel vicolo. Raggiunsero la saracinesca di un negozio, Roger alzò lo sguardo per leggerne l’insegna, ma era buio pesto e riuscì a intravedere solo la parola tattoo. L’uomo dalla treccia nera bussò una volta sulla saracinesca e pochi istanti più tardi questa venne sollevata dall’interno fino a metà.
«Dopo di te, Cucciolo», disse l’uomo.
Roger obbedì senza protestare, ormai la paura si era trasformata in rassegnazione. L’interno del negozio, con le sue pareti tappezzate di modelli, schizzi e fotografie di tatuaggi, confermò i sospetti di Roger: si trattava di uno studio di tatuaggi. Appesa sopra il bancone, c’era la foto di un tizio che inforcava una Harley Davidson e una fica bionda nuda e tatuata seduta sul sellino posteriore della moto. Se non avesse riconosciuto il tizio della foto e non si stesse cagando letteralmente sotto dalla paura, Roger avrebbe fatto sicuramente dei commenti di apprezzamento.
A sollevare la saracinesca era stato un energumeno tatuato.
«Ehi, Batista. La mia dolce metà?».
«Salve, Shiriki. E di là, con Wile».
Wile Coyote. Capo della banda dei Coyote. Roger si sentì le gambe mancare.
«Allora aspetteremo. A te sta bene, non è vero, Cucciolo?».
Roger lo odiava già, quel Shiriki. Odiava lui, la sua stupida treccia, quel ridicolo gilet colorato, l’orecchino da finocchio e il tatuaggio sopra il sopracciglio a forma di ragno. Odiava tutto di lui, e non perché l’aveva beccato e l’aveva portato in un posto dal quale probabilmente non sarebbe uscito vivo. Lo odiava per il modo in cui gli si rivolgeva e per quel sorrisetto del cazzo, che a prima vista sembrava cordiale e affettuoso, ma in realtà diceva “Non sai quanto ci godo ad averti fottuto”.
Mentre loro si sedevano su un vecchio divano malconcio, Batista scomparve dietro una tenda. Il tessuto scuro non aveva ancora finito di ondeggiare, che venne scostato di nuovo. Roger raddrizzò la schiena e ricominciò a sudare freddo. Halona, la proprietaria del club che aveva appena tentato di derubare, rivolgeva loro uno sguardo duro come la pietra. Roger capiva perché Shiriki si era portato quella sciacquetta al club. Halona era tutt’altro che bella. Magra come un chiodo, nodosa come un ramo secco, piatta come una tavola sia davanti che dietro. Occhietti scuri e cattivi. Capelli sottili come spaghetti, lunghi e neri. Quella non era una donna da fottere. Caso mai era lei che fotteva te, ma non in modo bello.
«Sei in ritardo», abbaiò in direzione di Shiriki. «E si può sapere chi cazzo è ‘sto moccioso che ti porti dietro?».
Shiriki sorrise, per nulla intimorito.
«È un cucciolo randagio che si è intrufolato al club. Possiamo tenerlo, Amore Mio?».
Gli occhietti della donna si strinsero in due fessure diventando, se possibile, ancora più piccoli. Quando si posarono su di lui, Roger non poté fare a meno di sussultare.
«Definisci “intrufolare”».
«Tentava di scassinare il registratore di cassa, ma non ci è riuscito. In compenso ha distrutto le vetrate scorrevoli cercando di scappare».
Halona tornò a fissare Shiriki.
«E tu che cazzo ci facevi ancora al Coyote Club?».
Shiriki era la calma fatta persona. Non sembrava a disagio o colpevole.
«Come sta procedendo di là?», chiese con un sorrisetto che era un’ammissione piuttosto esplicita.
Halona sbuffò.
Inaspettatamente Wile Coyote emerse da dietro la tenda, mentre con uno strofinaccio tentava di ripulirsi le mani. Era imbrattato di sangue e inchiostro fino ai gomiti. Roger inghiottì un groppo di saliva, sicuro che ormai fosse scoccata la sua ora, Wile però non lo degnò di uno sguardo. Salutò con un cenno del capo Shiriki, prese l’accendino da un cassetto sotto il bancone e si accese una sigaretta. Solo dopo i primi due tiri, sembrò accorgersi della presenza di Roger.
«Lui sarebbe…?».
«Roba mia», rispose Halona.
Wile fece spallucce.
«Non mi dire che sei già stanco di torchiare il ragazzo!», chiese Shiriki. «Si vede proprio che sei un neo-nonno, adesso».
Halona saltò a sedere sul bancone.
«Scherzi? Se continua un altro po’, non rimarrà più un cazzo da far parlare».
Wile diede un tiro alla sigaretta. La brace in punta si accese di rosso.
«Ha perso i sensi. Ho lasciato Batista con lui. In ogni caso, non credo che parlerà».
«Non possiamo mollare adesso», disse Halona. «É l’unico che può dirci dove trovare quei fottuti spacciatori!».
Wile scosse la testa.
«Non si ricava nulla da un’arancia che è già stata spremuta».
«Quindi? Lo lasciamo andare?».
Wile annuì.
«Incaricheremo uno dei nostri di seguirlo, forse ci condurrà da loro».
Roger osservava la scena con gli occhi sbarrati e i nervi a fior di pelle.
Wile Coyote non pareva affatto minaccioso, se non si faceva caso al sangue sullo strofinaccio. A differenza di Halona e Shiriki, che aveva subito catalogato come Arpia Acida e Stronzo Sadico, Roger non riusciva a inquadrarlo. Nonostante i capelli brizzolati, non era in grado di attribuirgli un’età precisa, poteva avere quarant’anni, come sessanta. Faceva il tatuatore, ma non c’era traccia di tatuaggi sul collo e sulle braccia. Il suo sguardo era inespressivo, indecifrabile, metteva Roger a disagio, perché non capiva se era pensieroso, incazzato o semplicemente strafottente. Ed era proprio per questo motivo che gli metteva una paura fottuta addosso. Non sai mai cosa aspettarti da un uomo che non riesci a inquadrare.
Il sospiro di Shiriki interruppe il flusso di pensieri di Roger.
«E del Cucciolo Randagio, invece, cosa ne facciamo?».
Roger si fece piccolo piccolo sul divano, mentre tre paia di occhi si posavano su di lui.
«Quanti anni hai, Cucciolo?», chiese Halona.
«Se-sedici».
«Quindi hai l’età per sapere che nessuno lascia l’incasso della serata incustodito nel registratore di cassa. A questo punto la domanda è… sei idiota come sembri oppure hai preso me per un’idiota?».
«I-io…».
Halona scese dal bancone e lo afferrò per la collottola della maglia. Era molto più bassa di lui, ma riuscì comunque a trascinarlo in piedi col minimo sforzo.
«Sei un tossico, ti si legge in faccia. Sei un tossico disperato in cerca di soldi per la sua dose. Che ne diresti se ti portassi dalla polizia, eh? Scommetto che sei scappato da una casa famiglia».
Roger scosse freneticamente la testa.
«NO, TI PREGO, LA POLIZIA NO!».
«Mettimi nei mie panni», disse Halona. «Cerchi di derubarmi, danneggi la mia proprietà… hai idea di quanto mi siano costate quelle fottute vetrate? Chi cazzo mi risarcirà, eh?».
«Io, ti risarcirò io!».
«Tu?» Con una smorfia schifata, Halona gli diede uno spintone. Lui, che era già instabile sulle gambe, cadde a peso morto sul divano. «Ma se non hai nemmeno i soldi per comprarti la merda con cui ti fai!».
Wile si schiarì la voce.
«Ho sentito che Alcide sta cercando un aiutante per la sua officina».
Shiriki inarcò un sopracciglio.
«Pensi che prenderebbe con sé il primo tossico che passa?».
Wile diede un ultimo tiro alla sigaretta, poi schiacciò il mozzicone nel posacenere.
«Sono sicuro che se Halona glielo chiede gentilmente, accetterà».
Halona e Shiriki si fissarono per un istante, ma questa volta fu lei ad abbozzare un mezzo sorrisetto. Durò solo per una frazione di secondo, però. Poi tornò a concentrarsi su Roger.
«Allora, Cucciolo, che ne pensi? Lavorerai per il nostro meccanico e quello che guadagnerai lo darai a me per risarcirmi dei danni. Questo o la polizia. Decidi tu».
Roger annuì. Tutto, anche essere pestato a sangue, ma non la polizia.
«Sì, va bene. Accetto».
Mezz’ora più tardi, Roger era in auto con l’energumeno tatuato di nome Batista.
Ti accompagnerà lui a casa, aveva detto Halona. Così domani mattina avrai un passaggio per andare a lavoro. Ah, spero che non ti venga l’infelice idea di svignartela nelle prossime ore. I Coyote hanno un buon fiuto. Alla fine li trovano sempre, i pezzi di merda come te.




Atto II


Non erano nemmeno le nove del mattino, quando Halona si fermò davanti all’officina di Alcide, ma c’erano già parecchie motociclette e autovetture parcheggiate sul marciapiede in attesa di ricevere assistenza. Smontò dalla moto e si tolse il casco, proprio mentre Alcide usciva dal garage per andarle incontro con un caldo sorriso. Halona non riusciva proprio a capirlo, quel ragazzo: più lei metteva il broncio, più lui sorrideva.
«Sapevo che eri tu, il rombo della tua Sportster è inconfondibile. Sei qui per la marmitta? Ti dà ancora problemi?».
Halona scosse la testa, dando una pacca al sellino della moto.
«No, tossicchia un po’, ma è normale alla sua età. Questa fottuta caretta è vecchia quasi quanto me».
«Tu non sei vecchia, Halona». Gli occhi di Alcide scivolarono lentamente sul corpo di lei, per poi risalire in fretta. «Il tuo telaio è in ottimo stato».
Halona sbuffò.
«Lo farò scrivere sulla cazzo di torta del mio quarantacinquesimo compleanno».
Lui, ridendo, le fece cenno di entrare.
Faceva insolitamente caldo, quella mattina, per il mese di marzo. Alcide indossava solo una salopette sdrucita e il grasso dei suoi motori. Vedendolo in quello stato, Halona non poté fare a meno di pensare ai commenti delle ragazze della banda, riguardo a quello che si sarebbero volentieri fatte fare da Alcide. Certo, non ci volevano mica dieci decimi di vista per rendersi conto che Alcide era un gran pezzo di marcantonio. Halona lanciò un’occhiata di sottecchi a quelle spalle larghissime e a quei bicipiti tatuati grossi come tronchi. Ne bastava uno, di decimo. Quello sì che era un telaio in ottimo stato!
Alcide la fece accomodare nel suo ufficio, una specie di cubicolo grande a stento per contenere una scrivania, un piccolo schedario e due sedie.
«Quindi, se non alla marmitta, a cosa devo la tua visita?», chiese, sedendosi sulla scrivania e scostandosi i riccioli bruni dal viso. Anche così, Alcide sovrastava Halona in altezza di almeno cinquanta centimetri.
«Mi serve un favore», disse lei.
«Spara».
Halona si incupì.
«Un grosso favore».
Ecco di nuovo il fottutissimo sorriso.
«Ottimo, così sarai in debito con me».


