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Autore: Sabriel Schermann    22/07/2014    4 recensioni
I medici avevano ripetuto più volte che era possibile che Isabelle potesse vedere cose che non esistevano. Ma bisogna sempre fare attenzione prima di rinchiudere una ragazzina pazza in un ospedale psichiatrico. Potrebbe scoprire il colore della paura e caderci dentro.
[Fanfiction classificata al sesto posto al contest "Creepy Bloody Summer" indetto da HikariMegami sul forum di EFP]
Genere: Dark, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erano tre mesi ormai che Isabelle si trovava in quel maledetto ospedale.

Aveva solo quattordici anni, ma loro dicevano che era pazza, che erano costretti a tenerla lì per sicurezza, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto succedere.

Questo dicevano i medici.

Lei li sentiva quando bisbigliavano oltre la porta della sua stanza ogni volta che i suoi genitori venivano a farle visita.

L'ospedale psichiatrico era una struttura estremamente strana e sgradevole: il cibo sapeva di plastica e un odore di legno bruciato aleggiava costantemente nell'aria.

Le tende erano bianche e sporche e fuori dalla finestra il panorama grigio dei bidoni della spazzatura era tutta la sua visuale.

Oltre i bidoni c'era un muro bianco e sopra il cielo azzurro.

Si chiedeva se quel cielo fosse davvero infinito come dicevano o avesse una fine, come tutto al mondo.

Durante le sue giornate vuote leggeva oppure si sedeva alla finestra ad osservare il muro e il confine con quell'infinita distesa celeste, fantasticando su cosa ci fosse dall'altra parte.

Immaginava che ogni uccello le dicesse qualcosa, oppure che gli alberi appena visibili ai due estremi dell'ospedale la salutassero e cominciassero una conversazione con lei.

Dopo cena era libera di uscire in quel cortile grigio e vuoto fatto di cemento, e ogni volta provava ad avvicinarsi ai due alberi.

Quello del lato sinistro le stava simpatico.

Era più piccolo dell'altro, ma riusciva a comunicare molto meglio.

"Ciao", la salutò un giorno.

Lei rispose chiedendogli che cosa avesse visto di bello durante la giornata.

"Nulla, in realtà. A parte qualche formica che ogni tanto mi fa il solletico alle dita", disse l'albero.

Così la bambina tornò soddisfatta nella sua stanza.

Si sdraiò nel letto dopo essersi messa la sua bianca camicia da notte e chiuse gli occhi, cominciando a pensare alla conversazione con l'alberello, quando improvvisamente udì una musica provenire da oltre la porta.

Sembrava una melodia piuttosto inquietante, ma Isabelle non era per niente spaventata.

Aprì gli occhi e sorrise. Le piaceva quella sequenza.

Così si alzò al buio e scostò le tende.

Osservò l'albero e sorrise ancora.

Il muro non sembrava più così chiaro nella notte.

Poi, solo per un attimo, riuscì a scorgere una piccola testa tra i rami.

Assomigliava a lei, a differenza dei capelli rossi come il fuoco, e il suo corpo era molto più piccolo, ridotto di un bel po' rispetto al suo.

Poi la misteriosa figura scomparve e una voce cominciò ad accompagnare quella melodia.

A quella se ne aggiunsero subito altre, tantissime, che la bambina sentiva sempre più vicine e profonde.

Fu a quel punto che Isabelle si mise lentamente a letto, chiuse gli occhi e si addormentò tranquilla.


~


Per tutto il giorno seguente pensò alla piccola bambina sull'albero e a quella melodia sconosciuta.

Pensò che fosse strano che qualcuno suonasse a quell'ora.

Quella sera, durante l'ora libera, chiese all'albero se aveva notato qualcosa di strano la notte passata.

"No", ripose l'albero con calma, ma Isabelle capì subito che stava mentendo.

Poteva essere pazza, ma non era stupida.

Così insistette ancora, fino a quando non sentì la verità.

"E va bene", rispose la pianta, "una bambola era seduta su un mio braccio stanotte. Non so cosa facesse, avevo sonno, ma teneva qualcosa in mano e a un certo punto è scomparsa".

Quando Isabelle tornò in camera quella sera, si mise alla finestra e osservò il sole scomparire dietro il muro bianco.

Sentiva i suoi genitori parlare ancora con i medici, dopo la visita.

"É possibile che la bambina veda cose che non esistono", sentì dire ad una voce mai sentita prima, "e che viva in un mondo parallelo, tutto suo".

Si chiedeva se fosse vero.

Si chiedeva perché la sua famiglia e la sua casa non le mancassero nemmeno un po'.

Non stava bene in quell'ospedale, ma per qualche motivo a lei sconosciuto era contenta di stare lontano da casa.

La luce del tramonto rifletteva nella sua camera e tutto sembrava più bianco di quanto già non fosse.

Pensò a quanto fosse ricorrente quel colore nella sua vita, e a quanto lei l'avesse desiderato.

A Isabelle sarebbe piaciuto sposarsi un giorno, con un abito lungo e morbido e bianco.

Poi, catturata da questi pensieri, spostò spontaneamente lo sguardo sull'albero suo amico, che se ne stava lì immobile ad osservarla, forse attendendo l'arrivo di quella strana bambina.

E Isabelle rimase alla finestra a controllarlo fino a quando le palpebre non le calarono e dolcemente si addormentò.


