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Autore: _Aras_    22/07/2014    7 recensioni
Il tempo sembrava essersi fermato: mentre il suo corpo si lasciava vincere dalla passione, la sua mente non capiva cosa stesse succedendo, incapace di accettare quei sentimenti.
Non aveva mai avuto una relazione con un suo collega, nemmeno un innocente flirt, e si era ripromessa di continuare su quella strada per non rischiare di compromettere il suo ambiente lavorativo.

Questa oneshot partecipa al contest "Esame di maturità" indetto da S_Lily_S
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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mat Nick dell'Autore: _Aras_
Titolo: As tho' to breathe were life!
Fandom: Originale Romantico
Prima prova: Penna – Introspettivo, Missing Moments
Raiting: Giallo
Seconda prova: Microonde - Fai un Banner ispirato alla tua storia
Terza prova: Professore - Ti obbligo ad… ambientare la tua storia in una scuola/un ospedale/un campo di calcio.
Introduzione: Il tempo sembrava essersi fermato: mentre il suo corpo si lasciava vincere dalla passione, la sua mente non capiva cosa stesse succedendo, incapace di accettare quei sentimenti.

Non aveva mai avuto una relazione con un suo collega, nemmeno un innocente flirt, e si era ripromessa di continuare su quella strada per non rischiare di compromettere il suo ambiente lavorativo.
NdA (facoltative): Per creare il banner ho sovrapposto tre immagini che ho trovato su weheartit.com
lo sfondo con l’aula scolastica
il dettaglio del bacio
e il disegno di una donna con un libro in mano
La citazione è tratta da Ulysses di Tennyson, questa è la traduzione:
Com’è stupido fermarsi, arrestarsi,
Arrugginire opachi, non splendere per l’uso!
Come se respirare fosse vivere!

As tho' to breathe were life!

Rifiutare l’amore è un atto doppiamente egoistico: neghiamo noi stessi a colui che ci ama e alla parte migliore di noi, quella abbastanza coraggiosa da rischiare la propria sicurezza in prospettiva di una possibilità di felicità assoluta.

Matilde sollevò lo sguardo dal tema che stava leggendo per posarlo sulla ragazza che l’aveva scritto: era seduta in ultimo banco, intenta a completare il compito di latino, così come i suoi compagni. Era una persona riservata, non timida ma silenziosa, talvolta sembrava immersa in un mondo tutto suo a cui nessun’altro poteva accedere. Aveva anche una grande sensibilità: l’aveva capito nel corso degli anni, leggendo le sue composizioni sempre molto profonde e personali. Quella frase, che apriva una riflessione che si prospettava interessante, l’aveva colpita. L’aveva portata immediatamente a pensare alla sua relazione con George.

George era un suo collega: arrivato dall’Inghilterra solo un paio d’anni prima, insegnava letteratura inglese in quella stessa classe di liceo linguistico. Per mesi non si erano quasi rivolti la parola, se non per qualche saluto nei corridoi della scuola: lui sembrava una persona molto distaccata, a cui non interessava relazionarsi con i colleghi né creare un forte legame con gli alunni. Ai consigli di classe parlava poco e solo se necessario, senza mai dare la sua opinione sui problemi della classe. Se inizialmente aveva attribuito quel disinteresse alla situazione disorientante in cui doveva vivere, trovandosi solo in un paese straniero, poi aveva iniziato a considerarlo caratterialmente freddo. L’apatia era una delle caratteristiche umane che Matilde odiava maggiormente: i vizi, per quanto negativi, manifestavano gli impulsi dell’animo umano, mentre l’indifferenza alla vita mostrava l’incapacità dell’uomo ad adattarsi alla società, risultando in nulla più che un macchinario passivo.