«Ciao, Gina. C’è Wile?».
Il frisé biondo platino che spuntava da dietro la rivista di gossip annuì.
«Sì, è di là con un cliente, ma sta per concludere. Sapevi che la principessa Diana ha deciso di portare con sé il piccolo William nel suo tour ufficiale dell’Australia e della Nuova Zelanda? La regina Elisabetta è incazzatissima».
«Davvero? C’è scritto proprio così? “La regina Elisabetta è incazzatissima”?».
Gina chiuse la rivista e rivolse ad Halona un sorriso tutto labbra.
«Certo che no, ho parafrasato un po’».
«Ah, ecco».
Accanto alla foto di Wile e Gina sulla Harley Davidson, c’era una nuova istantanea. Era stata appiccicata senza cornice, direttamente alla parete, con del nastro adesivo. Sul bordo qualcuno aveva disegnato un cuoricino con un pennarello rosso e scritto una data: 28 febbraio 1983. Halona aggrottò la fronte.
«Quello è il pupo?».
Gina seguì lo sguardo di Halona e i suoi occhi presero immediatamente a brillare.
«Sì, non è un amore il mio nipotino?».
Un cosino rosa con un ciuffo di lanuggine nera sulla testa e una faccia rossa e incazzosa. Sì, proprio un amore.
«Come l’hanno chiamato?».
Il viso di Gina si adombrò all’improvviso.
«Come il padre di lei. Wile c’è rimasto malissimo, ti consiglio di non tirare fuori l’argomento».
«Ricevuto».
Da dietro la tenda, udirono Wile congedare il suo cliente. Subito dopo, un punk con la cresta da moicano rosa shocking e la faccia ricoperta di piercing uscì dal laboratorio. Sul suo bicipite asciutto spiccava un bel teschio nuovo fiammante. Halona ne approfittò per andare a scambiare due parole con Wile.
«Ehi, Halona, che ha detto Alcide?».
Wile, col fedele mozzicone di sigaretta fumante tra le labbra, stava ripulendo le attrezzature. Le boccette di colore erano ancora aperte, sparse qua e là sul piano di lavoro.
«Ha accettato. Batista dovrebbe portargli il Cucciolo proprio in questo momento. Invece, novità sull’arancia spremuta di ieri notte?».
Wile scosse la testa, mentre buttava i guanti in lattice nel cestino della spazzatura.
«L’ho fatto seguire da Jax, ma niente, un buco nell’acqua. A quanto pare non è così stupido come pensavamo. Temo che dovremmo trovare un altro modo per arrivare a quegli spacciatori».
L’imprecazione di Halona venne bloccata sul nascere da Gina, il cui vistoso frisé faceva capolino da dietro la tenda.
«Halona? C’è Alcide al telefono per te. Dice che è urgente».
E adesso che cazzo voleva? Ci aveva ripensato? Seguì Gina fino al bancone e prese la cornetta.
«Che è successo?», abbaiò.
«Il ragazzo non si trova».
Halona impiegò due secondi interi per capire il senso delle sue parole.
«Che cazzo stai dicendo? Batista doveva prelevarlo in quella fogna in cui vive e portarlo da te! Dov’è Batista? Perché non mi ha chiamato lui?».
«È qui. Ha preferito passare prima da me, perché l’officina era più vicina a dove si trovava».
Sì, certo. In realtà si stava cagando sotto all’idea di avere a che fare con una Halona rabbiosa.
Porca puttana, lo sapevo io che dovevo occuparmene alla vecchia maniera!
«Va bene, chiedi a Batista come faccio a trovare la tana del Cucciolo. Anzi, passamelo direttamente, così facciamo prima».


La fogna (perché non c’era proprio altro modo per definirla) in cui viveva il Cucciolo era una roulotte abbandonata nei pressi del deposito di uno sfasciacarrozze. Probabilmente era così malmessa che nemmeno il proprietario della discarica aveva voluto averci nulla a che fare.
Vista da fuori, la roulotte pareva un grosso scatolone ricolmo di roba, che dopo aver passato troppo tempo sotto la pioggia ti si scioglie tra le mani se solo provi a toccarlo. Le pareti erano gonfie e marce di umidità. Il tetto si era imbarcato al centro in maniera preoccupante. In mancanza di vetri, le finestrelle erano state tappate con fogli di giornale o cartone. Inoltre, non avendo più le ruote a disposizione, l’intera roulotte poggiava su quattro blocchi di cemento. Tutto intorno al mezzo, poi, cresceva ogni tipo di erbaccia, che nascondeva a fatica i cumuli di immondizia accatastati dove capitava.
Halona si chiese come cazzo si potesse vivere in un porcile simile.
Bussò alla porta un paio di volte, ma ovviamente non ricevette risposta. Si disse che, considerati tutti i grattacapi che quel piccolo stronzetto le stava costando, aveva rispettato a sufficienza il codice delle buone maniere. Con un calcio sfondò la porta e, senza troppe cerimonie, entrò.
L’interno faceva ancora più schifo. Cazzo, ma ci pisciavano e cagavano lì dentro? Si tappò il naso con la manica della camicia, il puzzo era insopportabile. Forse c’era un topo morto, dentro a uno degli stipetti diroccati. Si mosse lentamente, per non inciampare tra le cianfrusaglie che tappezzavano il pavimento: vestiti sporchi, cibo avariato, immondizia, scarpe, siringhe. In fondo, su quello che un tempo doveva essere un lettino da roulotte, era disteso il fattone di cui Batista le aveva parlato e al quale non era riuscito a estorcere alcuna informazione. Aveva le braccia bucherellate di fresco.
«Ehi, cazzone!». Halona gli diede uno scossone. «Ehi, dico a te!».
«Umpf».
Lo schiaffeggiò sul viso due volte.
«Dov’è il tuo amico? Dov’è Roger?».
«Umuhmphf».
Halona ebbe appena il tempo di scostarsi, prima che il ragazzo si rivoltasse sul fianco e le vomitasse sugli stivali. Dopo di che, perse nuovamente i sensi. Era chiaro che le sarebbe stato di aiuto come un cazzo moscio, così Halona decise di guardarsi un po’ intorno.
Ben presto individuò il punto in cui il Cucciolo si rannicchiava per dormire. Era un bozzolo di coperte incastrato tra il cucinotto e il cesso. Con una smorfia schifata, Halona ci rovistò dentro. Cartacce, siringhe, una merendina scaduta, un laccio emostatico, un preservativo usato. Ancora cartacce. Tra i fogli di giornale e i tovagliolini provenienti da qualche fast food, spiccava un foglio rosa accartocciato. Halona lo appiattì per bene, scoprendo che si trattava del volantino per un corso di scrittura che sarebbe iniziato da lì a un mese in un liceo pubblico di Williamsburg. Il Cucciolo non sembrava affatto il classico secchione che passa la vita sui libri. Come c’era finito lì, quel volantino? Forse era il caso di dare un’occhiata al posto.
Si mise il volantino in tasca e finalmente fu libera di uscire da quella fottuta fogna.


Roger stava dando fondo al suo pacchetto di Fonzies, quando un ragazzino si sedette accanto a lui sulla panchina della fermata del pullman. Aveva uno zaino con sé, probabilmente era appena uscito da scuola. Rimase in silenzio per un po’, facendo finta di consultare il cartello degli orari. Intanto Roger continuò a pescare distrattamente patatine dal pacchetto, guardando di tanto in tanto la strada, come se stesse aspettando davvero l’arrivo del prossimo pullman.
«Quanto per due grammi?», bisbigliò all’improvviso il ragazzino.
Roger mandò giù l’ultima patatina e prima di rispondere si leccò tutte e cinque le dita.
«Duecento».
«Cosa? Il mese scorso…».
«Il prezzo non si discute, bello».
Un pullman si fermò davanti alla fermata, dal quale scesero una vecchina e una mamma con pargoletto lagnoso al seguito. Roger prese a fischiettare, il ragazzino finse di cercare qualcosa nello zaino, mentre la mamma rimproverava il figlioletto per i suoi capricci e la vecchina chiedeva indicazioni all’autista. Non appena il pullman fu ripartito e mamma, bimbo e vecchia si furono tolti dalle palle, il ragazzino seduto al fianco di Roger sospirò.
«Okay», disse rassegnato.
Tirò fuori il malloppo, contò velocemente le banconote e gliele passò guardandosi le spalle con fare circospetto. Roger mise i soldi in tasca, prese il pacchetto ormai vuoto di Fonzies e lo buttò nella pattumiera lì vicino. Prima di tornare alla panchina, afferrò al volo una lattina di Coca Cola apparentemente abbandonata tra i rifiuti. Estrasse dalla lattina una bustina e la passò al ragazzino, concludendo così la transizione.
Non erano passati nemmeno dieci minuti, che qualcun altro prese nuovamente posto al suo fianco. Roger si sfregò mentalmente le mani. Continuando di quel passo e con un po’ di buona volontà…
«Non posso dire di essere sorpresa. Anche se quando ho trovato nella tua tana il volantino di quella scuola lì di fronte, ingenuamente avevo pensato che volessi iscriverti».
Il cuore di Roger fece una capriola.
«Tu… come hai… che… volantino?».
Halona inarcò un sopracciglio.
«Prendi un bel respiro profondo, coglione».
Roger non pensò nemmeno per un istante di disobbedire. Inspira. Espira. Halona parve soddisfatta.
«Te lo avevo detto che i Coyote hanno buon fiuto, no?».
Roger non trovò niente di meglio da fare che annuire. Halona lo guardava come se fosse una merdina.
«Noi avevamo un patto. Stavi cercando di fottermi?».
Roger scosse la testa, con gli occhi sgranati. L’idea di fotterla, in ogni senso, lo terrorizzava più di Halona stessa.
«No, no, ci sarei andato, in quella officina, te lo giuro, solo che prima…».
«Solo che prima hai sentito il bisogno di vendere merda sul territorio dei Coyote, avendo preso un impegno con un Coyote e ben sapendo che ai Coyote gli spacciatori stanno sul cazzo?».
Certo che messa così sembrava proprio una pessima idea.
«Io…».
«Sta’ zitto e ascolta», sbottò Halona. «Puoi raccontare a me, con le buone, tutto quello che sai sulla gente che ti ha dato la roba da vendere; oppure puoi raccontarlo a Wile, con le cattive. Ancora una volta spetta a te la scelta, Cucciolo».
Roger prese a torturarsi le mani sudaticce.
«Non posso, tu non capisci… Sono già nei guai per i soldi che devo loro. Mi ammazzeranno!».
«Quali soldi?».
«Mi hanno consegnato cinquanta grammi di meth da vendere, ma non ho resistito e me ne sono fumato un po’. Non pensavo fossero così fiscali! Adesso devo rimediare i soldi per ripagarli o mi faranno fuori. Per questo motivo ieri notte mi sono intrufolato nel Coyote Club, ero disperato! Mi hanno già avvertito una volta, se anche alla prossima consegna mancherà qualcosa dal gruzzolo…».
Halona si coprì il viso con le mani.
«Sei proprio un idiota, Cucciolo. Ma ti prometto che se parlerai, nessuno ti torcerà un capello».
Roger gli rivolse un’occhiata scettica.
«Dovrei fidarmi della tua parola?».
Lei incrociò le braccia ossute sotto al seno e lo guardò come per dire “Mi stai prendendo per il culo?”.
«Hai danneggiato il mio locale e sei in debito con me, nonostante ciò sei ancora vivo. E se questo non dovesse bastarti… da morto non potresti mai risarcirmi. Allora?».
Roger avrebbe voluto mandarla a ‘fanculo (non sul serio, perché non se lo poteva permettere, solo per sfogare un po’ lo stress), ma non ne ebbe il fegato.
«Non mi sembra che tu mi abbia dato molta scelta».
Halona parve sul punto di sorridere, ma alla fine mantenne il broncio.
«No, infatti».