~


Quando aprì gli occhi la ragazza capì subito di non essere nella sua camera d'ospedale.

Non era nemmeno a casa sua, ma in un luogo umido e abbandonato.

O almeno così sembrava.

Guardò le pareti di legno: c'era un quadro appeso a una parete, ma l'immagine raffigurata sembrava sfocata, si confondeva facilmente.

Poteva essere una donna, forse due, forse molto giovani, ma era tutto così confuso che non riusciva proprio a capire con certezza ciò che era rappresentato.

Poi osservò l'altra parete, quasi spoglia, con al fondo, in un angolo, un mobile vuoto e una scopa di paglia.

Si chiedeva a cosa servissero in quel luogo dimenticato dal mondo.

Poi si alzò lentamente, accorgendosi di non indossare più la sua adorata camicia da notte, ma un vestito rosa che le donava moltissimo.

Aveva il colletto e i polsini di pizzo bianco, e il resto era rosa come uno degli ombretti della mamma.

Nonostante intuì di essere sola e probabilmente anche in pericolo, Isabelle non aveva paura.

La paura non faceva proprio parte di lei e del suo modo di essere.

Aveva presto capito che la paura ti blocca, ma non ti fa ragionare.

Ti immobilizza e basta. E a lei questo non sarebbe mai servito.

Scorse lentamente lo sguardo sul resto della parete, scoprendo poi una finestra senza vetro.

Sul davanzale, immobile, si trovava un gatto nero, con i baffi talmente lunghi che brillavano alla luce della luna, come il suo pelo.

Quando spostò lo sguardo su di essa capì che doveva essere notte fonda, nonostante nella stanza ci fosse una luce quasi naturale proveniente da una lampadina penzolante dal soffitto.

Poi il gatto si mosse lentamente, scendendo dal davanzale e incamminandosi verso la strada oltre la finestra.

Sembrava quasi che la incitasse a seguirlo, ma Isabelle non si mosse.

Poi l'animale si fermò e si volse verso di lei, guardandola con quelle iridi chiare alla luce notturna.

Così la bambina si mosse, si avvicinò alla finestra, ma con sua grande sorpresa capì di essersi sbagliata.

Il vetro c'era, perché la sua immagine ne era riflessa all'interno.

Sembrava uno specchio, poteva vedere i suoi lineamenti così bene da fermarsi a lisciare i capelli biondi, assorta.

Si accorse di indossare un piccolo nastro che le teneva sollevata la parte anteriore dei capelli, scoprendo il viso pallido e ovale.

Poi il gatto miagolò placidamente, come ad invitarla a proseguire insieme a lui.

Lei lo osservò un attimo, poi, senza pensarci, oltrepassò il vetro.

Atterrò sull'erba fresca della notte, proseguendo per il sentiero sterrato, raggiungendo il gatto nero, senza mai voltarsi.

Dopo circa dieci minuti di cammino, il gatto si fermò e lei si volse a guardarlo.

"Dove stiamo andando?" gli chiese, confidando in una risposta esaustiva.

Aveva sempre creduto (e loro le avevano sempre dato modo di crederci) che i gatti fossero degli animali estremamente precisi e più pignoli rispetto agli altri.

Alcuni erano anche molto intelligenti.

Ma il gatto non le rispose, semplicemente la guardò.

I suoi occhi sembravano sinceri, come quelli di un buon amico.

Poi l'animale si volse, osservando il sentiero davanti a sé, e Isabelle seguì il suo sguardo, scoprendo con sua sorpresa che un albero era comparso a pochi centimetri da loro.

Assomigliava a quello dell'ospedale, ma era molto più grande e ingente.

Nascosta tra i rami poté vedere una piccola bambina, una bambola con un vestito rosa e i capelli rossi fermati da un nastro dello stesso colore del cielo notturno.

Si volse verso il gatto per una spiegazione, ma non c'era più.

Era sola con quella misteriosa bambola, e l'albero imponente.

Ma, ancora una volta, non aveva paura.

Amava l'avventura e i misteri, e sentiva una sorta di liberazione dentro di sé, un potente senso di libertà.

Per la prima volta, si sentiva libera.

Poi la bambola le tese la mano, e lei poté finalmente notare i suoi occhi, rossi come le fiamme infernali.

Tutto di lei ora sembrava di un rosso acceso, ardente.

Notò che nell'altra mano impugnava un coltello affilato e lucidissimo.

Isabelle esitò qualche secondo, poi prese la mano tesa.

Fece in tempo a sentire un rantolo provenire dalla bambola:"Ora non puoi più tornare indietro, non puoi più tornare e basta".

Poi, il bianco si impossessò di lei.

Il colore dei suoi sogni, il colore che forse è un colore e forse non lo è la inghiottì come il buio investe la terra quando il sole scompare.

Il bianco era dappertutto nella sua vita, ma lei non l'aveva mai notato realmente.

Semplicemente, l'aveva accantonato di proposito, perché il bianco era il colore dei sogni impossibili, era il colore della paura.

Un colore morto che finge di essere vivo, oppure il contrario.

Un colore che racchiude in sé tutti gli altri colori del mondo.

La mattina seguente Isabelle non si sarebbe svegliata nel suo letto d'ospedale, e nemmeno nel letto della sua casa di città.

Le sue paure represse l'avevano imprigionata nella loro tela mortale.

Isabelle non si sarebbe più svegliata e basta.

   
 
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