Era rimasta sorpresa quando si era proposto come accompagnatore per la gita di classe. I ragazzi avrebbero dovuto soggiornare a Roma per quattro giorni, sorvegliati da lei e dal docente di matematica. Purtroppo due settimane prima della partenza il suo collega aveva avuto un incidente e, sebbene le sue ferite non fossero gravi, avrebbe dovuto portare un gesso alla gamba destra per almeno un mese: era impossibile farlo girare per giornate intere in città. La classe aveva rischiato di rinunciare alla gita dato che tutti gli altri docenti non potevano o non volevano assumersi un tale impegno. Quando ormai tutto sembrava perduto, George aveva assunto l’incarico. Da quel momento Matilde aveva cominciato a rivalutarlo: aveva apprezzato il suo gesto, certo volto a evitare una grande delusione ai ragazzi. Aveva sperato anche che si aprisse di più durante quei giorni, altrimenti sarebbe stata dura la convivenza con un unico adulto che non s’interessava di nulla.

Il suo desiderio era stato esaudito: nelle lunghe ore trascorse in autobus per arrivare alla capitale e durante le camminate per la città, George aveva dimostrato di avere un carattere più aperto di quanto aveva inizialmente considerato. Non era mai stato a Roma prima e aveva sfruttato quell’occasione per riempirla di domande, dopotutto lei vi aveva trascorso anni della sua vita durante gli studi universitari. Era entusiasta alla vista di quei magnifici monumenti antichi e aveva preso l’abitudine di metterla alla prova, testando la sua conoscenza professionale con le curiosità che trovava nelle guide turistiche che aveva acquistato.

Una sera avevano accompagnato gli alunni in una passeggiata per le vie romane e, mentre questi confabulavano tra loro – probabilmente stavano cercando un modo per procurarsi alcolici, nonostante la loro supervisione – si erano ritrovati a parlare. Non della città o della storia della civiltà romana, come spesso capitava, ma delle loro vite.

Matilde aveva saputo che George aveva ben tre fratelli e una sorella più grandi che gli avevano dato sei splendidi nipotini di cui le aveva mostrato le foto. Aveva un cane, Bobby, che aveva affidato all’anziana vicina durante quella gita. Amava la musica jazz ed era appassionato del classico cinema italiano, che preferiva ai nuovi film americani ricchi di fantascienza e surrealismo. Come lei, amava leggere: il suo romanzo preferito era Il ritratto di Dorian Gray, ma adorava anche le poesie di Blake e le opere di Keats.

Aveva scoperto di avere molte cose in comune con quell’uomo che aveva considerato così male all’inizio, ma anche alcuni punti in cui le loro opinioni si scontravano e davano vita a irrimediabili dibattiti che la riempivano d’interesse. Aveva trovato un uomo con cui poteva discutere in modo civile, senza incorrere in litigi furiosi o in silenzi disinteressati.

Dopo la fine della gita la scuola era chiusa per le vacanze pasquali e Matilde si era trovata a sentire la sua mancanza. Il suo cuore si era riempito di un’inspiegabile gioia quando, il primo giorno dopo quella pausa lavorativa, aveva incrociato George nei corridoi della scuola. Lui l’aveva salutata e si era fermato per scambiare qualche parola: aveva notato l’occhiata stupita di una sua collega a quella vista, ma non se ne era curata. Ovviamente per gli altri professori George era ancora scorbutico e riservato, ma lei aveva avuto la possibilità di conoscerlo meglio e poteva dire di comprendere la sua vera natura: una natura passionale.

Dopo qualche settimana di amicizia e di casuali incontri per un aperitivo in centro, si erano entrambi ritrovati a doversi occupare della supervisione degli studenti durante i corsi pomeridiani. Gli alunni se ne erano andati al suono della campanella, quasi correndo per non essere chiamati a sistemare le sedie e i banchi che avevano spostato per i progetti di gruppo. Erano rimasti soli e avevano iniziato, quasi senza pensarci, a riordinare la stanza per non incorrere nell’ira delle collaboratrici scolastiche che avrebbero dovuto comunque ripulire il pavimento pieno di minuscoli pezzetti di carta e gomma. Stavano parlando del più e del meno, commentando ciò che era stato deciso nel consiglio di classe del pomeriggio precedente, quando Matilde aveva sentito una mano calda posarsi sul suo fianco. Si era voltata, impreparata a quel contatto improvviso ma non spiacevole, e prima che avesse il tempo di dire qualcosa le labbra di George si erano posate sulle sue, richiedendo un bacio che non avrebbe potuto negargli nemmeno volendo. Il tempo sembrava essersi fermato: mentre il suo corpo si lasciava vincere dalla passione, la sua mente non capiva cosa stesse succedendo, incapace di accettare quei sentimenti.