«Messicani, hai detto?».
Halona annuì. Wile rimase in silenzio, fissando il suo boccale di birra scura doppio malto con aria pensierosa. Dal posacenere, l’ultimo dei dieci mozziconi di sigaretta mandava ancora fievoli segnali di fumo.
«Non sono veri messicani, però», precisò lei. «Si fanno chiamare così perché il cuoco ha imparato a cucinare in un laboratorio del Messico. A occuparsi della distribuzione sono in due: prendono dei tossici come quel Cucciolo lì e in cambio di qualche dose gratis, li mettono a spacciare davanti alle scuole di Williamsburg».
Il Coyote Club aveva aperto da poche ore, quindi il locale era ancora semi-deserto. Una manciata di bikers stava ingannando il tempo intavolando una partitella amichevole a poker. Shiriki si era unito al gruppo per elargire consigli da giocatore incallito, ma in realtà non faceva altro che incasinare di proposito la partita: Shiriki amava le risse da bar. Roger era seduto a un tavolo poco distante dal bancone, con una tazza di cioccolata tra le mani. Si era rannicchiato su se stesso, sperando probabilmente che Wile non lo notasse. La nuova cameriera gli faceva compagnia e cercava di tirargli su il morale con il suo allegro chiocciare.
«Strano il destino. Spremiamo arance per cercare informazioni su di loro e all’improvviso le informazioni ci piovono dal cielo», commentò Wile. «Dove li hanno trovati i soldi per mettersi in proprio?».
«Ho chiesto in giro. Il loro campo di specializzazione prima era la rapina».
Wile bevve un sorso.
«Di quante persone stiamo parlando?».
«Il Cucciolo ha visto solo i due che si occupano della distribuzione. Con il cuoco sono tre sicuri, ma potrebbero essercene degli altri».
«E dove li troviamo?».
Uno dei bikers rovesciò il tavolo e tirò un pugno sul naso del suo compare, accusandolo di aver barato. Shiriki si allontanò soddisfatto, probabilmente per godersi lo spettacolo a debita distanza. Prima, però, fece una piccola sosta al tavolo di Roger, per sussurrare qualcosa all’orecchio della cameriera. Lei ridacchiò come una cretina. Halona serrò le labbra, ma non commentò.
«Che fine ha fatto l’altra cameriera, Giglio Tigrato?», domandò Wile.
«L’ho licenziata stamattina, troppo zelante sul lavoro».
Wile scosse la testa. «Dove li troviamo?», chiese di nuovo, per riportare la discussione sui Messicani.
«Questo il Cucciolo non ha saputo dirmelo, il punto di incontro per la consegna era sempre diverso», rispose Halona. «E non possiamo usarlo come esca, potrebbero averci visto parlare alla fermata del pullman. Non voglio correre rischi, gli ho promesso che lo avrei protetto».
Wile abbozzò un sorriso.
«Promessa impegnativa…».
«Dobbiamo trovare un posto sicuro in cui portarlo».
Wile annuì, sempre con quel mezzo sorrisetto.
«Sono d’accordo».
Halona lo fulminò con un’occhiataccia.
«Si può sapere che cazzo hai da sorridere?».


«Sai, Amore Mio, quando ti ho chiesto se potevamo tenere il piccolo Cucciolo Randagio, non parlavo seriamente».
«Chiudi il becco e scansati».
Halona superò Shiriki e aprì la porta di casa. Roger li seguiva proprio come un cucciolo randagio raccattato sul ciglio della strada: con la coda in mezzo alle gambe. Si fermò sullo zerbino, indeciso sul da farsi. Forse poteva ancora darsela a gambe, sapeva correre veloce quando voleva.
Halona si voltò e lo inchiodò con lo sguardo.
«Allora? Muoviti, non ho tutta la notte!».
Troppo tardi. E poi le sue gambe traballavano. E non mangiava un pasto decente da due giorni. Roger prese un respiro profondo ed entrò.
L’interno dell’abitazione era asciutto, accogliente e non puzzava. Praticamente il paradiso in confronto alla tana in cui aveva dormito negli ultimi anni. Dall’ingresso si accedeva sulla destra alla cucina e sulla sinistra al salotto. Di fronte alla porta d’ingresso c’era una rampa di scale, che portava alle camere da letto.
«Non stare lì impalato», abbaiò Halona.
La seguì su per le scale il più velocemente possibile, per non indispettirla.
«Qui c’è il bagno», disse lei, indicando la prima porta a sinistra. «Voglio che ti lavi prima di andare a dormire. Puzzi come un cane rognoso». Un bagno, un vero bagno. Roger non poteva credere in tanta fortuna. «Questa è la camera da letto mia e di Shiriki, se ci entri, ti ammazzo», spiegò Halona, continuando il tour della casa. «E questa è la camera degli ospiti, la tua camera per i prossimi giorni. Entra pure, io vado a prendere degli asciugamani puliti e a cercare un cambio d’abiti che ti vada bene».
Mentre Halona spariva dietro una porta, Roger indugiò con la mano sulla maniglia. Gli sembrava tutto così inverosimile. Fino a ventiquattro ore prima aveva dovuto lottare con Grimaldello per accaparrarsi un angolino di coperta in più e adesso aveva una camera tutta per sé?
Aprì la porta e rimase senza fiato. Probabilmente era piccola, ma a lui parve enorme. Su quel letto a una piazza potevano dormici tre persone. Anche quattro, se ci si stringeva un po’. Per non parlare dell’armadio… cazzo, lì ci si poteva nascondere come minimo in sei. E la finestra? Con tutta la luce che sarebbe entrata al mattino, sarebbe rimasto accecato per ore.
«Lo so, non è un granché».
Halona era riapparsa alle sue spalle, con un mucchio di roba tra le braccia.
«Scherzi? Non dormo in una camera da letto vera da… da sempre».
Halona lo fissò per qualche istante in silenzio, poi sbuffò e si fece largo per entrare nella camera.
«Ti ho preso anche una coperta e delle lenzuola. Non sono la tua cazzo di cameriera, quindi il letto te lo fai da solo», disse posando il malloppo sul materasso spoglio.
«Nessun problema». Roger fece per sedersi sul materasso, ma Halona si schiarì la voce e lui capì immediatamente l’antifona. «Prima mi do una ripulita, ricevuto».
Rimase sotto la doccia per un’ora. Sapeva che non era educato, ma lui non faceva una doccia da tempi immemorabili e quindi vaffanculo. L’acqua bollente e la spugna non si limitarono a ripulirlo dallo sporco, fecero molto di più. Grattarono via una crosta di freddo, fame e stenti, permettendo così alla pelle di scrollarsi tutto quel peso di dosso e tornare a respirare liberamente.
Fuori dal bagno, Roger incontrò Shiriki, che lo salutò col solito sorriso a mezzaluna.
«Il Cucciolo Randagio si è trasformato in un’adorabile palla di pelo profumata. Molto bene».
Niente da fare, quel tizio continuava a stargli terribilmente sul cazzo.
In camera da letto qualcuno aveva lasciato un sandwich e un bicchiere di latte sul comodino.
«Non farci l’abitudine, però».
Roger chiuse meglio l’accappatoio.
«Dovresti smetterla di apparire così alle spalle della gente, salto in aria ogni dannatissima volta!».
In tutta risposta Halona allungò una mano, come una cameriera che si aspetta la mancia. Roger aggrottò la fronte.
«Cosa?».
«Non fare il finto tonto. La roba. Dammela. Non voglio quella merda in casa mia».
«Non ce l’ho».
Halona inarcò un sopracciglio.
«Dico sul serio, ho venduto l’ultima dose stamattina».
Halona rimase davanti alla porta, sempre con la mano protesa in avanti. Roger sospirò.
«D’accordo».
Frugò nelle tasche dei vestiti smessi e le consegnò tre bustine. Lei non si mosse.
«È tutta qui, te lo giuro».
Silenzio.
«Vaffanculo, Halona!».
Estrasse due bustine da sotto le suole delle scarpe e gliele mise in mano insieme alle altre. Halona gli diede un buffetto sulla testa, proprio come si fa con un bravo cuccioletto che ha obbedito al padrone.
«Farò finta di non aver sentito quel vaffanculo. Adesso mangia. E poi a letto. Domani ti aspetta una giornata di onesto lavoro in officina. Ti accompagno io, giusto per essere sicuri».
Halona si era quasi chiusa la porta alle spalle, quando Roger sentì il bisogno di dirle un’ultima cosa.
«Grazie… anche se non so perché lo fai».
«Te l’ho detto, da morto non puoi risarcirmi».
Lui si lasciò cadere sul materasso, il tremore alle gambe si era espanso alle mani. Aveva una gran voglia di farsi, ma tenne duro.
«Mangia, con lo stomaco pieno andrà meglio», disse Halona.
Non le sfuggiva proprio niente, a quella lì.


«Si troverà bene qui».
Il Cucciolo stava passando il mocio sul pavimento, dove si era rovesciata una grossa quantità di olio per motore. Aveva la fronte aggrottata, come se da quel mocio dipendesse la sua stessa vita.
«Se dovesse succedere qualcosa…».
«Ti chiamerò immediatamente, ovvio».
Halona annuì.
«Grazie».
Il sorriso caldo di Alcide arrivò puntuale come un orologio svizzero.
«Niente grazie. Sei in debito con me, ricordi?».
Questa volta portava una canottiera sotto la salopette. Le braccia incrociate al petto mettevano in risalto i bicipiti muscolosi, sui quali guizzavano due lupi dagli occhi gialli. Halona fu costretta a distogliere lo sguardo, per non fare la figura della cogliona.
«Be’, se c’è qualcuno che ti dà fastidio… posso occuparmene io».
Alcide rise.
«Veramente avevo in mente qualcosa più sul classico».
«Tipo?».
«Una cena».
«Una cena?».
«Sì. Una cena… Tu ed io. Da soli».
Halona non riusciva a credere alle sue orecchie. O ai suoi occhi, visto il modo in cui lui la stava guardando adesso. Come un lupo. Affamato.
«Lo scarico dei motori ti ha annebbiato il cervello, forse? Sono sposata».
Il sorriso di Alcide si raffreddò appena appena.
«Halona…».
«E ho quindici anni più di te, cazzo. Sai quante della banda si farebbero sbattere da te senza fare complimenti? Aspettano solo un tuo fischio. Perché non vai a rimorchiarne una come fanno tutti gli uomini normali?».
Il sorriso adesso era gelido.
«Come fa Shiriki, vuoi dire?».
Lui forse era un lupo, ma Halona era pur sempre una Coyote. Gli tirò un pugno sul naso senza pensarci due volte. Nonostante la sua stazza, Alcide fu costretto a indietreggiare per il contraccolpo.
«Vai a farti fottere, Alcide».


«Perché non fai una pausa? È da quando sei arrivato che non ti fermi un attimo. È quasi ora di pranzo».
«Ce la faccio».
«Guarda che il lavoro non scappa. Ci sarà ancora, questo pomeriggio. E domani. E dopo domani… e così via fino alla fine della settimana».
Roger sbuffò e posò lo strofinaccio con il quale per tutta la mattina non aveva fatto altro che ripulire da olio vecchio, grasso nero come petrolio e sporco pezzi di motori di cui ignorava la funzione, figuriamoci il nome. Sudava come un porco e aveva il fiatone neanche avesse corso senza sosta per dodici ore di fila. Provava uno strano formicolio, come se milioni di formiche stessero zampettando sotto la sua pelle, con le loro minuscole zampette che tic tic tic tic tic lo punzecchiavano dall’interno e gli facevano venire voglia di grattarsi con della carta vetrata. L’unico modo per non pensarci era stato darci sotto con l’olio di gomito. Adesso però cominciava a vederci doppio, e non dalla fame.
«In effetti mettere qualcosa sotto i denti» O dare un tiro alla pipa «non mi farà male».
Alcide annuì.
«Vai, dietro l’angolo c’è una tavola calda che fa un ottimo cheesebuger. Di’ che ti mando io. Ci vediamo qui tra mezz’ora?».
Roger abbozzò un sorriso tremolante.
«Sicuro».
Poteva farcela, mezz’ora era più che sufficiente. Aveva ancora un paio di dosi, al sicuro nella tana. Sì, un tiro, solo un tiro, per calmare il tremore. Era così stanco di sentirsi stanco, senza forze, le braccia e le gambe che pesavano come macigni. Un tiro e sarebbe stato capace di sollevare una moto con una mano sola. Certo, avrebbe tradito un’altra volta la fiducia di Halona, ma con un po’ di fortuna non lo avrebbe mai saputo. Occhio non vede, cuore non duole. Era così che faceva il detto, no? Quello stronzo di Shiriki l’aveva trasformato in un’arte, con le sue sciacquette. Farsi un tiro non era certo peggio che fare le corna alla propria moglie, giusto?
Rinvigorito da quei pensieri, Roger aveva girato l’angolo, superato la tavola calda indicatagli da Alcide ed era già salito sul primo pullman che aveva beccato. Il resto del tragitto però non fu così rapido come aveva sperato. Il pullman rimase impantanato nel traffico per più di dieci minuti. Alla fine fu costretto a chiedere all’autista di lasciarlo scendere e farsi gli ultimi tre chilometri a piedi. Più si avvicinava alla meta, più aumentava la sua smania. Erano trascorsi già venti minuti, quando la tana comparve all’orizzonte come un miraggio. Si fiondò sulla porta come un invasato.
«Ehi, Grimaldello, sono io. Prepara la pipa, che ho fretta!».
Nessuna risposta. Fattone del cazzo.
Messo il primo piede dentro la roulotte, quel poco che restava nello stomaco della colazione minacciò di risalire l’esofago insieme a un bel po’ di bile.
Passi un giorno in una casa pulita e già non reggi la puzza della tua vecchia tana? Ti sei proprio rammollito.
Ma quando i suoi occhi si posarono sul fondo della roulotte, dove di solito dormiva Grimaldello, all’improvviso Roger capì perché il puzzo era diventato così insopportabile. Questa volta non riuscì a trattenersi e vomitò sul pavimento anche l’anima.


