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Autore: SoleSun    22/07/2014    0 recensioni
La prima cosa di cui fu consapevole era il buio.
Buio esterno: non un filo di luce arrivava alla sua mente; buio interno: non percepiva il suo corpo. Era, senza nome, senza spazio, senza ricordi. Galleggiava nell'oscurità, nel nulla.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stavolta a svegliarlo fu il brontolio del suo stomaco. Il laboratorio era già illuminato dai raggi di sole mattutino che entravano dal buco.

Sbatté le palpebre per liberarle dalle crosticine del sonno e lasciò che lo sguardo vagasse sul proprio corpo.

Si rese conto di essersi arrotolato in un pezzo di moquette impolverata che si era sollevata e staccata dal bordo. E realizzò, anche se l'aveva comunque già notato, di essere completamente nudo. Prima di andare a cercare altre persone, avrebbe dovuto trovare qualcosa da mettersi addosso, fosse anche un frammento di quella stessa moquette arrotolato intorno ai fianchi. I dubhiani, se non erano cambiati nel corso degli anni, non erano un popolo pudico, ma molti terrestri invece lo erano eccome.

Si guardò intorno. Ora che era fuori dal vetro vedeva tutto con maggiore chiarezza. E fu così che si accorse del contenuto delle altre teche, molto più crepate della sua. Il liquido nutritivo era colato fuori tutto, e appese alle imbracature c'erano le forme rinsecchite e mummificate di coloro che erano stati i suoi compagni di esperimento. Un senso di gelido orrore si arrampicò lungo la sua spina dorsale facendogli rizzare tutti i peli del corpo, paralizzandolo. Il fiato gli si bloccò in gola, e solo con uno sforzo riuscì ad emettere un lungo respiro strozzato e singhiozzante. Anche la sua teca aveva molte crepe che correvano lungo tutta l'altezza, ma erano fini e poco liquido colava. Un sottile strato di vetro incrinato era stato tutto quello che si era interposto tra lui e la morte.

Se c'era un dio da qualche parte in quell'immenso universo, stava sicuramente guardando lui.

Non doveva sprecare la sua fortuna! Se era sopravvissuto al dolore dell'incidente di Clara, e anche al cataclisma che aveva colpito il laboratorio, avrebbe lottato per sopravvivere ancora.

Appoggiandosi allo spigolo della teca, un po' alla volta si alzò in piedi. Ondeggiò, con la testa che gli girava, la vista annebbiata e il cuore in gola per lo sforzo. Le gambe gli tremavano da matti e per un momento temette che non l'avrebbero retto. Le sue dita si contrassero sul vetro, e l'angolo si piantò dolorosamente nella carne. Strinse i denti, ma non cedette.

E piano piano il battito si calmò, la vista si schiarì, la testa smise di girare e le gambe si fecero più sicure.

Mentre riprendeva fiato e si preparava per il prossimo passo, cioè tentare di camminare, osservò meglio il laboratorio. I banconi erano ricoperti di strumentazioni di varie tecnologie, tutte spente, alcune evidentemente rotte o addirittura in pezzi. Lungo un lato c'era una fila di grossi armadi e un appendiabiti da cui spenzolava un camice. Perfetto! Almeno avrebbe avuto qualcosa da mettersi! Non gli avrebbe tenuto caldo, probabilmente si sarebbe capito che sotto non portava nulla, ma era sempre meglio di niente.

Decise però di guardare in tutti gli armadi e nei cassetti di tutti i banconi, alla ricerca di oggetti che potessero essergli utili.

Ogni cosa, come aveva già notato in precedenza, era ricoperta da uno strato piuttosto spesso di polvere, mista a calcinacci. Tutto il locale aveva l'aria di essere abbandonato da anni.

Oh beh, si disse per cercare di farsi animo e contrastare il senso di sconforto che lo stava pervadendo, almeno così nessuno si lamenterà se mi porto via qualcosa!

Con calma, concentrato, mosse un passo, senza lasciare andare del tutto la teca. Barcollò, ma si sentiva abbastanza stabile. Lasciò lo spigolo, e rimase in piedi da solo. Ondeggiò un attimo ma si riprese. Spostò il piede in un altro tentennante passo. Poi un altro ancora. E alla fine si stava muovendo in giro per il laboratorio quasi con scioltezza.

Dopo aver indossato il polverosissimo camice si diede da fare per esplorare lo spazio che lo circondava alla ricerca di qualsiasi cosa gli fosse utile.

Il primo armadio si rivelò pieno di supporti di memoria ricoperti dall'onnipresente polvere. Nel secondo c'erano pezzi di ricambio per i macchinari rotti, insieme ad una cassetta degli attrezzi dalla quale prese un grosso cacciavite e le forbici, che intendeva usare come armi di difesa.

Nel terzo, camici puliti. Beh, più o meno...impolverati anche loro.

Le ante successive erano contrassegnate ciascuna con una targhetta con scritto “Teca n°...” e un numero da 1 a 4. Quello che c'era dentro lo colpì come un pugno. Gli effetti personali suoi e dei suoi tre compagni di avventura ora defunti.

Stringendo tra le dita i propri vestiti fu catapultato ancora una volta nel periodo di angoscia e dolore tra la morte di Clara e il congelamento. Da una tasca scivolarono fuori delle foto. Della sua famiglia, dei suoi amici...di sua moglie.

Gemette alla vista del suo volto sorridente, e nuove lacrime gli solcarono le guance mischiandosi con la polvere, imbrattandogliele.

Tirando su col naso se le asciugò con le mani. Sarebbe mai finito questo dolore?

Scosse la testa come per scacciarlo, e si concentrò sui problemi presenti. Rapido indossò i vestiti, che gli andavano molto larghi: era dimagrito parecchio nella teca! Si infilò le calze e le scarpe. Poi guardò nella borsa che era riposta insieme alle altre sue cose: niente di utile, solo un portafogli e dei documenti elettronici. La posò di nuovo nell'armadio.

Nei cassetti trovò solo scartoffie e un coltello, che intascò rapidamente insieme al cacciavite e alle forbici.

Fece un respiro profondo: non c'era altro, lì dentro, che potesse servirgli.

Si mise di fronte alla porta: ovviamente non si sarebbe aperta grazie al sensore di movimento, che sicuramente aveva smesso di funzionare molto tempo prima, ma tutte le porte avevano, sul lato che dava verso l'interno di una stanza o di un edificio, uno sblocco meccanico di sicurezza per evitare che in caso di guasto le persone restassero intrappolate. Armeggiò un po' con la scatoletta di controllo alla base, e alla fine i due pannelli presero a scorrere di lato, aprendosi su un corridoio silenzioso, buio ed impolverato come il laboratorio. Un nuovo respiro. Mosse il primo passo verso l'esterno ma ebbe un ripensamento.

Tornò all'armadio, aprì la borsa e guardò i documenti. C'era scritto il suo nome lì sopra, un nome che non si era ricordato finché non l'aveva visto stampigliato sulla tessera identificativa.

Un nome che apparteneva a prima, alla sua vita passata. Che non gli apparteneva più.

Era rimasto in gestazione in un liquido amniotico per un tempo infinito, collegato ad una fonte di energia attraverso un cordone ombelicale. Si era partorito con fatica, lasciando la culla che l'aveva incubato dopo un lungo travaglio, e, nudo ed inerme come quando era uscito dal grembo materno, era tornato alla vita.

Rinato.

Gettò nell'armadio i documenti di quell'altra persona che era stato e con passo sicuro si diresse verso la porta. Verso la sua nuova vita. Qualsiasi cosa gli riservasse.



  
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