Non aveva mai avuto una relazione con un suo collega, nemmeno un innocente flirt, e si era ripromessa di continuare su quella strada per non rischiare di compromettere il suo ambiente lavorativo. Così, quando George si era allontanato di qualche centimetro dal suo viso per recuperare l’aria perduta e lei era riuscita ad elaborare cos’era successo, il tempo aveva ripreso a scorrere lentamente.

Lo aveva fermato posandogli una mano sulla bocca, vedendolo avvicinarsi di nuovo, e aveva fatto un passo indietro, andando a sbattere contro un banco. Aveva percepito il cambiamento nel suo sguardo a quel gesto e anche lui si era allontanato un po’, osservandola in silenzio. Matilde aveva lasciato ricadere la mano lungo il fianco, insicura di quale sarebbe stata la sua prossima azione.

«Scusa» aveva mormorato, non sapendo che altro dire.

«No, scusami tu» aveva risposto lui, passandosi una mano tra i capelli corti e spostando lo sguardo. «Credevo che anche tu…»

«Siamo colleghi» lo aveva interrotto. «Non sarebbe professionale.»

«È questo l’unico motivo?» aveva domandato allora George. «Perché siamo entrambi adulti responsabili, saremmo in grado di separare la vita privata dal lavoro.»

«Non ne sono così certa» aveva replicato Matilde. Non si sentiva pronta per avere quella conversazione e così, vinta dalla paura, si era separata da lui per recuperare la borsa e uscire dalla stanza. «Devo andare, scusa» aveva ripetuto, allontanandosi velocemente, mentre il cuore le batteva forte nel petto e lei si sentiva quasi svenire.

Era passata una settimana da quel giorno.

Durante quella settimana Matilde aveva cercato di evitarlo il più possibile: ormai conosceva il suo orario e, per non vederlo al cambio dell’ora, si allontanava velocemente dalla classe e arrivava in ritardo di almeno cinque minuti quando sapeva che lui sarebbe dovuto uscirne. Aveva dato forfait al suo turno di sorveglianza in cortile quel mercoledì: nessuno si curava dei professori e gli alunni erano comunque troppi per poterli tener d’occhio. A ricreazione non si fermava più a prendere un caffè in sala insegnanti, ma si aggregava ai suoi colleghi nelle varie aule, sapendo che non lo avrebbe incontrato lì.

Fuori dall’orario di lavoro, però, non riusciva più a riempire il tempo. Quando non aveva davanti trenta studenti a cui insegnare o dei colleghi che la tenessero impegnata, i suoi pensieri correvano irrimediabilmente a quel pomeriggio. Si rendeva conto di essersene andata in modo sgarbato, abbandonandolo là senza una vera e propria spiegazione. Aveva riflettuto a lungo sulle conseguenze di una loro ipotetica relazione e, sebbene non ci fosse la certezza che lui sarebbe stato ancora disponibile ad accettarla dopo quel rifiuto, non riusciva a decidersi.

Una parte di lei, quella più razionale, continuava a ripeterle che era un rischio non indifferente: non poteva essere sicura che lui fosse l’uomo giusto per lei e rischiare di rovinare ciò che aveva conquistato dopo tanti anni di studi e fatica non era accettabile senza quella sicurezza.