«Alcide?».
«Ehi, Halona, scusa se ti chiamo dopo quello che è successo stamattina, ma avevi detto che…».
«Che è successo al Cucciolo?».
«L’ho mandato in pausa pranzo e non è tornato. Sono solo dieci minuti di ritardo, forse è paranoia. Ma mi aveva detto che sarebbe andato alla tavola calda qui vicino e lì nessuno l’ha visto».
«Merda!».
«Mi spiace, Halona. Ho sbagliato a fidarmi, non dovevo lasciare che andasse da solo».
«Non preoccuparti, so benissimo dove si trova».


Roger era raggomitolato sul suo vecchio giaciglio, la lingua asciutta e rasposa come feltro per via del vomito. Non aveva il coraggio di sollevare lo sguardo e di incontrare gli occhi rivoltati di Grimaldello. Aveva sempre saputo che un giorno sarebbe tornato alla tana e lo avrebbe trovato morto su quel lettino mezzo sfondato. Ma se lo era sempre immaginato con un laccio emostatico intorno al braccio e una siringa tra le dita. Non sventrato come un maiale.
Ricacciò indietro le lacrime. Piangere non lo avrebbe fatto sentire meglio. Ciò di cui aveva bisogno era farsi. Doveva solo trovare il coraggio di tirarsi in piedi e raggiungere la sua dose, che era nascosta sotto un’asse di compensato, proprio ai piedi del lettino di Grimaldello.
«Roger, esci fuori, sappiamo che sei lì dentro!».
«Esci, o ti facciamo fare la fine di quel fattone del tuo amico».
Probabilmente la reazione appropriata sarebbe stata imprecare come un indemoniato, tremare di paura, tentare di scappare. Roger invece rimase accucciato lì dov’era, esaurito come una batteria scarica. Non era nemmeno sorpreso. Chi altri avrebbe mai potuto avere interesse a uccidere Grimaldello, se non quegli stronzi dei Messicani? Chissà da quante ore erano appostai accanto alla roulotte in attesa del suo ritorno. Forse a un certo punto si erano stancati di aspettare e avevano cercato di far parlare Grimaldello.
«Guarda che non ci mettiamo niente a buttare giù quella specie di cuccia pulciosa in cui vivi».
«Roger, avanti, comportati da uomo e affronta le conseguenze delle tue cazzate!».
Cazzate, infatti. Qualcuno gli aveva offerto una mano per uscire dal letamaio e lui che faceva? Si rituffava nella merda senza nemmeno togliersi le scarpe. Lo avrebbero ucciso comunque, con le buone e con le cattive, non si faceva illusioni. Ormai era spacciato, quindi che senso aveva prolungare l’agonia?
Si tirò in piedi con grandissimo sforzo, evitando come la peste gli occhi opachi e vitrei di Grimaldello, e si diresse alla porta.
Krazy8 e Disel erano lì, con le pistole spianate.
«Scendi i gradini, lentamente».
«E mani ben in vista».
Obbedì senza dire nulla, guardando dritto di fronte a sé. Coprì la breve distanza che li separava, fin quando Krazy8 non gli fece cenno di fermarsi.
«In ginocchio, Roger».
Disel gli puntò la pistola alla fronte.
«Prima hai cercato di fregarci, poi di venderci ai Coyote. Ti facevo più furbo, sai?».
«Non ho mai detto di essere furbo».
Krazy8 rise.
«La morte ti rende spiritoso, eh?».
La risposta di Roger venne sopraffatta dal rombo di una moto. Krazy8 e Disel si voltarono proprio mentre una Harley Davidson Sportster spuntava fuori da dietro la curva a tutta velocità. Puntarono le loro pistole, pronti a sparare, ma il motociclista aveva già tirato fuori la sua pistola. Due colpi precisi: Krazy8 e Disel finirono a terra, feriti rispettivamente al braccio e alla gamba. La moto inchiodò proprio a pochi metri da Roger. Da dietro la visiera del casco, comparve la faccia incazzata di Halona.
«Che cazzo aspetti? SALI!».
Fu come svegliarsi di soprassalto da un incubo, l’istinto di sopravvivenza tornò a funzionare. Roger saltò sul sellino posteriore e la moto sfrecciò via come un fulmine.


«Che cazzo ti dice la testa, eh?».
«Sono in crisi di astinenza, non ho resistito».
«Ti ho forse dato il permesso di parlare?».
«Hai fatto una domanda!».
«Era una cazzo di domanda retorica, idiota!».
Roger infossò la testa nelle spalle, mentre Halona continuava a sbraitare avanti indietro per la stanza. Per fortuna Shiriki non era in casa, ci mancavano solo lui e quel cazzo di sorrisetto da stronzo sadico.
«Ma la vera idiota qua sono io. Con miliardi di persone che mangiano e cagano su questo fottutissimo pianeta, come è possibile che a me capitino solo quelle che mi tradiscono sempre e comunque? Prima Shiriki e adesso tu, piccolo pezzo di merda di un tossico».
Roger sussultò. Halona si fermò per riprendere fiato e gli rivolse un’occhiata perplessa.
«Che c’è, pensavi che non sapessi che mio marito si scopa qualsiasi essere dotato di due tette e una vagina? Vedi di ficcartelo bene in quella zucca vuota che ti ritrovi, così magari la prossima volta ci penserai due volte prima di rischiare il collo nel tentativo di fregarmi: Io. So. Sempre. Tutto».
«Io…».
Halona lo zittì con un’occhiata. Poi prese un respiro profondo e si lasciò cadere a peso morto sul letto, accanto a Roger.
«Mi dispiace per il tuo amico», disse improvvisamente calma.
Roger rimase in silenzio per un po’, non sapeva bene che dire, si strinse nelle spalle.
«Non era un granché come amico, appena gli voltavo le spalle tentava di rubarmi la roba e i soldi. Però mi ha insegnato un sacco di cose. E mi ha dato un tetto sopra la testa. Un tetto che avrebbe potuto crollarmi addosso da un momento all’altro, è vero, ma pur sempre un tetto».
«La tua famiglia che fine ha fatto?».
«I miei sono due drogati. Un giorno si sono quasi ammazzati a vicenda, così mi hanno affidato ai servizi sociali. Non li ho mai più rivisti. Forse alla fine ci sono riusciti davvero ad ammazzarsi».
«E come ci sei finito in quella roulotte?».
«Sono stato dato in affidamento tre o quattro volte, ma non ha mai funzionato. Quando sono diventato troppo grande per fare pena alla gente, mi hanno posteggiato in una casa famiglia. Alla fine ho deciso che tanto valeva starsene per conto proprio, almeno potevo fare il cazzo che volevo, no? Così sono scappato». Roger lanciò un’occhiata di sottecchi ad Halona. «Perché è questa l’unica cosa che conta, nella vita. Essere liberi di fare quello che si vuole».
Lei inarcò un sopracciglio.
«Essere schiavo di quella merda con cui ti fai la chiami libertà? Se fossi stato veramente libero di scegliere, oggi non avresti rischiato di lasciarci le penne».
Roger arrossì di rabbia.
«E invece tu? Sei meglio tu? Puoi fare il cazzo che ti pare. Sei forte, metti paura alla gente, tutti ti rispettano. Potresti mandarmi a cagare. Potresti mandare a cagare anche Shiriki e nessuno si permetterebbe di mettere becco. E allora perché non lo fai? Perché non scegli qualcun altro?».
Halona guardava dritto di fronte a sé. Lo sguardo perennemente imbronciato e la fronte corrugata.
«Certe persone non si scelgono, Cucciolo. Certe persone ti capitano addosso come una cagata di piccione sulla testa. Quando ho detto , sapevo chi stavo sposando».
«Sì, ma perché lo hai sposato?».
Per la prima volta, Roger vide Halona sorridere.
«A parte Wile, che è come un fratello e non conta, Shiriki è l’unico che non ha paura di me».
Roger roteò gli occhi, tutto si sarebbe aspettato ma non una cazzata simile.
«Nemmeno Alcide ha paura di te, se è per questo».
Halona raddrizzò la schiena e il sorriso venne immediatamente sostituito dal broncio.
«Che cazzo c’entra Alcide, adesso?».
«Niente, era tanto per dire!».
«Wile dice sempre che se non ha niente di intelligente da dire, preferisce stare zitto. Vedi di prendere esempio».
Halona fece per alzarsi, ma Roger la trattenne per un braccio. L’occhiata che lei gli rivolse chiarì in modo inequivocabile cosa pensasse del contatto fisico non richiesto. Roger ritrasse la mano come scottato.
«Conosco un altro ragazzo che spaccia per i Messicani. Forse potreste usare lui per arrivare a loro».
Halona assunse un’espressione sospettosa.
«E perché non l’hai detto ieri?».
Roger prese a torturarsi le mani.
«Perché ieri loro non avevano ucciso Grimaldello e tu non mi avevi salvato la vita».




Atto III


«Sei ancora arrabbiata con me, Amore Mio?».
«Vai a cagare».
«Lo prenderò per un sì».
Wile aveva deciso di pedinare il ragazzino che, secondo il Cucciolo, avrebbe potuto condurli dai Messicani. Il pedinamento proseguiva già da una settimana, ma ancora non aveva dato alcun risultato. Shiriki si era proposto per il primo turno di quella sera. Dato che tre spilungone della banda si erano subito offerte volontarie per unirsi a lui (chissà in quanti modi, luoghi e laghi), Halona si era vista costretta a fargli compagnia. Fino ad ora il ragazzino non aveva fatto altro che spacciare merda, farsi di merda e mangiare merda di fast food. Di quel passo Halona lo avrebbe ucciso prima che potesse rivelarsi davvero utile alla causa dei Coyote.
«Volevo solo…».
«Non ho voglia di parlarne Shiriki».
Nell’abitacolo cadde il silenzio. Halona beveva un frappè alla fragola, Shiriki invece tamburellava le dita sul cruscotto dell’auto, lanciandole di tanto in tanto qualche occhiata di traverso.
«Volevo solo farti una domanda».
Ecco che ricomincia! Halona roteò gli occhi. Il frappè non era sufficiente per reggere le sue stronzate, avrebbe fatto meglio a comprare una bottiglia di tequila.
«Ti ho mai chiesto di essere diversa da come sei?», continuò Shiriki.
«Risparmiami la tua cazzo di filosofia, per favore».
«Sii gentile, Amore Mio, e rispondi alla mia domanda».
Halona sospirò.
«No, non l’hai mai fatto».
Shiriki si strinse nelle spalle.
«E allora perché lo pretendi da me?».
Il cartone di frappè, vuoto, finì scaraventato sul cruscotto.
«Non cominciare con le tue stronzate, non ho mai preteso nulla del genere, lo sai».
«Però sei arrabbiata con me!».
Halona diede un pugno al volante.
«Porco cazzo, Shiriki! Ti ho accettato così come sei. Avrò almeno il diritto di incazzarmi?».
«Amore Mio, tu la prendi troppo sul personale. Il fatto è che esistono tante passioni». Il sorrisetto di Shiriki, come sempre, aveva mille sottointesi. Nel caso specifico preannunciava una puttanata stratosferica. «Il pittore dipinge, il musicista compone musica… Io ho la passione per le belle ragazze. Per me sono una ragione di vita, capisci? Se mi impedisci di vivere la mia passione, mi tarpi le ali, mi sento come un pesce in rete. Lo scultore ama scolpire e crea opere d'arte. Quando sono con un’altra, non ti sto tradendo, sto creando arte. Andare con le altre ragazze è un’arte per me, io sono un artista. Non c’è niente di personale».
Halona fissò Shiriki in silenzio, dritto negli occhi, con un sopracciglio inarcato.
«Sai qual è la cosa tragica, Shiriki?».
Lui scosse la testa.
«Che tu ci credi sul serio a queste stronzate». Halona tornò a seguire con lo sguardo il ragazzino, che stava passando una bustina a una puttana. «Se non ti avessi sposato, ti avrei ammazzato già da tanto tempo».
Shiriki annuì.
«Ho sempre pensato che sarebbe stato così per noi, fin dalla prima volta che siamo stati insieme. Con questa donna finisce che mi ammazza o che me la sposo. Ho pensato proprio questo. E anche che usavi la bocca come se le labbra non fossero tue. Per fortuna alla fine ci siamo sposati».
Halona si lasciò sfuggire una mezza risata.
«Be’, non è detto che una cosa escluda l’altra».
Il ragazzino, nel frattempo, si era chiuso dentro una cabina telefonica e stava parlando con qualcuno. Dopo qualche minuto, riagganciò la cornetta e salì in auto.
Halona mise in moto.
«Spero tanto che non ci porti ad un altro fottuto fast food, questa volta».


«Avanti, che aspetti?».
«Cazzo, Cucciolo, non mettermi fretta».
Abbassare la cresta per bussare alla porta di Alcide si stava rivelando una delle cose più difficili da fare, tra quelle che le erano capitate negli ultimi anni. Il che era tutto dire, considerato che negli ultimi anni aveva sparato con esiti più o meno mortali a diverse persone. Ma Alcide era l’unico volto conosciuto di cui il Cucciolo si fidava, avendo continuato a lavorare nella sua officina per tutta la settimana. Certo, non era un membro a tutti gli effetti della banda, ma dato che il Cucciolo era incazzato nero per essere stato messo da parte nel momento clou, affidarlo a un biker burbero e incazzoso non le sembrava la mossa più sensata.
Finalmente Halona riuscì a poggiare l’indice sul fottuto pulsante del fottuto campanello, ma quando la porta si aprì, si pentì amaramente di averlo fatto.
«Uow, amico, vedi di coprirti un po’, non siamo mica a uno spettacolo dei Village People!».
Il Cucciolo spinse Alcide di lato ed entrò con passo furibondo nel suo appartamento senza nemmeno chiedere il permesso. Alcide lo seguì con lo sguardo, mentre un grosso punto interrogativo lampeggiava sulla sua faccia. Punto interrogativo che rivolse subito ad Halona, la quale invece era rimasta ferma e impalata sulla soglia come una stronza.
Alcide era a torso nudo. Davvero un ottimo telaio, nulla da dire. Oltre ai due lupi sui bicipiti, c’era un nome di donna tatuato sul pettorale, all’altezza del cuore, e diversi tribali che partivano dall’ombelico e sparivano sotto la cinta dei pantaloni a vita… chiamarla bassa era riduttivo.
«Stavi dormendo, ti abbiamo disturbato?».
«No, tranquilla, stavo guardando la tv. Ma… che succede?».
«Ti devo chiedere un altro favore».
Alcide si passò una mano tra i capelli, scompigliando i riccioli bruni più di quanto non fossero già, e si fece da parte per lasciarla entrare. Nel frattempo il Cucciolo aveva già preso possesso del divano, davanti alla tv.
«Accomodati pure, vado a mettermi qualcosa addosso».
Halona guardò le spalle larghissime di Alcide sparire dentro a una stanza con grande rammarico.


«Abbiamo pedinato il ragazzino fino al luogo di consegna. Lì c’erano ad attenderlo i due tizi che hanno quasi fatto fuori il Cucciolo. Abbiamo seguito anche loro e… bingo! Ci hanno condotto al laboratorio in cui cucinano la loro merda. Stanotte andremo lì e bruceremo tutto. Ho bisogno, però, che qualcuno tenga d’occhio il Cucciolo. Devo sapere che non è in giro in cerca di una dose, mentre…».
«Ho capito, nessun problema».
Alcide aveva stappato due birre, che stavano bevendo in cucina, in piedi come due coglioni, mentre il Cucciolo era impegnato a fare zapping e a sorseggiare una gassosa in salotto con il muso lungo. Rimasero in silenzio, mentre la condensa delle bottiglie sgocciolava sul pavimento e l’ombra del loro ultimo burrascoso incontro formava una cappa soffocante e opprimente. Halona si sentì in dovere di dire qualcosa.
«Sei gentile ad aiutarci, nonostante quello che…».
«Si tratta di Roger. Sto aiutando lui. Non sei in debito con me…».
…questa volta, concluse Halona per lui.
«Bene, perché non ho intenzione di chiederti scusa per il pugno».
«Infatti». Alcide sorrise. «Sono io che ti devo le mie scuse».
Halona dovette fare violenza su se stessa per non mostrarsi stupita.
«Mi sono comportato da stronzo. E da arrogante. Avrei dovuto incassare il tuo rifiuto senza insistere. Purtroppo il mio ego ferito ha avuto la meglio».
Alcide la guardava dritto negli occhi, senza tentennamenti, e Halona non fu da meno.
«Scuse accettate».
«Non sono pentito però».
Fu lui a distogliere per primo lo sguardo, mentre mandava giù un sorso di birra. Halona aggrottò la fronte.
«Come?».
«Non sono pentito di aver tentato. Meglio un rimorso che un rimpianto».
«Okay, credo sia ora per me di sloggiare».
Halona posò la bottiglia sul ripiano della cucina, ma Alcide la trattenne per un braccio.
«Ho ucciso per molto meno, Alcide».
Lui mollò la presa, ma continuò a sbarrarle la via di fuga.
«Ascolta, me lo sono meritato quel pugno, lo so, ti ho già chiesto scusa. Ma non mi scuserò per aver tentato. Non sono il tipo che si finge un amico e nel frattempo aspetta il miracolo. Voglio che le cose siano chiare tra noi. Mi sento attratto da te. Non me ne frega un cazzo delle ragazze più giovani. Sei forte, decisa, ti prendi quello che vuoi e non ti fai mettere i piedi in testa da nessuno. Sei alta la metà di me eppure sembri un gigante. Tanto che a volte mi fai perfino paura, e va benissimo così, perché è una paura che mi eccita come non mi era mai successo prima d’ora. Ma hai già detto no una volta, perciò… non mi aspetto niente da te, rispetto la tua decisione».
Finalmente Alcide si fece da parte.
Halona gliene fu grata, perché aveva bisogno di spazio. E tra loro, di spazio, in quella cucina, ce n’era troppo poco. Volò via dall’appartamento, salutando di sfuggita il Cucciolo, e riprese fiato solo in strada, accanto alla sua moto. Adesso di spazio ce n’era un bel po’.
Peccato che non fosse ancora abbastanza.


«Dovrei essere lì con lei».
Roger se ne stava a braccia e gambe conserte sul divano, fissando imbronciato lo schermo della tv. Non poteva credere di essere stato posteggiato come una vecchia carretta per l’ennesima volta. Pensava che i tempi della casa famiglia fossero finiti, e invece eccolo là, trattato come un bambino di due anni che ha bisogno della babysitter.
«Lascia fare il lavoro a chi se ne intende».
«Io me ne intendo, eccome, Alcide!».
Seduto al suo fianco, Alcide inarcò un sopracciglio.
«Ah, sì?».
«Certo! Ho lavorato per quella gente per diverso tempo, se c’è qualcuno che se ne intende, quello sono io. Non è giusto che Halona mi abbia messo da parte. Quegli stronzi hanno ucciso il mio amico, hanno cercato di uccidere me…».
«Già, e se non fosse stato per Halona ci sarebbero riusciti, mi pare».
Roger afferrò il telecomando e spense la tv con stizza.
«Non è questo il punto!».
Alcide posò la birra sul tavolino e raddrizzò la schiena, rivolgendogli un’espressione minacciosa.
«E quale sarebbe, allora?».
Roger ebbe un attimo di tentennamento (Certo che è proprio grosso!), ma si ricompose subito.
«Si tratta di una questione personale, va bene? Ne va del mio orgoglio, non potrò più avere rispetto di me stesso, se rimarrò qui a rigirarmi i pollici mentre Halona rischia la vita. Tu non sei preoccupato per lei?».
Alcide si passò una mano tra i capelli, sospirando.
«Halona fa queste cose da prima che io finissi la scuola e che tu nascessi, è in grado di cavarsela benissimo da sola».
Roger sbuffò.
«Quindi è questo che ti racconti per avere la coscienza a posto?».
Lui scosse la testa.
«Non è la mia battaglia».
«Ma la mia sì. E anche quella di Halona». Era il momento di sfoderare l’asso nella manica. «Pensavo ci tenessi a lei…».
Alcide lo fissò in silenzio, combattuto.