Spesso però veniva sopraffatta dalle immagini di un futuro felice, con un uomo al suo fianco che la capiva e che era disposto a mettersi in gioco per lei. Non erano insegnanti di ruolo, avrebbero potuto ritrovarsi a lavorare in posti diversi nel giro di pochi mesi. Infine, anche se fossero rimasti nella stessa scuola, il problema si sarebbe sollevato solo se tra di loro qualcosa fosse andato storto.

Vale la pena di rischiare?

Quell’interrogativo la stava tormentando e nessuno sembrava aiutarla. Aveva confessato i suoi dubbi alla sua più cara amica, colei che conosceva dall’infanzia e di cui era certa di potersi fidare. Le aveva detto di prestare attenzione, di non gettarsi nel fuoco se non era certa di poter sopravvivere. Sua nonna invece, quell’amorevole donna che l’aveva cresciuta e con cui aveva un legame molto forte, più forte di ciò che la legava a sua madre, le aveva consigliato di buttarsi senza guardare indietro, perché la vita non è fatta di sola sopravvivenza.

Quella mattina si era svegliata con le parole di sua nonna in testa e, nel torpore mattutino, si era ricordata delle parole di Alfred Tennyson.

How dull it is to pause, to make an end,
To rust unburnish'd, not to shine in use!
As tho' to breathe were life!

Come se respirare fosse vivere! Quanti scrittori avevano espresso questo concetto nelle loro opere! Come poteva non essersene resa conto prima! Aveva sempre saputo cosa fare, che persona voleva essere. Se si fosse allontanata da lui, non sarebbe diventata altro che una donna apatica, spaventata dalla vita, che rinuncia a ogni possibilità di felicità per non rischiare. Lei non voleva essere quella persona.

Matilde voleva essere una donna forte, indipendente, in grado di affrontare le difficoltà della vita e di mettersi in gioco per guadagnare il massimo da ogni esperienza. In quell’occasione, nella possibilità di avere una relazione con George, desiderava accettare. Non avrebbe più permesso al suo cervello di frenarla.

Aveva passato le prime tre ore di lezione quasi in trance: aveva spiegato un canto dell’Inferno dantesco e alcune poesie di Pascoli senza rendersene conto, arrivando talvolta a temere di aver detto qualcosa di inappropriato o personale.

Si era resa conto che ciò che più temeva, le difficoltà nell’ambiente di lavoro, non sarebbero state una conseguenza di una loro ipotetica rottura, ma erano già una realtà: dal momento in cui l’aveva rifiutato, non era più stata la stessa. Tentare di risanare quel rapporto avrebbe migliorato la situazione anche sotto questo punto di vista.

Al suono della campanella della ricreazione aveva congedato subito i ragazzi e si era diretta al secondo piano, dove sapeva che George aveva una lezione. Aveva sentito da alcuni colleghi che, in quegli ultimi giorni, il professore si presentava in classe durante l’intervallo per sistemare le sue cose mentre i ragazzi erano fuori. Fortunatamente quel giorno splendeva il sole e tutti si erano riversati in cortile, così il corridoio era vuoto. George era già nell’aula e dava le spalle alla porta mentre digitava qualcosa al computer. Decisa e senza ripensamenti, Matilde aveva chiuso la porta e si era avvicinata a lui. L’aveva baciato senza nemmeno salutarlo, senza preavviso, proprio come aveva fatto lui la settimana precedente.

La reazione, però, era stata diversa dalla sua. Non appena si era reso conto di chi aveva davanti, George aveva ricambiato il bacio, stringendola a sé con una forza quasi eccessiva.

«Non è troppo tardi, vero?» aveva chiesto Matilde, guardandolo negli occhi.

Lui le aveva sorriso e l’aveva baciata di nuovo, rispondendole con un gesto molto più significativo di mille parole.

Si erano dovuti separare al suono della campanella, con la promessa di rivedersi alla fine della giornata.

Matilde era andata nella sua classe e aveva distribuito le versioni ai ragazzi, si era seduta alla cattedra e aveva cominciato a leggere i temi, distraendosi di tanto in tanto ma con una maggiore consapevolezza di sé, ora che l’ansia se n’era andata.

   
 
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