La vecchia fabbrica abbandonata si stagliava contro le luci della città come la carcassa di un’enorme creatura preistorica. Mentre assicurava la pistola alla fondina, Halona la scrutava con sospetto, come se da un momento all’altro potesse tornare in vita e aggredirla. Shiriki stava tagliando la rete di recinzione con una tenaglia per catena, canticchiando allegramente il ritornello di una canzone sconcia. Wile, intanto, aveva tirato fuori dalla tasca dei pantaloni uno zippo per accendersi l’ennesima sigaretta. La piccola fiammella azzurra e gialla danzava sinuosa incastonata tra le sue mani, ricordando la ballerina di un carillon.
«Ti sembra il caso?», lo rimproverò Halona.
Wile chiuse lo zippo e la ballerina scomparve in un zac secco.
«Fatti i cazzi tuoi».
«Bambini, fate i bravi!», intervenne Shiriki. Se ne stava placidamente appoggiato alla tenaglia, come se fosse un elegante bastone da passeggio. Indicò il varco nella rete e fece un breve inchino. «Prima le signore».
Halona afferrò le prime due taniche di benzina e passò.
Superata la recinzione, si diressero immediatamente verso il complesso principale della fabbrica, dove sapevano che i Messicani avevano organizzato il loro laboratorio di meth. La porta era stata bloccata con un grosso catenaccio, ma la tenaglia per catene fece di nuovo il suo dovere. Una volta dentro, muniti di torce, cominciarono a guardarsi intorno.
«Che porcile!».
«Di sicuro in Messico non hanno imparato a rispettare le norme igienico-sanitarie».
Il laboratorio era molto rudimentale, allestito con strumenti di accomodo. I fusti con i materiali di partenza erano stati ammassati un po’ qua e un po’ là, apparentemente senza un criterio preciso. Non vi era traccia della meth sintetizzata, probabilmente era stata già messa tutta in circolazione. Non aveva importanza, però: distruggendo il laboratorio, avrebbero tagliato la testa al mostro.
«Avanti, muoviamoci», disse Wile.
Halona gli passò una tanica.
«Tu, però, vedi di stare attento a quella cazzo di sigaretta».
Wile si tolse la cicca dalla bocca e la spense sulla punta dello stivale.
«Contenta?», chiese, ammiccando in direzione di Halona.
Shiriki sbuffò.
«Wile, smettila di provarci con mia moglie».
«Solo se tu smetti di provarci con la mia».
Furono molto scrupolosi nel cospargere ogni angolo di benzina, anche se, con tutto il materiale infiammabile mal conservato che c’era in giro, sarebbe bastata la favilla di una cicca per appiccare un incendio. Quando ebbero innaffiato per bene anche lo spiazzale davanti all’uscita e pure l’ultima tanica fu vuota, Wile prese lo zippo dalla tasca. La fiamma era appena tornata a danzare tra le sue mani, ma il cla-clac di un colpo che andava in canna colse tutti di sorpresa.
Come ombre che si solidificano nella notte, sette uomini apparvero da dietro un capanno malconcio e si fermarono a pochi metri da loro. Halona contò sei pistole e un fucile. Nelle retrovie riconobbe Krazy8 e Disel, che a giudicare dalle loro facce non si erano ancora ripresi dalla sparatoria della roulotte. E se i Messicani erano stati costretti a disturbare due uomini feriti, allora voleva dire che il gruppo era tutto lì, al completo.
«Pensavate che non ci fossimo accorti che ci stavate spiando?», disse quello con il fucile. «Spegni l’accendino. E voi due posate quelle taniche a terra. Subito!».
Halona e Shiriki obbedirono immediatamente. Wile contemplò la fiammella danzante per qualche istante, come in attesa di una rivelazione, poi abbozzò un sorriso e invece di farla sparire sotto il coperchio dello zippo, la sollevò sopra la testa.
L’uomo rinsaldò la presa sul fucile.
«Getta quell’accendino o vi ammazziamo tutti!».
«Perché dovrei? Se faccio come dici, ci ammazzi comunque. Ma se mi spari mentre la fiamma è ancora accesa…». Wile picchiettò la punta dello stivale a terra, che fece splash splash. «…finiamo tutti arrosto. Voi compresi».
L’uomo abbassò lo sguardo e sgranò gli occhi. Le sue scarpe erano zuppe di benzina.
L’attimo di incertezza fu sufficiente.
Wile estrasse la pistola e centrò al petto l’uomo, che cadde a terra esamine, con gli occhi sbarrati per lo stupore.
Contemporaneamente Halona e Shiriki si buttarono di lato, al sicuro dietro a un muletto arrugginito.
Nelle stesso momento, una Dodge Charger del ‘69 nera saltò fuori dal nulla a tutta velocità, sfondò la recinzione e travolse il cadavere dell’uomo col fucile, frapponendosi tra Wile e la pioggia di proiettili appena prima che si abbattesse su di lui.
«Da dove cazzo arriva quella Charger?», chiese Halona.
«E lo chiedi a me?».
I Messicani si erano rifugiati dietro a un cassonetto. Shiriki sparò tre volte, per poi tornare al riparo.
«Quanti ne sono rimasti in piedi?».
«Cinque».
Dal finestrino della Charger emerse la canna di un fucile. Partirono due colpi in rapida successione, che trapassarono il cranio di un Messicano maciullandolo come un’anguria matura.
«Mi correggo: quattro».
Fu in quel momento che Halona si accorse di Wile. Era accasciato contro la fiancata della Charger e si teneva l’addome. Qualcuno aveva spalancato la portiera e stava cercando di caricarlo nell’abitacolo.
«Hanno beccato Wile».
«Cazzo», fu il commento eloquente di Shiriki.
Nel frattempo sulla Charger grandinava piombo. I vetri erano oscurati, Halona non riusciva a scorgere l’autista, ma il fucile continuava a dare filo da torcere ai Messicani.
Halona cercò a tentoni la pistola nella fondina e non la trovò. Cazzo, doveva esserle caduta mentre saltava per mettersi in salvo dietro il muletto. E infatti la individuò a metà strada tra lei e la Charger. Wile era ancora a terra e chiunque stesse cercando di tirarlo dentro l’auto non aveva fatto alcun progresso.
«Ho perso la pistola, quanti colpi ti sono rimasti?».
«Quattro».
«Devo andare ad aiutare Wile. Tiro al piattello?».
Shiriki annuì, sorridente.
«Il mio preferito, Amore Mio».
Halona si lanciò a testa bassa verso la Charger e i Messicani le scagliarono contro tutto il piombo che avevano in canna, proprio come nel tiro a piattello. Shiriki avrebbe approfittato della loro distrazione per mandare a segno qualche proiettile.
Uno. Due. Tre. Quattro colpi.
Con la coda dell’occhio, Halona vide cadere due Messicani. Bene, ne mancavano solo altri due. Afferrò al volo la sua pistola e si fiondò su Wile. La ferita all’addome perdeva molto sangue, così cercò di tamponarla con la sua giacca. Quando sollevò il viso per vedere chi c’era dentro l’auto, imprecò in tutte le lingue che conosceva.
«Che cazzo ci fate voi qui?».
Il Cucciolo ignorò la domanda, stava ancora cercando di caricare Wile sul sedile anteriore. Alcide invece si fermò solo per urlarle “Ho finito le cartucce!”. All’improvviso, i finestrini della Charger esplosero in una cascata di vetro, mentre alcuni proiettili sfrecciavano a un soffio dalle loro teste. Sia Roger che Alcide furono costretti ad accucciarsi per non venire beccati.
Ci fu una pausa lunga un secolo.
Shiriki era ancora nascosto dietro il muletto. Sano e salvo, ma a corto di munizioni. Anche Roger e Alcide stavano bene, Wile invece era semi-incosciente. Halona lanciò un’occhiata verso il cassonetto e si accorse che i due Messicani erano usciti allo scoperto, forse incoraggiati dal cessato fuoco.
Errore madornale.
Halona impugnò la pistola e si mise in ginocchio.
«State giù!», ordinò.
Prese la mira attraverso i due finestrini anteriori e svuotò il caricatore contro i due uomini, i quali non ebbero nemmeno il tempo di reagire, caddero a terra stecchiti. Halona continuò a premere il grilletto, finché non sentì il clic del colpo che andava a vuoto. A quel punto si alzò in piedi, lasciò cadere la pistola e scoppiò a ridere come un’invasata.
Roger e Alcide la fissavano ad occhi sgranati.
«Che c’è?», chiese tra una risata e l’altra. «È così strano vedermi ridere?».
«HALONA!».
Shiriki si stava sbracciando come un pazzo, indicando il cassonetto. Halona si voltò e... Un Krazy8 mezzo moribondo le stava puntando contro una pistola.
«Oh…».
Lo sparo squarciò l’aria.
Halona si sentì colpire al fianco. Cadde per terra e qualcosa di pesante le finì addosso. Aveva la faccia schiacciata contro il cemento, le narici infiammate dalla benzina. Anche Krazy8 era caduto a terra, non si muoveva. Figlio di puttana, non potevi tirare le cuoia qualche secondo prima di spararmi?
«Halona? Halona, stai bene?».
Sbatté un paio di volte le palpebre e mise a fuoco il viso smunto del Cucciolo.
Stava bene? Boh?
«Mi ha beccata?».
«No». Anche Alcide era apparso nel suo campo visivo, insieme al suo caldo sorriso. «Roger ti ha spinta appena in tempo».
Halona volse lo sguardo al Cucciolo.
«Non ti sarai preso una pallottola per me, eh, coglione?».
«Nemmeno una ferita di striscio. Sono o non sono stato bravo?».
Stava per insultarlo pesantemente, quando le tornò in mente una cosa importantissima.
«Oh, cazzo, Wile!».
Cercò di mettersi seduta, ma Alcide la tenne giù.
«Se ne sta occupando tuo marito, sta’ tranquilla».
«Purtroppo non posso fare molto qui», disse la voce di Shiriki. «Dobbiamo portarlo a casa nostra, Halona. Lì c’è tutto quello che mi serve».
Mentre Alcide e il Cucciolo aiutavano Shiriki a caricare Wile sul sedile anteriore dell’auto, Halona si tirò in piedi a fatica.
«Halona…».
Wile le fece cenno di avvicinarsi e le porse il suo zippo.
«Sai cosa fare», le disse.
Lei si rigirò l’accendino tra le mani e alla fine sbuffò.
«È più forte di te, non è vero? Anche con un piede nella fossa, non puoi proprio fare a meno di dare ordini alla gente».
Lui provò a ridere, ma il risultato fu solo una tosse rauca.
«Restituiscilo a Gina, quando hai finito».
Halona chiuse la portiera dell’auto con stizza.
«Lo restituirò a te, idiota!».


Certo i Messicani non erano arrivati fin lì a piedi. E infatti avevano trovato il loro pick-up, con qualche chilo di meth nel bagagliaio, abbandonato in una stradina secondaria, a un centinaio di metri dalla fabbrica. Lo avevano posteggiato il più vicino possibile all’entrata del laboratorio e ci avevano messo dentro i sette cadaveri. Si erano anche premurati di rimpinzare le bocche dei corpi con la meth.
«Sei pronta?», chiese Alcide.
Halona fissò la fiammella, che sculettava tra le sue mani, poi si chinò in ginocchio e avvicinò lo zippo alla chiazza di benzina, che s’infiammò immediatamente. Ebbero appena il tempo di raggiungere l’auto di Halona: il fuoco aveva già avvolto il pick-up con i cadaveri e cominciato a intaccare la facciata del vecchio complesso industriale.
«È un peccato che Roger non abbia potuto assistere».
Le fiamme danzavano negli occhi di Alcide. Halona le fissava rapita.
«Sì, mi terrà il broncio per giorni».
Aveva costretto il Cucciolo ad andare via insieme a Shiriki e Wile con la Charger di Alcide. Due persone bastavano e avanzavano per spostare i cadaveri. E poi con tutti quegli spari, la polizia poteva arrivare da un momento all’altro, Halona non voleva rischiare che il Cucciolo rimanesse coinvolto.
«Andiamo?», chiese Alcide.
«Sì, ma guido io».
Diede gas al motore, proprio mentre alle loro spalle la fabbrica veniva ingoiata dalle fiamme. Dieci minuti più tardi, l’auto di Halona si fermò di fronte al palazzo in cui si trovava l’appartamento di Alcide.
«Ti farò riavere la tua Charger domani», disse lei, fissando la strada.
«D’accordo».
Il corpo di Alcide emanava calore, esattamente come l’incendio che avevano appiccato. Halona serrò le dita intorno al volante.
«E… grazie».
Lo sentì sorridere.
«Non è stata una mia idea, ringrazia Roger».
«Oh, lo prenderò a sberle, invece. Altroché! Così imparerà, una buona fottutissima volta, a obbedire a un ordine diretto».
Inaspettatamente Alcide fece per chinarsi su di lei e Halona si ritrasse di riflesso, neanche fosse stata punta da uno scorpione.
«Ehi, calma, stavo solo… Sei ferita. Al braccio».
«Uhm?». Halona abbassò lo sguardo. «Oh. È solo una ferita superficiale. Un proiettile deve avermi presa di striscio».
«Va comunque medicata. Andiamo su, ci penso io».
«Non è necessario».
Alcide smontò dall’auto, fece il giro e aprì la portiera dal lato del guidatore.
«Insisto».
Avrebbe potuto mandarlo a ‘fanculo, avrebbe potuto rompergli il naso un’altra volta, avrebbe potuto semplicemente richiudere la portiera e partire a tutto gas. Avrebbe potuto fare questo e molto altro ancora.
Sì, appunto. Avrebbe.


«Dove hai imparato a sparare?».
Alcide stava tamponando la ferita con del cotone imbevuto.
Il disinfettante bruciava come l’inferno, ma in quel frangente il dolore era l’ultimo dei problemi di Halona. Il dolore era familiare, sapeva gestirlo, ci aveva avuto a che fare tante di quelle volte che non ci faceva più caso. Lo stesso non poteva dire, invece, delle mani che la stavano medicando. Mani così grandi che avrebbero potuto cingerle la vita senza problemi, ma al tempo stesso tanto delicate da sentirle a malapena sulla pelle.
Halona cercò di ignorare i brividi lungo la schiena, giochicchiando con lo zippo di Wile.
Aperto. Chiuso. Aperto. Chiuso. Aperto. Chiuso.
«Allora?», insistette.
Alcide posò il cotone su un vassoietto e prese la garza.
«Diciamo che non sono stato sempre e solo un meccanico».
Aperto. Chiuso. Aperto. Chiuso.
Mentre lui le fasciava la ferita, appena sotto il coyote tatuato sulla spalla, ad Halona tornarono in mente i due lupi sui suoi bicipiti. Quindi anche Alcide aveva fatto parte di una banda, una volta.
«Che è successo?», gli chiese.
Aperto. Chiuso. Aperto.
«Mi sono messo nei guai per una donna». Alcide assicurò la garza con un cerotto e prese a fissarla intensamente. «É un vizio in cui continuo a ricadere, a quanto pare».
Le fiamme erano tornate a danzare nei suoi occhi. Halona si chiese come fosse possibile, ma quando avvertì qualcosa di caldo a contatto con le dita, si rese conto che il coperchio dello zippo era aperto. La fiammella ammiccava maliziosa in direzione di Alcide. Come la più sfacciata delle sgualdrine.
Zac.
Chiuso.

Lo zippo finì sul tappeto ai piedi del divano.
Le mani di Alcide non erano più delicate. Se le sentiva addosso eccome, adesso. L’avevano afferrata con forza e la tenevano stretta contro il suo petto. Quando lui cercò di farla sdraiare sulla schiena, Halona si staccò dal bacio per opporre resistenza. Alcide sorrise, ma non allentò la morsa che la teneva prigioniera tra le sue braccia.
«Non puoi lasciare che sia qualcun altro a condurre, una volta tanto?», le chiese.
«Sarà molto più interessante se sopra ci sto io, credimi».
«Chi ha detto che voglio stare sopra?».
I suoi occhi ardevano di nuovo, questa volta però non c’erano fiamme a cui dare la colpa, così Halona decise di concedergli una chance: si sdraiò sulla schiena, tra i cuscini del divano, e attese la sua prossima mossa. Alcide, senza staccarle lo sguardo di dosso, si tolse prima la giacca, poi la maglia. Faceva male guardarlo, tanto era bello. Con quei riccioli bruni che gli ricadevano scomposti davanti agli occhi, le spalle larghissime, il torso massiccio e quei tribali che sparivano sotto la cinta dei jeans.
Halona posò una mano sulla patta, mentre lui la contemplava dall’alto.
«Non avevi detto che non volevi stare sopra?».
«Infatti».
Alcide fermò la mano di Halona prima che potesse slacciare la fibbia della cintura. La baciò sulla bocca, mordendole un labbro. Le sollevò la camicia sopra al seno e la baciò su entrambi i capezzoli. Scese fino al ventre e posò un bacio anche lì, poco sopra la cinta dei pantaloni. Infine fece sgusciare il bottone fuori dall’asola e tirò giù i jeans insieme agli slip, quel tanto che bastava per baciarla tra le cosce e rimanere lì sotto tutto il tempo necessario.
Halona si aggroppò ai riccioli di Alcide, gemendo.


«Ricordi quando hai detto che avresti rispettato la mia decisione?».
«Sì, ma adesso vorrei non averlo detto».
A un certo punto, non aveva ben chiaro esattamente quando, erano finiti sul tappeto. Sta di fatto che erano lì. Alcide le si era accollato contro il seno e lei gli stava accarezzando pigramente i riccioli.
«Io amo mio marito».
«Lo so, altrimenti non saresti rimasta con lui».
«Altrimenti non sarebbe ancora vivo, è diverso».
La risata di Alcide era amara come il fiele.
«Spero che Shiriki sappia di essere tanto fortunato».




Atto IV


«Halona, per favore, aiutami. Diglielo tu che è troppo presto per tornare a lavoro. Non riesce ancora ad alzarsi dalla sedia a rotelle… figuriamoci lavorare!».
«Gina, di solito lavoro seduto. E la sedia è solo una precauzione. Se volessi… anzi, te lo faccio vedere subito, così la facciamo finita».
Wile fece leva sui braccioli, pronto a mettersi in piedi, ma venne bloccato appena in tempo da Halona, che lo trattenne a sedere premendo sulle sue spalle.
«Cazzo, Wile. Cos’hai, dieci anni?». Gli porse una sigaretta. «Ecco, tieni questa e non rompere i coglioni. E ascolta tua moglie, una fottutissima volta!».
«Sarebbe più facile se avessi il mio zippo».
Halona prese una scatola di fiammiferi da sopra il bancone e gliela lanciò in grembo.
«Te l’ho detto, ce l’ho a casa da qualche parte, appena ne ho l’occasione, te lo restituisco. Ora mi fai il cazzo di piacere di startene tranquillo per due secondi?».
Il sorriso di Gina era sgargiante.
«Grazie, Halona».
Wile lanciò loro un’occhiata astiosa.
«Shiriki, mi sento in minoranza, dove sei?».
«Arrivo subito».
Shiriki era sul palchetto del locale, dove di solito si esibivano le band. Stava spiegando alla nuova cameriera, da lui ribattezzata Occhi Di Gatto, la regola del karaoke: i nuovi arrivati al Coyote Club devono cantare una canzone sul palco, davanti a tutti i clienti. Nel frattempo, tra una spiegazione e l’altra, le palpava il culo. Occhi Di Gatto sembrava terrorizzata. Dalla regola del karaoke, ovviamente. Non dal fatto che Shiriki le stesse palpando il culo.
Halona tornò dietro il bancone ad asciugare i fottutissimi bicchieri. Lavoro per cui pagava la tra-non-molto-fottutissima-cameriera, in teoria.
«Se aspetti che venga in tuo aiuto, Wile, mi sa che crepi prima».
«‘Sera a tutti».
Il Cucciolo era entrato proprio in quel momento. Si lasciò cadere sul primo sgabello libero e sbuffò rumorosamente.
«Giornata pesante in officina?», chiese Gina, scompigliandogli affettuosamente i capelli.
«Cazzo, sì!», esclamò il Cucciolo, godendosi a occhi chiusi le sue carezze. Se fosse stato un vero cucciolo, avrebbe cominciato a scodinzolare e si sarebbe buttato a terra sulla schiena. «Per fortuna è arrivato il fine settimana: non mi sembra vero che non sentirò parlare di freni a disco e tubi di scappamento fino a lunedì!».
Gina lo premiò con una grattatina dietro le orecchie e Halona si lasciò sfuggire un’impercettibile smorfia.
Da quando le avevano raccontato che il Cucciolo aveva cercato in tutti i modi di soccorrere Wile, durante la sparatoria, Gina aveva sviluppato un inaspettato istinto materno nei suoi confronti. Il Cucciolo, dal canto suo, come tutti gli individui dotati di cazzo, era rimasto impressionato (per usare un eufemismo) dalla foto di Gina esposta nel negozio di Wile. Quando l’aveva incontrata di persona, il suo sorriso si era allargato da un orecchio all’altro. In poche parole… tra loro era stato amore a prima vista.
«Ah, prima che me ne dimentichi…». Il Cucciolo frugò nelle tasche della felpa. «Alcide mi ha dato questo, dice che lo hai dimenticato a casa sua». E posò lo zippo di Wile sul bancone.
Cazzo.
Cazzo cazzo cazzo.

Wile inarcò un sopracciglio.
«Non avevi detto che era a casa tua da qualche parte?».
Halona si concentrò di nuovo sui bicchieri.
«Devo essermi sbagliata».
«Come mai eri a casa di Alcide?», chiese Shiriki dal palchetto.
«Oh, be’, io…».
«Gliel’ho chiesto io, di andarci», intervenne inaspettatamente il Cucciolo. «Voglio dire… Avevo lasciato lo zaino con le mie cose a casa di Alcide e le ho chiesto di accompagnarmi per andare a riprendermelo».
Halona lanciò un’occhiata di sottecchi al Cucciolo, che fissava Shiriki con espressione sfacciatamente innocente. Gina spostava ripetutamente lo sguardo da Halona, a Wile, a Shiriki. La sua faccia sembrava dire “Che cazzo mi sono persa, qui?”.
Shiriki scese dal palchetto, dimenticandosi improvvisamente della cameriera. La sua espressione era quella di chi si è messo in allerta, perché ha sentito un rumore sospetto e allora afferra la prima cosa che gli capita a tiro, non si sa mai, potrebbero essere entrati dei ladri in casa.
«Allora perché avevi lo zippo di Wile con te? Alcide non fuma. Il Cucciolo neanche. E tu, solo una volta ogni morte di papa».
Halona continuò a fingere di asciugare bicchieri.
«Perché non torni dalla cameriera? Credo che non abbia ancora capito come funziona la regola del karaoke».
Shiriki era al suo fianco, adesso. La guardava come un falco che si prepara a piombare sulla preda.
«Non cambiare argomento, Amore Mio. Quando sei stata a casa di Alcide? Perché, lo zippo, Wile te l’ha dato la notte della sparatoria, la notte che tu e Alcide siete rimasti indietro, da soli, a cancellare le nostre tracce. La stessa notte che quando sei tornata a casa mi hai detto “Ho fatto tardi perché abbiamo perso tempo a trovare il pick-up dei Messicani”. Ti ricordi… Amore Mio?».
Wile si fece avanti, spingendo la sedia dalle ruote.
«Ha importanza il come e il quando? Ciò che conta è che ho riavuto il mio zippo. Dolcezza, per favore, me lo passeresti?».
Annuendo, Gina prese l’accendino dal bancone e glielo porse. Purtroppo le parole di Wile non ebbero l’effetto sperato. Il sorrisetto a mezzaluna di Shiriki era ancora affilato come una lama.
«Amore Mio, te lo ha detto mai nessuno che non si ruba a casa dei ladri?».
Okay, ormai la frittata era fatta. Halona non aveva mai avuto paura di nessuno, tanto meno di Shiriki. Così posò bicchiere e strofinaccio nel lavello e si voltò a fronteggiare suo marito a braccia conserte.
«E anche se fosse? Anche se avessi», mimò le virgolette, «rubato in casa dei ladri?».
Shiriki sbatté il pugno sul bancone, facendo sussultare la cameriera.
«Quindi lo ammetti! Qui, davanti a nostri amici. Perché non aspettare l’apertura del club e comunicarlo sul palco, davanti a tutta la banda, allora?!».
«Shiriki, fino a due minuti fa stavi palpando il culo della cameriera», gli ricordò Gina. «Qui, davanti ai tuoi amici. E a tua moglie. E Dio solo sa quante volte lo hai fatto sul palco, davanti a tutta la banda».
«Non è la stessa cosa. La mia è un’arte!».
Gina si lasciò sfuggire una risatina.
«Ah, be’, se non è artistico Alcide, non so proprio chi possa esserlo. Sapessi quante volte ci ho fatto un pensierino… Halona, sono verde di invidia!».
Wile per poco non si strozzò con la sigaretta. Shiriki gli mandò una muta richiesta di sostegno, ma lui, tra un colpo di tosse e l’altro, scosse la testa.
«Non guardare me. Sei il mio migliore amico, ma questa volta hai torto marcio».
«D’accordo».
Shiriki girò sui tacchi e si diresse verso l’uscita.
«E adesso cosa cazzo pensi di fare?», gli chiese Halona.
«Rimettere una certa persona al suo posto», rispose lui. «Sotto terra».
Halona scavalcò il bancone con un salto e gli corse dietro. Lo fermò afferrandolo per una spalla, proprio mentre lui poggiava la mano sulla maniglia.
«Se esci da quella porta e gli torci anche solo un capello, non disturbarti a tornare a casa».
Shiriki si voltò. Non c’era più niente di amichevole nel suo sorriso. Avanzò di un passo verso di lei, con i pugni serrati e fare minaccioso. Aprì la bocca per replicare e…
…e qualcosa gli piombò addosso, facendolo ruzzolare sul pavimento.
Halona sbatté un paio di volte le palpebre, prima di capire cosa cazzo fosse successo. Il Cucciolo era seduto sullo stomaco di Shiriki e… ringhiava? mostrando i denti a dieci centimetri dalla sua faccia.
«Tu, brutto figlio di puttana… prova solo a pensare di farle del male e…».
«Ehi, ehi, Cucciolo, dico, ti sei ammattito tutto insieme? Non potrei mai fare del male alla mia dolce metà!».
«Anche perché morirebbe nel tentativo», intervenne Halona.
Ma il Cucciolo non sembrava voler sentire ragioni, continuava a guardarlo in cagnesco. Shiriki invece lo fissava con entrambe le sopracciglia inarcate.
«A quanto pare il nostro piccolo Cucciolo Randagio è diventato un gran bel Cagnaccio Da Guardia», disse, ammirato.
Poi scoppiò a ridere.


Il fine settimana era passato anche troppo in fretta per i gusti di Roger, che salì sul sellino posteriore della moto di Halona con le palpebre ancora semichiuse dal sonno.
«Quand’è che mi lascerai andare da solo?», le chiese, sbadigliando.
«Uhm, vediamo… Che ne dici di mai?».
Roger non se lo era aspettato. Dopo la litigata con Shiriki del venerdì sera, aveva creduto che Halona non si sarebbe più avvicinata all’officina di Alcide. Invece quel lunedì mattina si era comportata esattamente come tutte le mattine. Si era alzata presto, aveva preparato il caffè e poi gli aveva abbaiato contro di sbrigarsi che era tardi. Anche Shiriki era tornato lo stronzo affabile di sempre. Sabato mattina aveva dato il buongiorno ad Halona con un bacio sulle labbra e poi aveva preparato la colazione per tutti. L’unica differenza era che adesso entrambi lo chiamavano Cagnaccio invece di Cucciolo.
Era finito proprio in una gabbia di matti.
«Reggiti!», gli urlò Halona, prima di abbassare la visiera e partire a tutto gas.
Raggiunsero l’officina di Alcide in meno di cinque minuti.
«Strano», disse Roger, togliendosi il casco.
La saracinesca era ancora abbassata. Halona guardò l’orologio da polso.
«Sono le nove, dovrebbe essere aperta già da un’ora. Vai a controllare se c’è un cartello o un avviso».
Non c’era nessun cartello e i proprietari dei negozi vicini non sapevano nulla.
«Forse non sta bene. Gira una brutta influenza», disse Roger.
«Salta su», fu il lapidario commento di Halona.
Altri cinque minuti di slalom nel traffico e già stavano smontando dalla moto davanti al palazzo dell’appartamento di Alcide. Nella mente di Roger cominciava a farsi strada un’ipotesi, riguardo a quello che poteva essere successo, ma non osò esporla ad alta voce. Forse anche Halona stava ipotizzando uno scenario simile, perché salendo le scale era diventata ancora più silenziosa e imbronciata del solito. Trovare la porta dell’appartamento spalancata non fu affatto rincuorante e quando varcarono la soglia, Roger non poté fare a meno di trattenere il fiato per lo stupore.
«Ma che cazzo è successo qui?».
L’appartamento era stato rivoltato come un calzino. Sembrava che qualcuno si fosse divertito a svuotare cassetti, stipetti e armadi e ammassarne il contenuto al centro delle stanze. Anche in cucina, il tavolo, il piano da lavoro, il lavello, il pavimento… qualsiasi superficie piana era stata completamente sommersa di roba. Da dietro una pila di scatoloni, sulla quale erano state poggiate ben due chitarre, sbucò un gatto bianco e grigio. Si strusciò contro le gambe di Halona, per poi sparire chissà dove.
Roger e Halona si scambiarono un’occhiata sbigottita.
«Alcide ha un gatto?».
«Non mi pare».
«Scusate, ma voi chi siete?».
Una vecchina era apparsa sulla soglia dell’appartamento. Teneva in braccio il gatto, facendogli i grattini dietro le orecchie.
«Amici di Alcide», rispose Halona. «E lei?».
La vecchina parve quasi offesa dalla domanda, e raddrizzò la schiena con fare impettito.
«Sono la padrona di casa di Alcide».
«Ah, allora può dirci cosa è successo qui dentro».
La domanda non migliorò l’umore della vecchina.
«Io? Io, dovrei dirvelo? Ma ditemelo voi, che siete suoi amici, no? Domenica mattina ho trovato una busta da parte di Alcide nella mia buca delle lettere. Dentro c’erano le chiavi dell’appartamento, i prossimi tre mesi di affitto e un biglietto».
«E il biglietto cosa diceva?».
«Che avrebbe fatto sgomberare l’appartamento il più presto possibile». La vecchina sospirò, affranta. «Era un così caro ragazzo! Puntualissimo con l’affitto. Mi offriva sempre il suo aiuto, quando avevo qualcosa da far aggiustare in casa. E aveva sempre qualche croccantino da offrire al mio Romeo. Vero, tesoro?».
Romeo miagolò e la vecchia annuì.
«Sarà difficile trovare un altro inquilino tanto caro e disponibile!».


Sedevano su una panchina di McCarren Park, contemplando le coppiette felici che si godevano il sole primaverile sul prato. Roger stava sgranocchiando svogliatamente delle patatine da un pacco di Fonzies. Halona invece si era accesa una sigaretta. Era la prima volta che la vedeva fumare.
«Pensi che Shiriki…».
«No».
«Ma qualcosa deve aver…».
«L’accordo era che non gli avrebbe torto un capello».
«Sì, ma come fai a sapere che…».
«Lo so e basta».
Roger sbuffò e si mise un altro pugno di patatine in bocca. Masticò lentamente, con aria pensierosa. Inghiottì il boccone solo quando gli tornò in mente un dettaglio per nulla trascurabile di tutta quella situazione.
«Dovrò trovarmi un nuovo lavoro. Altrimenti non riuscirò a ripagarti quelle stupide vetrate».
Halona spense la sigaretta sul bracciolo della panchina. Non era nemmeno arrivata a metà.
«Non sarà necessario».
Roger aggrottò la fronte.
«Eh?».
«Non sei più in debito con me. In fondo mi hai salvato la vita. Se adesso fossi morta, non me ne farei un cazzo di quelle vetrate, giusto?».
Roger sorrise. Sapeva che era il modo di Halona per ringraziarlo. Tornò a sgranocchiare patatine con più gusto, ma quando lei gli lanciò un’occhiata di traverso, mise da parte il pacchetto.
«Che c’è? Perché mi guardi così?».
«Be’, adesso hai ottenuto quello che volevi. Niente debito, niente spacciatori che ti perseguitano, niente assistenti sociali. Sei libero di fare il cazzo che ti pare».
«È vero».
Roger alzò lo sguardo verso gli alberi. La brezza primaverile era fresca sul viso e gli scompigliò i capelli sulla fronte come una carezza.
Era così che ci si sentiva da liberi?
«Quindi ora sono curiosa», continuò Halona. «Cos’è che vuoi fare di preciso?».
La prima cosa che gli venne in mente fu “Farmi”, ma si guardò bene dal rendere partecipe Halona del suo desiderio. Si vergognava troppo. Così le diede la risposta più sincera che poteva permettersi.
«Io… ancora non lo so».
Halona abbozzò un sorriso tirato. Gli scompigliò i capelli sulla fronte, proprio come la brezza un momento fa.
«Tranquillo, non c’è fretta. Puoi decidere con calma».


Ci aveva messo qualche giorno, ma alla fine qualcosa che desiderava fare l’aveva trovata. Solo che, adesso che la stava facendo, non era più sicuro che la sua fosse stata una buona idea. Soprattutto perché faceva un male fottuto e non poteva assolutamente fare la figura della fichetta piagnucolosa.
«Posso chiederti una cosa?», chiese.
«Spara».
Roger sperava che parlare lo avrebbe distratto dal continuo punzecchiare che tormentava la sua pelle, ma il ronzio in sottofondo della macchinetta elettrica rendeva l’impresa davvero difficile da realizzare. Wile intanto lavorava al suo capolavoro con la massima concentrazione. Fronte aggrottata, mano fermissima e mozzicone di sigaretta incastonato tra le labbra.
«Come mai non hai tatuaggi? O meglio, forse ce l’hai e non si vedono. Ma di solito i tatuatori sono… ricoperti di tatuaggi, invece tu…».
«Io dipingo solo sulla tela degli altri», rispose Wile, mentre ritornava sul profilo di una zanna. «E la mia, di tela, non la concedo al primo che passa».
«Sei un tipo dai gusti difficili?».
L’ago smise di ronzare all’improvviso. Per un attimo Roger temette di averlo offeso, ma poi vide che stava sorridendo e sospirò di sollievo.
«Fino ad ora solo una persona ha avuto il permesso di tatuarmi. Si chiamava Bianca e preferirei che non la menzionassi davanti a Gina. Non ama particolarmente parlare di lei».
Roger annuì, avido di informazioni.
«Un Coyote, sulla schiena», disse Wile, prevedendo la sua prossima domanda. «E sì, è per questo che mi chiamano Wile Coyote».
«Quindi ha a che fare con la banda?».
L’ago riprese a ronzare.
«Sì e no».
«Perché… mi chiedevo… Cosa si deve fare per entrare nella banda? Magari farsi tatuare un coyote è un… Anche Halona ha la testa di un coyote sulla spalla, non può essere un caso, giusto?».
Wile rise.
«No, ragazzo. L’unico requisito è la lealtà. Dimostra di essere una persona leale, che farebbe di tutto per le persone che ama, che mette la propria famiglia al di sopra di tutto, e sei dentro. Il tatuaggio è opzionale».
«Oh».
Roger si ammosciò su se stesso.
«Tutte cose che tu hai ampiamente dimostrato, mi pare», aggiunse Wile, forse nel tentativo di rincuorarlo.
Davvero?
Cos’è che vuoi fare di preciso?
Farmi.

Si era intrufolato nel club perché aveva voglia di farsi. Lo avevano quasi ammazzato perché aveva voglia di farsi. Anche adesso aveva voglia di farsi, resisteva solo perché non aveva la più pallida idea di come e dove trovare la roba. Era facile fare la cosa giusta quando non si aveva nulla da perdere, ma se un giorno si fosse trovato a dover scegliere tra un compagno e una dose?
Prima o poi avrebbe capito cosa fare della sua vita, ma non sarebbe stato mai veramente libero di farlo, non fin quando era la droga a decidere per lui.
L’ago cessò nuovamente di ronzare.
«Che te ne pare?», chiese Wile.
Roger guardò il nuovo tatuaggio sul suo braccio e abbozzò un sorriso stiracchiato.
«Un vero cagnaccio».




Epilogo


«Ne sei proprio sicuro? Puoi sempre cambiare idea».
Roger annuì.
«Sì. Credo».
«Allora andiamo, dai».
«Aspetta…» La trattenne per un braccio. «Un’ultima cosa».
«Cosa?».
«Quando uscirò da lì e sarò veramente libero di scegliere…». Lanciò un’occhiata ansiosa alla facciata color panna dell’edificio, sulla quale spiccava una grossa insegna di un rassicurante azzurro oceano. Centro Di Recupero Il Gabbiano, diceva. «…posso tornare a casa con te?».
L’espressione sul volto di Halona era seria come la morte. Roger infossò la testa nelle spalle, come atto preventivo.
«Ovviamente mi troverò un lavoro, non ho intenzione di fare lo scroccone a vita», aggiunse.
Lei scosse la testa, sbuffando.
«Con miliardi di persone che mangiano e cagano su questo fottutissimo pianeta, adesso che potresti stare con chi cazzo ti pare, com’è che scegli proprio me?».
Roger le asciugò una lacrima col pollice.
«Certe persone non si scelgono. Certe persone ti capitano addosso come una cagata di piccione sulla testa».
La brezza primaverile era fresca sul viso e gli scompigliò i capelli sulla fronte come una carezza.
Halona lo prese per mano.
Era così che ci si sentiva da liberi.







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Note autore:
Questa shot è uno spin-off e un prequel molto pre della mia long Rovi & Rose e fa parte di questa serie di storie. Progettavo di scriverla già da molto tempo, ma solo grazie al compleanno di Jo Lupo sono riuscita a trovare la giusta motivazione per trasformare il progetto in realtà. Ringraziate la compleannista, quindi. Tanti auguri, Rossella!
Inoltre la storia ha partecipato al Kink&Plot Contest, indetto da Im_apanda, sul forum di EFP. Si è classificata quarta e ha vinto il premio speciale "Trama & Personaggi".
Andiamo alle dotte citazioni.
I nomi Krazy8 e Disel vengono direttamente dalla serie tv Breaking Bad. Se avete visto la serie, non è necessario spiegarvi chi siano questi due. Se non l’avete vista… FATELO!
Qua e là ci sono due citazioni estrapolate dalla vita vera. Chi sa le riconoscerà e, spero, non si offenderà.
Alcide si ispira all’Alcide del telefilm True Blood (RIP). Mi ero già ispirata a lui per un’altra storia, nel fandom di Hunger Games. Che volete che vi dica? C’è un Alcide in ogni universo.
La tatuatrice Bianca menzionata da Wile è proprietà di Dragana, la potete trovare qui.
Come sempre ringrazio le mie magnifiche beta: Dragana e OttoNoveTre, senza le quali non so proprio dove sarei adesso.
Per il momento credo sia tutto.
A presto, vannagio
   
 
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